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Serialità e Identità
intervista a
Giulia Sale
di Anna Rita Chiocca
Giulia Sale definisce la sua attività
artistica muovendosi agevolmente tra interventi organizzativi e opera
creativa. Da un lato risulta fondamentale – nella prima parte della
sua attività artistica – l’esperienza all’interno
del gruppo I Fiori Blu; dall’altro la personale ricerca
artistica individuale focalizzata sul rapporto presenza-assenza, tra il
sé e altro da sé in un gioco di scambi tra osservato e osservatore.
A.R.C.: Nei tuoi lavori
c’è un’attenzione “relativa” per l’oggetto
rappresentato. C’è il
recupero di immagini scattate da altri dove tu stessa sei il soggetto,
insomma, ci sono tue fotografie ma, sostanzialmente, un tuo interesse
per lo sguardo altrui. La fotografia è un espediente per parlare
d’altro?
G.S.: È vero, il soggetto
è relativamente importante, l’uso della fotografia garantisce
una immediatezza nel riconoscimento dell’oggetto, ma il senso è
al di là dell’oggetto stesso. Per questo motivo tendo ad
eliminare il più possibile tutto ciò che nella singola immagine
può essere fuorviante. Un elemento fondamentale nel lavoro è
l’aspetto seriale. Tutti i lavori in realtà sono delle serie
potenzialmente infinite: sia quelli dove sono io il soggetto diretto,
sia quelli delle Città, delle Case e così
via.
A.R.C.: Questi lavori “potenzialmente infiniti”
si strutturano nel tempo e sul tempo. Come ti rapporti con questo elemento,
come lo affronti nel tuo lavoro?
G.S.: L’elemento temporale è lo statuto
su cui si basa la fotografia. L’hic et nunc, che è
costitutivo dell’immagine fotografica, in realtà non mi interessa
se non in quanto qualunque immagine è, comunque, qualcosa che “è
stata”, nel senso che appartiene al passato. Nella personale del
1999 a Palazzo Ducale a Sassari, tutte le immagini erano affastellate
senza alcun riguardo per la cronologia degli avvenimenti, l’ordine
scelto era quello tematico e comprendeva, indifferentemente, tempi diversi
che facevano riferimento al vissuto di una stessa situazione.
A.R.C.: Le opere a cui fai riferimento sono Sola, Gli
studi, I fidanzati. In effetti, la tua ricerca era caratterizzata,
in quel periodo, da opere che avevano tutte te stessa come
soggetto
e dalla parola “self” che ritornava nei titoli come leit motiv:
penso a Fronte/Retro (self), Senza Polvere (self), Fino
al 1998 (self), dove appare evidente che a fare da protagonista è
lo sguardo più che il soggetto. Molte di quelle foto sono state
scattate da altri in un contesto del tutto privato. In cosa consisteva
il tuo intervento?
G.S.: La scelta di utilizzare la mia immagine
nei miei lavori nasce dal fatto che in questo modo posso avere, sempre,
un soggetto a portata di mano, immediatamente e facilmente. Non ci sono
manipolazioni sui miei ritratti, sia in quelli fatti da me, sia in quelli
fattimi da altri. L’identità dell’autore stesso dell’immagine
è assolutamente irrilevante, si tratta comunque di una esposizione
volontaria allo sguardo altrui.
A.R.C.: C’è un aspetto un po’
macabro nell’operazione con le foto tessera su ceramica, sorta di
archivio che riporta, mi pare, ai tuoi successivi lavori dedicati, recentemente,
al tema dei cimiteri ed alla classificazione dei fiori di Blooming
o alle tue “incursioni”, come hai fatto in alcune opere, nelle
case altrui.
G.S.: Più che macabro io lo definirei voyeuristico.
Esporsi allo sguardo, solleticare il voyeurismo altrui; entrare nelle
case è “frugare” nell’intimità altrui,
perché la casa in diversa misura ci rappresenta agli occhi degli
altri.
