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Genetica dell'Immaginario
intervista a
Salis & Vitangeli
di Antonello Fresu
A.F.: La riflessione
sulla scienza intesa sia come ricerca, genetica, biotecnologia, sia come
espressione di un modello di pensiero – quello scientifico – ha da sempre
caratterizzato il vostro lavoro. In che modo è nato questo interesse?
S.&V.: Ci siamo incontrati, da subito, su un territorio
comune che era l’interesse per la contemporaneità. Il dibattito sulla
scienza, sulle biotecnologie e sull’eugenetica, era quello più allargato,
più diffuso. Riteniamo che il pensiero scientifico dialoghi sempre di
più, oggi, con altre forme di pensiero. Lavoriamo, pertanto, ad un progetto
che si pone, come amiamo dire, «fra la scienza e il destino»:
da una parte una realtà divorata dalla tecnologia e, dall’altra, un’idea
di destino che, invece, non ha direzione e va in tutte le direzioni. Ciò
che a noi interessa, in particolare, è lavorare sull’immaginario
che la scienza può provocare. La scienza ci ha sempre interessato soprattutto
come ipotesi, per la sua capacità di aprire inedite chiavi di lettura.
Nel momento in cui queste chiavi di lettura non sono più così immaginarie,
ma diventano reali, nasce una sorta di spiazzamento, semantico, nei confronti
del mondo. La scienza ci interessa soprattutto da questo punto di vista,
come origine del cambiamento culturale che, modificando la realtà,
modifica il nostro modo di pensare e percepire il mondo, spingendoci verso
la configurazione di un nuovo “albero della conoscenza”.
A.F.:
È come se la scienza, però, invadesse il vostro campo, arrivando a
diventare la finalità stessa della creatività artistica…
S.&V.: Mai come in questo periodo l’arte ha mostrato
la sua fragilità, rendendosi spesso insufficiente. La scienza è qualcosa
di fronte alla quale è difficile non fare riflessioni, come artisti. Essa
è riuscita, sempre di più, a produrre meraviglia scardinando assiomi che
appartengono al mondo da secoli, spiazzando le nostre convinzioni e convenzioni,
in un modo fino ad oggi impensabile. Arrivano, così, altri linguaggi,
altri pensieri, altri percorsi, che producono a loro volta nuove scoperte
alle quali la scienza perviene, comunque, attraverso la creatività, un
po’ come l’artista che lavora ad un’opera.
A.F.: Parlare di scienza comporta però, oggi, un
inevitabile riferimento all’etica. È pensabile, in questi termini, un’etica
della creatività, sia per la scienza che per l’arte?
S.&V.: L’etica può configurarsi non tanto nel prendere
o non prendere, semplicemente, una posizione su qualcosa, quanto nell’essere
il più possibile consapevoli della realtà stessa e, quindi, nel fare il
proprio lavoro nel miglior modo possibile. È un periodo, questo, dove
l’etica e la sua imprescindibilità sono state, inevitabilmente, messe
in discussione. In questo senso, l’etica è un valore che ha perso, in
parte, il suo ruolo, mentre allo stesso tempo sono nate tutta una serie
di speculazioni del pensiero artistico che hanno reso la realtà delle
cose sempre più seducente, con o senza un rapporto con l’etica. Come artisti
noi abbiamo con l’etica un meta-rapporto e pensiamo che questo secolo
sarà tutto proteso a riconquistarla. E l’arte, pur con tutta la sua fragilità,
può costituire per l’artista l’unica forma di negoziazione possibile.
A.F.:
È questo il senso di It from bit, l’installazione da voi
presentata nella prima mostra a Genova?
S.&V.: La frase di Wheeler, che dava il titolo al lavoro,
ha rappresentato la metafora che a noi serviva in quel momento. In realtà,
sono le peculiarità della scienza quelle che ci interessano, espandere,
cioè, i frammenti delle scoperte scientifiche. Non sposiamo la scienza
come filosofia, nella sua totalità, ci interessiamo delle singolarità,
quelle che corrispondono di più alla nostra concezione del mondo. Ci interessa
investigare, dilatare, attraverso la curiosità di chi fa arte. Il nostro,
da sempre, è un lavoro sulla sospensione, sullo stallo, ed è per questo
che It from bit, sia nei presupposti teorici che nella sua realizzazione,
rimanda a quest’idea della sospensione, del rimbalzo continuo. Wheeler
affermava che al cuore di ogni cosa non c’è una risposta, ma una serie
infinita di domande. Nella realizzazione di questo lavoro abbiamo usato
due statuine dall’aspetto regale che sono servite per produrre un’immagine
fotografica e
164 cloni, chiamiamoli così, delle statuine. L’immagine fotografica
rappresenta le due figure di spalle e fuori fuoco, disperdendo il loro
essere reali. Ed anche nel momento in cui quest’immagine diventa reale
e tangibile, come clone tridimensionale, appare comunque privata di tutti
i suoi attributi, grazie all’utilizzo di un materiale completamente neutro
come la resina. Uno stallo continuo, quindi, tra l’immagine bidimensionale
dell’originale e il tridimensionale dell’installazione, un continuo inseguirsi,
quasi, fra le due immagini di spalle e questa sorta di marcia anonima
verso l’immagine.
