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NON
è + tempo di Videoarte
IL PENSIERO DELL'IMMAGINE
NEL CONSUMO TECNOLOGICO DELLA TEMPORALITA'
di Antonello Zanda
Che ne è dell’immagine nel tempo
della videoarte? E che ne è del tempo nell’immagine della
videoarte? Questa ritorsione speculare della domanda non è segno
di una vocazione al gioco linguistico, ma è dentro la natura stessa
dell’immagine nell’era dell’elettronica e delle nuove
tecnologie. Infatti l’immagine nella videoarte viene sottratta al
giogo della rappresentazione fantasma ed è sempre più invischiata,
se non consumata, nei processi tecnologici che la producono. Precisiamo
subito che qui si intende la videoarte nel senso più ampio del
termine, come ogni prodotto artistico in cui è presente l’elemento
video e che quindi abbia a che fare con la produzione di immagini elettroniche.
Il tempo della videoarte, o meglio, la temporalità sradicata testimoniata
nella/dalla videoarte, è un corpo mutante, un oggetto non più
definibile perché la sua natura è quella di sottrarsi alla
definizione, all’insidia della staticità. Il suo tempo (la
sua instabilità) è incontenibile, e il suo esondare concettuale
è tale che l’unica figura atta ad esprimere la sua riproducibilità
moltiplicante è l’immagine frattalica e rizomatica. Il suo
principio costitutivo è l’indeterminatezza, una tensione
immateriale inflattiva che produce la vitalità informale di un
orizzonte infinito, a fronte di una sua elementare discrezione e puntualità,
di un’oggettività spesso semplificata e di una impalpabilità
che la sottrae ai processi di reificazione commerciale. In questa mappa
impossibile dei tesori videoartistici è tuttavia possibile avvertire
– con lo slancio analitico e il coraggio del minimalismo concettuale
– un rumore di fondo che segnala il fattore creativo conseguente
e derivato dalla pervasività della videoarte, diventata il terreno
di gioco in cui le distanze tra immaginato, immaginante e immaginabile
tendono a consumarsi, raccogliendosi in un buco nero virtuale. Già
Deleuze faceva notare come l’immaginario non identifichi l’irreale,
ma un regime di indissolubilità e insieme incommensurabilità
di reale e irreale, che si fa tempo come scambio tra immagine attuale
e immagine virtuale. È così possibile dire che la videoarte
trova luce in questo immaginario. Perciò la sua dimensione è
fuori della temporalità, là dove il tempo è un altro
tempo, un altro modo di essere del tempo. Il carattere irriducibile e
instabile del tempo (l’immagine tempo) modifica l’ordine del
presente e lo libera dalle consuetudini del pensiero quotidiano. Così
il tempo è mutante, in quanto ha perso la configurazione lineare.
L’artista, un artista sui generis sempre più coincidente
con la figura media dell’essere umano del XXI secolo, ha polverizzato
la processione discreta e lineare del tempo. Il prima e il dopo sono anch’essi
determinati dall’immagine e non più nell’immagine.
In una parola: il tempo è ricreato e la sua immagine è ricostruita
secondo le condizioni oggettive della rappresentazione. Così attualizzato
in un farsi presente il tempo è, preso immediatamente, di fatto
annichilito. Il prima e il dopo ora sono fuori dell’immagine. In
tutt’altro modo operava il cinema narrativo con il montaggio, in
cui la linearità temporale (la pellicola come immagine analogica
del tempo) era mantenuta intatta e riprodotta dalla/nella struttura narrativa.
