Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo

Ziqqurat n°8
Sommario

Giulia Sale, Le case dolci (dalla serie), 2001, stampa digitale su acetato trasparente, 21 x 29,7 cm

Serialità e Identità intervista a
Giulia Sale
di Anna Rita Chiocca

Giulia Sale definisce la sua attività artistica muovendosi agevolmente tra interventi organizzativi e opera creativa. Da un lato risulta fondamentale – nella prima parte della sua attività artistica – l’esperienza all’interno del gruppo I Fiori Blu; dall’altro la personale ricerca artistica individuale focalizzata sul rapporto presenza-assenza, tra il sé e altro da sé in un gioco di scambi tra osservato e osservatore.

A.R.C.: Nei tuoi lavori c’è un’attenzione “relativa” per l’oggetto rappresentato. C’è ilGiulia Sale, Fino al 1998 (self), 1999, 12 foto ceramiche,11 x 15 cm ciascuna recupero di immagini scattate da altri dove tu stessa sei il soggetto, insomma, ci sono tue fotografie ma, sostanzialmente, un tuo interesse per lo sguardo altrui. La fotografia è un espediente per parlare d’altro?
G.S.: È vero, il soggetto è relativamente importante, l’uso della fotografia garantisce una immediatezza nel riconoscimento dell’oggetto, ma il senso è al di là dell’oggetto stesso. Per questo motivo tendo ad eliminare il più possibile tutto ciò che nella singola immagine può essere fuorviante. Un elemento fondamentale nel lavoro è l’aspetto seriale. Tutti i lavori in realtà sono delle serie potenzialmente infinite: sia quelli dove sono io il soggetto diretto, sia quelli delle Città, delle Case e così via.

A.R.C.: Questi lavori “potenzialmente infiniti” si strutturano nel tempo e sul tempo. Come ti rapporti con questo elemento, come lo affronti nel tuo lavoro?
G.S.: L’elemento temporale è lo statuto su cui si basa la fotografia. L’hic et nunc, che è costitutivo dell’immagine fotografica, in realtà non mi interessa se non in quanto qualunque immagine è, comunque, qualcosa che “è stata”, nel senso che appartiene al passato. Nella personale del 1999 a Palazzo Ducale a Sassari, tutte le immagini erano affastellate senza alcun riguardo per la cronologia degli avvenimenti, l’ordine scelto era quello tematico e comprendeva, indifferentemente, tempi diversi che facevano riferimento al vissuto di una stessa situazione.

A.R.C.:
Le opere a cui fai riferimento sono Sola, Gli studi, I fidanzati. In effetti, la tua ricerca era caratterizzata, in quel periodo, da opere che avevano tutte te stessa comeGiulia Sale, Fronte/retro (self), 1998, particolare, lino, carta e plexiglas, 30 x 21,7 cm Giulia Sale, Fronte/retro (self), 1998, particolare, lino, carta e plexiglas, 30 x 21,7 cm soggetto e dalla parola “self” che ritornava nei titoli come leit motiv: penso a Fronte/Retro (self), Senza Polvere (self), Fino al 1998 (self), dove appare evidente che a fare da protagonista è lo sguardo più che il soggetto. Molte di quelle foto sono state scattate da altri in un contesto del tutto privato. In cosa consisteva il tuo intervento?
G.S.: La scelta di utilizzare la mia immagine nei miei lavori nasce dal fatto che in questo modo posso avere, sempre, un soggetto a portata di mano, immediatamente e facilmente. Non ci sono manipolazioni sui miei ritratti, sia in quelli fatti da me, sia in quelli fattimi da altri. L’identità dell’autore stesso dell’immagine è assolutamente irrilevante, si tratta comunque di una esposizione volontaria allo sguardo altrui.

A.R.C.: C’è un aspetto un po’ macabro nell’operazione con le foto tessera su ceramica, sorta di archivio che riporta, mi pare, ai tuoi successivi lavori dedicati, recentemente, al tema dei cimiteri ed alla classificazione dei fiori di Blooming o alle tue “incursioni”, come hai fatto in alcune opere, nelle case altrui.
G.S.: Più che macabro io lo definirei voyeuristico. Esporsi allo sguardo, solleticare il voyeurismo altrui; entrare nelle case è “frugare” nell’intimità altrui, perché la casa in diversa misura ci rappresenta agli occhi degli altri.