A.F.: Si coglie, in quest’opera, una sorta di movimento,
di vibrazione, che mi pare una modalità che continua ancora oggi ad appartenere
al vostro lavoro.
S.&V.: Quando lavoriamo sull’immagine, cerchiamo di causare
sempre un movimento di questo tipo. Anche quando lavoriamo esclusivamente
sull’immagine bidimensionale, cerchiamo molto questa sorta di oscillazione,
provocata anche attraverso l’uso di una stratificazione di linguaggi,
fra il digitale, la fotografia e la pittura. Quest’ultima resta un qualcosa
che ci interessa comunque molto, anche quando usiamo il digitale: è come
se cercassimo sempre il senso della pittura, una sorta di elemento
contemplativo che ha tempi di consumo lento. Le nostre immagini non hanno
un consumo veloce, ti tirano dentro e ti rimandano fuori, vogliono far
oscillare anche te. Questo grazie anche al fatto che lavoriamo molto sull’iconografia,
anche per la necessità di ritrovarla. Crediamo anche, infatti,
che l’arte ritorni a fondare il proprio valore proprio sull’iconografia.
È chiaro che questa coniugazione di tecniche e di linguaggi, favorisce
tutto ciò: applichi dei meccanismi, e ne scopri altri che non conoscevi
che, a loro volta, ti aiutano a raggiungere mete estetiche impreviste
e imprevedibili, condizione, questa, sempre molto interessante per un
artista.
A.F.: Un elemento iconografico ricorrente nel vostro
lavoro è quello delle case, case capovolte, però…
S.&V.: Ci fanno notare, a volte, che nei nostri lavori
le
case sono rovesciate. Noi rispondiamo che nella realtà le case sono diritte,
dipende da dove si abita. La nostra realtà è la realtà rovesciata, devi
insomma decidere quale luogo abitare, qual è la tua parte del mondo. Lavorare
su queste case è anche un modo per lavorare sulla realtà, e questo fa
parte di una “scelta di osservatorio”. È per questo che ci interessano
molto anche gli osservatori, intesi anche come luoghi fisici, in quanto
sono un concentrato poetico straordinario. Ma lavorare sulla casa rovesciata
è anche lavorare sul riflesso di una casa, e quindi su un qualcosa che
è inerente la realtà, ma che restituisce di essa la parte impalpabile.
Il riflesso di una casa è una casa, ma una casa assolutamente immateriale,
smaterializzata. È per questo che la casa, nel nostro lavoro, ha assunto
un significato particolare, esteso. In realtà, anche quando lavoriamo
sulle immagini satellitari, lavoriamo ancora sull’idea di casa. In fin
dei conti i nostri sono tutti modi per ragionare sulla casa intesa
come luogo del pensiero. Un po’ come il concetto dello spazio di Bachelard
che, restituendoti questa stessa visione, ti riporta ad una architettura
del pensiero.
A.F.: Alcuni vostre installazioni, penso a Welcome
e À un seul, si caratterizzano per l’utilizzo ricorrente della
cenere .Quale funzione attribuite a questo elemento?
S.&V.: In queste due installazioni c’è stata la scelta
di un materiale già di per sé carico di significati. In più, si trattava
di cenere vulcanica, che, nonostante sia il frutto di qualcosa di esplosivo,
diventa impalpabile, sospende e congela tutto. Un materiale,
quindi, che ferma il tempo e contemporaneamente, però, registra ogni cosa
sotto di sè, ogni piccolo particolare, in una sorta di sospensione della
memoria, e questo, in fondo, appartiene al nostro modo di intendere il
lavoro. Un po’ come il riflesso delle case delle nostre opere. Anche la
cenere, in fondo, assolve alla stessa funzione, restituisce un po’ il
riflesso di qualcosa: tutto ciò che sta sotto la cenere è ancora perfettamente
leggibile, ma solo nella sua forma più essenziale.
A.F: Qual è stato il punto di partenza per il progetto
di À un seul?