Si è fatto un bel salto dai tempi del fantascope di Etienne-Gaspard
Robertson (era il marzo del 1799), che costruiva spettacoli multimediali
proiettando fantasmi su una tela bianca con odori d’incenso che
bruciava in sala e rumori acuti e stridenti. L’immagine era dentro
il gioco dell’illusione della realtà, modellata sulla temporalità
dello spettatore. Ma l’illusione non poteva separarsi dalla dimensione
del reale (quella dello spettatore, appunto) perché il tempo della
visione era dentro la visione del tempo di tutti. In questo senso il cinema
non è mai uscito dal circolo della comunicazione, configurandosi
immediatamente come logon koinon, linguaggio comune. La fuga
nell’irrazionale narrativo – prendiamo ad esempio il cinema
espressionista – alterava il reale e forzava il recinto della comunicazione,
ma non metteva in discussione la temporalità. La decostruzione
avveniva in ragione di una ricostruzione che alterava le modalità
della visione, ma non le cancellava per ridefinirle. In ambito cinematografico
furono le avanguardie degli anni Venti ad approfondire la ricerca sulla
natura dell’immagine. La macchina ottica del cinema non aveva però
un orizzonte esclusivamente autoreferenziale, come si trattasse di una
sorta di autoanalisi in cui si sperimentano e si esercitano le capacità
innovative del medium. Nel vedere i film di Man Ray e Richter, Duchamp
e Buñuel, Clair e Picabia, Léger e Fischinger e persino
nella particolare esperienza di Artaud si vive una ricognizione della
radicalità del tempo e dello spazio: le immagini sono sganciate
dal terreno della successione e dal sistema degli assi cartesiani per
essere sviluppate come forme della pura espressione. L’autonomia
dell’immagine doveva esser totale. L’idea di Artaud era quella
di «un cinema capace di leggere le azioni in termini di visualità
e di non ridurre la visualità a un gioco formale di linee, un cinema
che assuma tutta la complessità del soggetto e dell’immaginario,
e insieme sappia far vivere integralmente sullo schermo questo spessore
psichico... C’è in Artaud una consapevolezza assai forte
del carattere di rottura e di novità radicale che il cinema può
introdurre nel campo del simbolico» (Paolo Bertetto, Il cinema
d’avanguardia: 1910-1930, 1983). Tuttavia la costruzione spaziale
dell’immagine è ancora sottoposta alla catena temporale cui
resta soggetto il simbolico: in questo schema lo spettatore è sì
un punto di vista esterno, ma è anche interno quale momento fisico
del tempo della visione. L’esperienza ordinaria del tempo è
che esso sia composto di istanti, i quali si succedono senza riferirsi
all’unità. Il tempo ignora la continuità, eppure nel
chiamarsi all’attenzione del concetto ignora anche la discontinuità.
La nostra esperienza ne coglie espansioni e contrazioni, densità
e dileguatezza. Il tempo ci appare «pieno, vuoto, intenso o piatto,
vertiginoso, banale, tagliato molto a lungo da una brusca faglia, pieno
uniformemente e continuamente bianco» (Michel Serres, Genesi,
1988). Il lavoro del tempo sui suoi elementi discreti è ben sintetizzato
da Serres quando dice che esso «acclimata in sé tutte le
negazioni, accoglie al suo interno, positivamente, l’indefinito
di tutte le determinazioni». Nel cinema il fotogramma è una
porzione di inquadratura che denuncia la sua indefinitezza perché
il fotogramma si definisce in un primo tempo in relazione alla sequenza
e in un secondo tempo in rapporto al montaggio. Se l’immagine cinematografica
si è fatta linguaggio per raccontare e mediare significati, l’immagine
nella videoarte si è fatta linguaggio per parlare di sé
in quanto linguaggio. Le avanguardie del cinema degli anni Venti avevano
certo fatto i primi passi importanti per aprire le porte di una riflessione
metalinguistica. Tuttavia nell’ignorare radicalmente e a priori
il fattore tempo non lo mettevano in discussione, ma anzi valorizzavano
la temporalità della visione dello spettatore che subiva e viveva
la frizione di una visione temporale della atemporalità. La frizione
non creava consapevolezza in un tempo in cui la narratività dell’immagine
esplorava l’estetica del mondo reale ancora lontano dallo scoprire
i propri limiti. Bisogna attendere il narcisismo della videoarte per riprendere
i nodi della questione, un narcisismo di fondo che è dentro la
specularità della domanda iniziale, perché l’immagine
della videoarte si guarda e mostra il tempo dell’immagine di sé.