A.R.C.: Ritorna spesso nei tuoi lavori questa necessità di ordinare, classificare, ma pure fare una sorta di punto della situazione, tirare le somme di una serie di momenti o di oggetti o di immagini. Nell’ultimo lavoro, Blooming, questo è un aspetto che emerge prepotentemente. Invece che classificare persone, momenti di vita o immagini passate di te stessa, classifichi fiori?
G.S.: In effetti, non mi interessa ricercare connotazioni emotive. I miei lavori sono molto freddi, almeno apparentemente, quasi da laboratorio di vivisezione. Gli stimoli, nella vita, sono tanti e talmente forti che spesso l’aspetto eclatante rischia di fermare lo sguardo alla superficie delle cose, alla loro esteriorità. La semplificazione mira alla sintesi e in realtà ciò che risulta o dovrebbe risultare è una stratificazione di senso. Preferisco essere “neutrale” nel proporre l’immagine, l’oggettività per cui un fiore è un fiore, un cimitero è un cimitero. Non mi interessa esporre emozioni e sentimenti.

A.R.C.: In uno scritto recente Marco Senaldi, a proposito del rapporto tra identità eGiulia Sale, I fidanzati, 1999, stampa digitale, 260 x 88 cm unicità riporta un esempio piuttosto intrigante riguardo Anna Oxa. Alla serata inaugurale del Festival di Sanremo 2003 l’esibizione della medesima Oxa era stata preceduta dalla proiezione delle sue mise nelle precedenti edizioni e poi, ciascuna di queste immagini del passato si era concretizzata sul palco in altrettante simil-Oxa, ciascuna incarnazione vivente di un singolo istante di esistenza dell’“originale”. Per afferrare il quid inafferrabile di una personalità – dice Senaldi – ci si affida all’esposizione di una galleria di immagini individuali diverse, lasciando intendere che ciò che fa di una persona “proprio quell’individuo” è l’insieme provvisorio delle sue diverse facce. Il tuo lavoro con le foto ceramiche, così come Gli studi o I Fidanzati percorrevano questo territorio?
G.S.: Che una persona sia “proprio quella persona” per l’insieme delle sue diverse facce è cosa talmente ovvia che non vale la pena parlarne, non mi interessa. Mi intriga di più una persona come Valeria Marini, e l’aspetto grottesco del parlare con la propria immagine, così come l’ha rappresentata televisivamente Sabina Guzzanti, nel suo gioco surreale di specchi, tanto è vero che proprio la Marini e la sua “immagine” sono state determinanti per questi lavori.

A.R.C.: È un gioco intrigante, un eccesso di narcisismo, per altro molto affascinante. Ma questo sguardo rivolto verso te stessa, verso le tue immagini del passato ad un certo punto è finito ed hai iniziato a “guardare” gli altri. Come è avvenuto questo passaggio?
G.S.: È un guardare gli altri che rimane, però, sempre rapportato a me stessa. Nella serie delle Città, io compaio direttamente in un lavoro: Sassari 1965 del ’99. Anche in questo caso si tratta, comunque, di luoghi in cui sono stata, in cui ho vissuto, di persone che ho conosciuto; le case di amici e conoscenti, di persone con cui ho una relazione. Alla fine ci sono sempre io.

A.R.C.: Nel recente ciclo Estate del 2001, i soggetti erano dei perfetti estranei,Giulia Sale, Estate 2001 (dalla serie), 2001, stampa digitale, 21 x 21 cm all’aperto in spiaggia. Esponi e ti esponi?
G.S.: Estate è stata una ennesima campionatura, questa volta di persone sconosciute. Spiare e rappresentare individui per lo più ignari è stato estremamente divertente.

A.R.C.: Come progetti i lavori?
G.S.: Faccio il minimo – come ti ho già detto – non faccio schizzi, non disegno. Il lavoro sta tutto nel progetto mentale.

A.R.C.: Però l’allestimento è fondamentale?
G.S.: L’allestimento non può essere casuale, fa parte dell’opera. La strutturazione dello spazio è determinante per la percezione del lavoro. Spazio ed elementi dell’opera sono interdipendenti, costituiscono un sistema.