A.R.C.: Ritorna spesso nei tuoi lavori questa necessità
di ordinare, classificare, ma pure fare una sorta di punto della situazione,
tirare le somme di una serie di momenti o di oggetti o di immagini. Nell’ultimo
lavoro, Blooming, questo è un aspetto che emerge prepotentemente.
Invece che classificare persone, momenti di vita o immagini passate di
te stessa, classifichi fiori?
G.S.: In effetti, non mi interessa ricercare connotazioni
emotive. I miei lavori sono molto freddi, almeno apparentemente, quasi
da laboratorio di vivisezione. Gli stimoli, nella vita, sono tanti e talmente
forti che spesso l’aspetto eclatante rischia di fermare lo sguardo
alla superficie delle cose, alla loro esteriorità. La semplificazione
mira alla sintesi e in realtà ciò che risulta o dovrebbe
risultare è una stratificazione di senso. Preferisco essere “neutrale”
nel proporre l’immagine, l’oggettività per cui un fiore
è un fiore, un cimitero è un cimitero. Non mi interessa
esporre emozioni e sentimenti.
A.R.C.: In uno scritto
recente Marco Senaldi, a proposito del rapporto tra identità e
unicità riporta un esempio piuttosto intrigante riguardo Anna Oxa.
Alla serata inaugurale del Festival di Sanremo 2003 l’esibizione
della medesima Oxa era stata preceduta dalla proiezione delle sue mise
nelle precedenti edizioni e poi, ciascuna di queste immagini del passato
si era concretizzata sul palco in altrettante simil-Oxa, ciascuna incarnazione
vivente di un singolo istante di esistenza dell’“originale”.
Per afferrare il quid inafferrabile di una personalità
– dice Senaldi – ci si affida all’esposizione di una
galleria di immagini individuali diverse, lasciando intendere che ciò
che fa di una persona “proprio quell’individuo” è
l’insieme provvisorio delle sue diverse facce. Il tuo lavoro con
le foto ceramiche, così come Gli studi o I Fidanzati
percorrevano questo territorio?
G.S.: Che una persona sia “proprio quella persona”
per l’insieme delle sue diverse facce è cosa talmente ovvia
che non vale la pena parlarne, non mi interessa. Mi intriga di più
una persona come Valeria Marini, e l’aspetto grottesco del parlare
con la propria immagine, così come l’ha rappresentata televisivamente
Sabina Guzzanti, nel suo gioco surreale di specchi, tanto è vero
che proprio la Marini e la sua “immagine” sono state determinanti
per questi lavori.
A.R.C.: È un gioco intrigante, un eccesso
di narcisismo, per altro molto affascinante. Ma questo sguardo rivolto
verso te stessa, verso le tue immagini del passato ad un certo punto è
finito ed hai iniziato a “guardare” gli altri. Come è
avvenuto questo passaggio?
G.S.: È un guardare gli altri che rimane, però,
sempre rapportato a me stessa. Nella serie delle Città,
io compaio direttamente in un lavoro: Sassari 1965 del ’99.
Anche in questo caso si tratta, comunque, di luoghi in cui sono stata,
in cui ho vissuto, di persone che ho conosciuto; le case di amici e conoscenti,
di persone con cui ho una relazione. Alla fine ci sono sempre io.
A.R.C.: Nel recente ciclo Estate del 2001,
i soggetti erano dei perfetti estranei,
all’aperto in spiaggia. Esponi e ti esponi?
G.S.: Estate è stata una ennesima campionatura,
questa volta di persone sconosciute. Spiare e rappresentare individui
per lo più ignari è stato estremamente divertente.
A.R.C.: Come progetti i lavori?
G.S.: Faccio il minimo – come ti ho già
detto – non faccio schizzi, non disegno. Il lavoro sta tutto nel
progetto mentale.
A.R.C.: Però
l’allestimento è fondamentale?
G.S.: L’allestimento non può essere casuale,
fa parte dell’opera. La strutturazione dello spazio è determinante
per la percezione del lavoro. Spazio ed elementi dell’opera sono
interdipendenti, costituiscono un sistema.
A.R.C.: Come è nato il tuo interesse per l’arte?