Ed è un tempo nuovo, radicale, diverso, altro. Se è vero
che l’immagine elettronica con l’avvento del televisore è
entrata di forza nelle mura domestiche e ha rivoluzionato l’intera
sfera della sensibilità quotidiana, è anche vero che la
natura plastica elettronica dell’immagine video consente di sottrarre
il linguaggio televisivo alla banalità rappresentativa del senso
comune, perché in esso il reale sfuma e fluttua con l’irreale
dentro il corpo dell’immaginario, muovendosi tra visibile e invisibile.
La videoarte mostra e genera vuoti, tagli, spazi che il tempo non riempie.
La tecnologia elettronica ci mette così di fronte alla natura immateriale
dell’immagine video, la cui struttura ha trasformato l’orizzonte
spazio-temporale cui ancora si riferiva l’immagine cinematografica.
L’immaginazione elettronica non ha più bisogno del mondo
reale per raccontare un reale che è un altro mondo. Questo aspetto
è già dentro la consapevolezza teorica del gruppo Spaziale,
che in Italia il 17 maggio 1952 stilò un Manifesto, facendo seguito
a una trasmissione televisiva sperimentale di Fontana, una di quelle che
hanno preceduto l’inizio ufficiale delle trasmissioni (1954). Si
legge nel Manifesto: «È vero che l’arte è eterna,
ma fu sempre legata alla materia, mentre noi vogliamo che essa ne sia
svincolata, e che, attraverso lo spazio, possa durare un millennio anche
nella trasmissione di un minuto. Le nostre espressioni artistiche moltiplicano
all’infinito, in infinite dimensioni, le linee d’orizzonte:
esse ricercano una estetica per cui il quadro non è più
quadro, la scultura non è più scultura, la pagina scritta
esce dalla sua forma tipografica». Ma il cinema degli anni Quaranta
e Cinquanta aveva già messo in evidenza con i lavori di Maya Deren,
Stan Brakhage e Gregory Markopoulos, incursioni significative sulla natura
del tempo rinnovate successivamente dalle opere di Andy Warhol, Michael
Snow, Jonas Mekas e del movimento Fluxus. Nel 1963 Nam June Paik, uno
dei pionieri della videoarte, espone nella galleria Parnass di Wuppertal
la sua installazione Exposition of music-electronic television,
che incorpora duchampianamente nell’immagine il soggetto dell’immaginante.