A.R.C.: Come è nato il tuo interesse per l’arte?
G.S.: Per caso. Non ho fatto studi artistici. Dopo il diploma ho frequentato un corso di formazione professionale per operatori fotografici e lì ho conosciuto delle persone che si occupavano d’arte. Dopo il primo anno di corso – era un corso biennale – partecipai ad un concorso per giovani artisti – era il 1985 – e fui selezionata come vincitrice del primo premio per la fotografia. Nel frattempo, comunque, avevo iniziato a fare altre cose, nel 1986 c’era stata la mostra I morbidi toffee, una serie di installazioni in un appartamento sfitto, cui avevo partecipato con un lavoro non fotografico.

Giulia Sale, Blooming (dalla serie), 2002, stampa digitale, 60 x 60 cmA.R.C.: Negli anni Ottanta c’è stato un entusiasmo generale in Sardegna, ma solo negli anni Novanta c’è stato un evidente emergere di singole personalità di giovani. Penso agli incontri, ai dibattiti e alle molte personali che hanno movimentato il clima creativo nell’isola. In che modo ti sei inserita in questo clima?
G.S.: A partire dagli anni Novanta ho iniziato a lavorare con altre persone, abbiamo costituito un gruppo – I Fiori blu – all’interno del quale l’aspetto organizzativo era parte integrante dell’attività artistica: faceva parte del nostro “fare arte” l’organizzare, cercare di allargare il campo anche a altre manifestazioni, al confronto con l’esterno.

A.R.C.: In quali anni è stato attivo questo gruppo?
G.S.: I Fiori Blu nascevano negli anni Novanta. La nostra prima operazione era stata quella di progettare e organizzare una rassegna che prevedeva, attraverso la gestione di un certo numero di mostre personali, un censimento di quella che era la scena artistica in Sardegna. Si trattava nella maggior parte dei casi di artisti giovani, accanto ad altri, come ad esempio Igino Panzino o Roberto Puzzu, che operavano invece da diversi anni nell’ambito della ricerca isolana. Per i giovani come noi, alle prime esperienze di mostre personali, il fatto che fosse una rassegna con curatori, un catalogo, recensioni sulla stampa, sanciva per la prima volta una appartenenza al mondo dell’arte; era un progetto strutturato, insomma, e questo dava un certo valore all’operazione che coinvolgeva, tra l’altro, artisti delle diverse zone dell’isola, da Sassari fino al sud della Sardegna.

A.R.C.: Questo doppio ruolo artistico e manageriale come hanno convissuto?
G.S.: L’aspetto artistico e quello manageriale erano assolutamente equivalenti.

A.R.C.: Avete esposto, anche, come gruppo de I Fiori Blu?
G.S.: Sì, abbiamo fatto diverse mostre con dei lavori comuni, progettati e realizzati da tutto il gruppo. L’attività organizzativa è proseguita con la rassegna Sacre sponde. Anche in quel caso si trattava di mostre personali. In quell’occasione abbiamo invitato a partecipare anche artisti europei aprendo la rassegna a un confronto più ampio. In un luogo dove non esiste niente è fondamentale che tutto ciò che si fa possa ottenere un riconoscimento anche all’esterno; non si trattava di fare una mostra, ma di favorire la creazione di un sistema. Perché, allora come oggi, un sistema non c’era: si trattava, quindi, di creare occasioni di scambio e di crescita per tutti.


A.R.C.: Questo bisogno di creare un sistema è un aspetto interessante dell’esperienza con I Fiori Blu: molto spesso gli artisti vivono individualmente il loro lavoro.
G.S.: Un aspetto fondamentale del nostro lavorare in gruppo era proprio superare l’individualità del singolo artista e favorire uno sviluppo che riguardasse il territorio e tutti quelli che si occupavano d’arte in base alle diverse competenze. Non faccio più parte del gruppo da alcuni anni. La nostra ultima uscita pubblica è stata alla fine del 1994: una manifestazione che si è svolta, contemporaneamente, nei quattro capoluoghi della Sardegna, costituita da affissioni di manifesti per le strade della città.


Giulia Sale è nata nel 1962 a Sassari, città dove vive e lavora.

 


 

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