S.&V.: L’installazione nasce da un’affermazione di Saussure,
secondo la quale «a uno soltanto la lingua non servirà a niente». À un
seul è forse uno dei lavori che presenta maggiormente il senso della pericolosità
delle cose, una lettura più precisa della contemporaneità e della sua
pericolosità. È un’opera, se vogliamo, sulla solitudine, ma sulla solitudine
provocata da uno stop evolutivo. L’evoluzionismo era un pensiero che ci
affascinava molto quando realizzammo quest’opera. Pensavamo all’evoluzione
come concetto di sperimentazione totale, una sperimentazione in assoluto,
che lavora col materiale di cui dispone per arrivare a risultati sorprendenti.
In seguito, in questo senso, abbiamo utilizzato delle aquile clonate.
Le aquile vedono molto lontano e in laboratorio, pare, hanno costruito
un occhio che simula quello dell’aquila. Forse tra qualche anno potremo
impiantarlo nel nostro corpo e vedere a 25 chilometri di distanza. Cosa
potrà succedere, come elaborazione, se riesci a vedere a tale distanza?
Ad essere miopi, ad esempio, si ha una certa visione, anche della vita...
A.F.: Nel lavoro c’è
una bocca cucita e, paradossalmente, cucita dalla “lingua”, come se la
lingua diventasse impossibilità strutturale a comunicare. Ma, se l’artista
vede lontano, che cosa potrà comunicare di ciò che vede?
Nel vostro lavoro, la capacità di parlare è fermata dalla lingua.
C’è un po’, in questo, il destino dell’artista?
S.&V.: Pensiamo che ciò corrisponda in qualche modo a
quello che attualmente la realtà ci propone: una visione dell’artista
che guarda sempre oltre ed è, in questo senso, una sorta di preveggenza
o di destino.
A.F.: C’è qualche rapporto
tra tutto questo e un lavoro come Welcome?
S.&V.: In Welcome
c’è una continuità strutturale fra gli oggetti e il rapporto che essi
hanno con le voci, perché gli oggetti sono delle conchiglie “clonate”.
Sono conchiglie filippine, molto particolari perché molto appuntite, che
noi abbiamo clonato e poi fuso. Qui, la conchiglia, è intesa anche come
casa: una casa trasportabile, e trasportata, ad altri luoghi. Così come
le voci, le conchiglie condividono un concetto di estinzione: un elemento
appartiene alla natura, l’altro alla natura dell’uomo, ed entrambi rischiano
di fare la stessa fine. Le voci sono dieci messaggi di benvenuto in dieci
lingue in via di estinzione. Ci piaceva pensare, mentre lavoravamo alle
voci, al paradosso del fatto che queste lingue fossero preservate da un
computer, da un qualcosa al quale in genere si imputa invece la sparizione
di molte specificità. Abbiamo trovato, infatti, su internet, una quantità
infinita di materiali audio, appositamente raccolti allo scopo di preservarne
la memoria. Molti siti conservano files audio che riguardano lingue idiomatiche
o lingue vere e proprie, estinte o a rischio di estinzione. Anche la conchiglia,
per sua natura, conserva e protegge. Queste conchiglie, case anche queste,
sono come aculei, delle piccole roccaforti: sono case da difesa, difesa
dal mondo.
A.F.:
Come molti altri artisti del panorama nazionale ed internazionale
siete una coppia nell’arte e nella vita. In che modo nasce il lavoro in
una coppia?
S.&V.: Nasce da varie fascinazioni subite, comunicate,
trasmesse a vicenda. L’aspetto più importante del lavoro risiede nel fatto
di comunicarsi costantemente le idee e nel ridefinire continuamente tutti
i parametri. Alla base di tutto c’è un grande desiderio di confrontarsi
culturalmente sulle nostre rispettive visioni del mondo, vedere se poi
i progetti coincidono e, se non coincidono, che cosa provocano. Coniugarli
fra loro e farne un pensiero unico che noi, a volte, abbiamo definito
come terza poetica. Ciò che ci seduce di più è il privilegio
di avere a portata di mano la continua fibrillazione di un confronto.
A. F.: Oggi siete Salis & Vitangeli, ma entrambi
avete alle spalle dei percorsi artistici individuali. È stato difficile
il passaggio verso la “coppia”?
S.&V.: Ci siamo accorti, ad un certo punto, che ciò che
prima era il consigliarsi a vicenda, l’interferenza reciproca nei rispettivi
lavori, cominciava a diventare qualcosa di cui non si poteva più fare
a meno. Ed è lì che, ad un certo punto, è scattata la seduzione...
Giovanna Salis è nata a Sassari nel 1970. Massimo Vitangeli è nato
a Perugia nel 1950. Vivono e lavorano a Polverigi, nelle Marche.
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