Nam Jun Paik, Sfera. Punto elettronico,
1990-92, video installazione |
Nam
Jun Paik, TV cello, 1992, video installazione |
Ma ancora in ambito cinematografico, nel
1964, due artisti italiani, il pittore Gianfranco Baruchello e il cineinventore
Alberto Grifi, realizzarono un’opera, La
verifica incerta,che entra nel corpo vivo del tempo, smontando l’idea
di tempo lineare che procede dall’inizio alla fine di un film e
segnando una svolta nell’approfondimento del senso del tempo, del
ritmo e del movimento, che ha nel Vertov di Un uomo con la macchina
da presa il suo più illustre e diretto antecedente. I due
comprarono un camion di pellicole destinate al macero, 150 mila metri
di pellicola in cinemascope della Hollywood degli anni Cinquanta e Sessanta:
«l’idea era di percorrere alla rovescia la genesi di un film:
non partire dallo script per arrivare alle immagini, ma usare le immagini
– esistenti/di consumo – per costruire una storia intorno
a un personaggio unico (Eddie Spaniel), che si diramava in cento direzioni
impreviste e simultanee» (Baruchello). Quest’opera, che si
muove ancora oggi contro il cinema tradizionale, fu presentata per la
prima volta a Parigi, nel maggio del 1965, da Marcel Duchamp, a cui era
dedicato, davanti a un pubblico eccezionale tra cui Man Ray, Max Ernst
e John Cage. I due autori hanno tagliato e rimontato spezzoni di storie,
di situazioni topiche, con porte e finestre che si chiudono ripetutamente,
baci che si ripetono e si inseguono, gesti e parole convenzionali che
danno il ritmo alla visione. Con quest’opera il cinema, prima dell’avvento
dell’elettronica, tocca i limiti delle sue possibilità di
mettere in discussione il fattore tempo. La verifica incerta smonta il
tempo nella sua linearità discreta e ne moltiplica gli effetti
emozionali. Sono infatti le immagini e il ritmo del montaggio che cortocircuitano
il senso della narrazione. Il tempo è tempo rubato al movimento
e al suo sviluppo lineare e così riciclato, continuamente restituito
in circolo. La visione risulta così composta da una molteplicità
di shock, rimettendo con ciò in discussione gli stessi principi
della conoscenza. In sé l’idea non era nuova, ma nessuno
aveva pensato di tradurla. Walter Benjamin in Parco Centrale (Angelus
Novus) sostiene che a partire dal XIX secolo le forme di trasmissione
di conoscenza metropolitana avvengono preferibilmente attraverso shock.
Lo shock sarebbe un fenomeno provocato da elevate energie operanti all’esterno
dell’organismo e che irrompono verso l’interno dell’organismo
stesso come fosse un buco nero. Per utilizzare una figura sarebbe come
dire che la trasmissione di conoscenza avviene tramite un proiettile che
ha possibilità di arrivare a destinazione generando un impatto
direttamente proporzionale alla propria velocità. Quest’impatto,
cioè questo shock, rappresenta una forma di trasmissione del sapere
che esautora e mette in crisi la socialità della trasmissione di
conoscenza tramite narrazione. Questo shock è la sintesi della
crisi della narrazione e della sua colonna portante, il tempo. Capiamo
bene allora cosa vuol dire Deleuze quando afferma che il cinema fa la
sua rivoluzione kantiana perché cessa di subordinare il tempo al
movimento. In forza di ciò l’immagine cinematografica diviene
un’immagine-tempo, una autotemporalizzazione dell’immagine.
L’immagine-tempo è processo di realizzazione di un linguaggio
e di una concezione del tempo, ma non solo: lega, smonta, ricompone attivamente
parole e cose, immagine con percezione e linguaggio e innesca una temporalizzazione
di questo prodotto nel suo complesso. La videoarte, ma non di meno il
cinema oggi attraversato dalla tempesta della creatività delle
nuove tecnologie, entra nel vivo del rapporto tra immagine e concetto
costruendo un’immagine del pensiero, o meglio dei veri e propri
meccanismi di pensiero. Dopo Nam June Paik un lungo corteo di autori ha
esplorato e immagazzinato nel buco nero della videoarte opere eterogenee.
Si va dalle vere e proprie produzioni videografiche (l’immagine
elettronica lavorata dall’artista) alle registrazioni di performance
azioni ed eventi, dalle video-sculture ai video-ambienti, dalle videoinstallazioni
(combinazione di dispositivi eterogenei) alle videoperformance multimediali
(combinazione del linguaggio video con altri
linguaggi come danza e teatro), fino alla più recente net-art.
L’universo
magmatico della videoarte è animato da moltissimi autori come Woody
Vasulka, Wolf Vostell, Studio Azzurro, Gianni Toti, Fabrizio Plessi, Bill
Viola, Peter Greenaway, Gary Hill, per citare solo alcuni tra i più
conosciuti. Con la videoarte l’immagine si fa pensiero mutante.
E il pensiero dell’immagine ha ancora molto da pensare.
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