G.S.: Per caso. Non ho fatto studi artistici. Dopo il
diploma ho frequentato un corso di formazione professionale per operatori
fotografici e lì ho conosciuto delle persone che si occupavano
d’arte. Dopo il primo anno di corso – era un corso biennale
– partecipai ad un concorso per giovani artisti – era il 1985
– e fui selezionata come vincitrice del primo premio per la fotografia.
Nel frattempo, comunque, avevo iniziato a fare altre cose, nel 1986 c’era
stata la mostra I morbidi toffee, una serie di installazioni
in un appartamento sfitto, cui avevo partecipato con un lavoro non fotografico.
A.R.C.:
Negli anni Ottanta c’è stato un entusiasmo generale in
Sardegna, ma solo negli anni Novanta c’è stato un evidente
emergere di singole personalità di giovani. Penso agli incontri,
ai dibattiti e alle molte personali che hanno movimentato il clima creativo
nell’isola. In che modo ti sei inserita in questo clima?
G.S.: A partire dagli anni Novanta ho iniziato a lavorare
con altre persone, abbiamo costituito un gruppo – I Fiori blu
– all’interno del quale l’aspetto organizzativo era
parte integrante dell’attività artistica: faceva parte del
nostro “fare arte” l’organizzare, cercare di allargare
il campo anche a altre manifestazioni, al confronto con l’esterno.
A.R.C.: In quali anni
è stato attivo questo gruppo?
G.S.: I Fiori Blu nascevano negli anni Novanta.
La nostra prima operazione era stata quella di progettare e organizzare
una rassegna che prevedeva, attraverso la gestione di un certo numero
di mostre personali, un censimento di quella che era la scena artistica
in Sardegna. Si trattava nella maggior parte dei casi di artisti giovani,
accanto ad altri, come ad esempio Igino Panzino o Roberto Puzzu, che operavano
invece da diversi anni nell’ambito della ricerca isolana. Per i
giovani come noi, alle prime esperienze di mostre personali, il fatto
che fosse una rassegna con curatori, un catalogo, recensioni sulla stampa,
sanciva per la prima volta una appartenenza al mondo dell’arte;
era un progetto strutturato, insomma, e questo dava un certo valore all’operazione
che coinvolgeva, tra l’altro, artisti delle diverse zone dell’isola,
da Sassari fino al sud della Sardegna.
A.R.C.: Questo doppio ruolo artistico e manageriale come
hanno convissuto?
G.S.: L’aspetto artistico e quello manageriale
erano assolutamente equivalenti.
A.R.C.: Avete esposto, anche, come gruppo de I
Fiori Blu?
G.S.: Sì, abbiamo fatto diverse mostre con dei
lavori comuni, progettati e realizzati da tutto il gruppo. L’attività
organizzativa è proseguita con la rassegna Sacre sponde.
Anche in quel caso si trattava di mostre personali. In quell’occasione
abbiamo invitato a partecipare anche artisti europei aprendo la rassegna
a un confronto più ampio. In un luogo dove non esiste niente è
fondamentale che tutto ciò che si fa possa ottenere un riconoscimento
anche all’esterno; non si trattava di fare una mostra, ma di favorire
la creazione di un sistema. Perché, allora come oggi, un sistema
non c’era: si trattava, quindi, di creare occasioni di scambio e
di crescita per tutti.
A.R.C.: Questo bisogno di creare un sistema è
un aspetto interessante dell’esperienza con I Fiori Blu:
molto spesso gli artisti vivono individualmente il loro lavoro.
G.S.: Un aspetto fondamentale del nostro lavorare in
gruppo era proprio superare l’individualità del singolo artista
e favorire uno sviluppo che riguardasse il territorio e tutti quelli che
si occupavano d’arte in base alle diverse competenze. Non faccio
più parte del gruppo da alcuni anni. La nostra ultima uscita pubblica
è stata alla fine del 1994: una manifestazione che si è
svolta, contemporaneamente, nei quattro capoluoghi della Sardegna, costituita
da affissioni di manifesti per le strade della città.
Giulia Sale è nata nel 1962 a Sassari, città dove vive
e lavora.
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