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Pittura
come Progetto intervista
a
Nicola Maria Martino
di Andrea Zanella
Con Nicola Maria Martino ci incontriamo nel
suo ufficio di direttore dell’Accademia di Belle Arti di Sassari,
occasionalmente utilizzato come studio. Appoggiate alle pareti ci sono
sei delle ultime opere realizzate per la mostra Denominazione di origine
controllata alla Fondazione Morra a Napoli: sono sei tele ad olio
di circa un metro di lato.
A.Z.: Con questa ultima mostra sei tornato al grande
formato, ci sono ragioni precise?
N.M.M.: Forse c’è più spazio. No,
il problema non è la dimensione: la pittura non dipende da un formato.
A.Z.: Certo, però per un lungo periodo hai
fatto quadri piuttosto piccoli che poi magari si assemblavano a formare
dei dittici o polittici, ma comunque piccoli formati di base.
N.M.M.: Se vuoi è il problema inverso della disponibilità
di spazio. Io ho cominciato a lavorare su piccoli formati venendo qui
in Sardegna nel 1993. Venivo da Torino dove avevo uno studio piccolo;
arrivato in Sardegna, nonostante avessi trovato uno studio più
grande, ho lavorato alla realizzazione di opere di piccolo formato. Come
vedi, lo spazio non c’entra granchè. Io qui mi sono trovato
ad affrontare una situazione di sbandamento dovuta al cambiamento sia
della situazione che della luce. Già, lo sbandamento della luce
era importante. Qui, all’improvviso, non riuscivo più a fare
ciò che avevo fatto fino ad allora, pur avendone la piena coscienza
e quindi c’è stata una situazione di stallo: sentivo che
dovevo ricostruire me stesso e potevo farlo solo a partire da frammenti
che poi, eventualmente, avrei potuto rimettere insieme. E allora ecco
che il piccolo formato diventava molto più difficile del grande.
E comunque, non ne farei un dato storico.
A.Z.:
Tu dici che il piccolo formato è più difficile,
o almeno in un certo momento lo è stato. Parli del modo di organizzare
la composizione?
N.M.M.: Insomma, non vorrei che il formato fosse considerato
un alibi per giustificare un meccanismo di pittura. Poi a volte ci sono
problemi pratici, come quello dello spazio, ma anche l’umore. E
comunque per me il formato non è un dato significativo o progettuale.
L’estate scorsa a Taormina ho dipinto almeno quattro tele grandi,
ma perché ero dell’umore di farlo. No, in realtà non
è neanche un dato progettuale: non esiste progetto.
A.Z.: Ma come, non vorrai dire che nella tua pittura,
così rigorosa, non c’è progettualità?
N.M.M.: Io ho la pittura come progetto e, da questo punto
di vista, il formato non ha nessuna importanza. Ha importanza solo la
pittura. Come dissi in un’intervista di trent’anni fa, «la
pittura è» e io sono sempre stato fedele alla pittura e basta.
A.Z.:
E il colore? Da quando sei in Sardegna la tua pittura è fatta
di gialli, di rossi, di arancio, che oggi si stendono in grandi campiture
uniformi su queste grandi tele; il blu, che era uno dei colori preferiti
è sempre più raro.
N.M.M.: Nell’atmosfera di Torino aveva un senso
il valore intimista del blu. Qui ho ritrovato la grande gioia del colore.
E ritorno sull’intervista di Nicosia, quando si insisteva sul blu.
Il blu era un’occasione; anche allora dicevo che un giorno sarei
tornato ad amare i gialli e i rossi. E oggi a 56 anni posso dire di aver
ritrovato qui questa felicità di colore, il desiderio di esprimermi
con colori accecanti. Che sono poi i colori delle mie origini, io sono
mediterraneo. Il blu è un colore silenzioso, notturno, è
il colore della volta stellare; il giallo e il rosso sono i colori del
pieno giorno, sono colori che urlano.
A.Z.: Quindi, vuoi dire che in qualche modo hai voglia
di urlare. Non si direbbe, a leggere per esempio Oggi è un
venerdì…., la raccolta di scritti molto intimisti che
hai pubblicato l’anno scorso. E tra l’altro nella vita sei
stato e sei un provocatore.
N.M.M.: La scrittura è una cosa, la pittura è
un’altra. Prima alzavo la voce, provocavo, poi Torino mi ha calmato.
Oggi, arrivato alla maturità, non è tanto la voglia di provocare,
quanto la voglia di gridare la felicità della pittura. Inoltre,
vedo che molti giovani ora amano di nuovo la pittura, dopo tante esperienze
che hanno portato lontano. Ecco io in maniera pretenziosa, se vuoi, alzo
la voce in pittura. E poi il Pittore è un santo. In Oggi è
un venerdì il pittore ripercorreva la sua vita e la sua storia
e in qualche modo affermava che il suo fare non può essere solo
provocazione. Oggi forse sono ancora provocatorio nell’atteggiamento
quotidiano, ma non voglio essere provocatorio nella pittura. Mi sento
solo di urlare la gioia del colore.
A.Z.:
Ora ti senti di urlare, ma prima in qualche modo ti sei isolato, qui
in Sardegna, no?
N.M.M.: Sì, è vero che mi sono isolato,
concettualmente, pensando che per me era terminato un ciclo, dovevo ricostruire
quelli che erano stati gli episodi fondamentali della mia vita e avevo
bisogno di nuova concentrazione. Poteva essere la Sicilia, la Puglia,
Roma, o altrove. Voglio dire che dovunque fossi mi interessava esprimere
la felicità del colore. Citando Dorazio posso dire «io sono
un colorista» non posso uscire fuori da quella che è la mia
origine, dall’amore per il colore che è poi l’amore
per la grande tradizione pittorica italiana. E io mi sento molto italiano
e vicino ai nostri classici; i vari surrealismi, romanticismi, espressionismi,
non mi appartengono.
A.Z.: Questo amore per la tradizione classica è
venuta dai tuoi maestri?
N.M.M.: Giotto per me è stato un grande maestro,
la Sistina michelangiolesca è stata una grande lezione di colore.
Roma è stata la mia scuola, per quello che potevo vedere e per
quelli che potevo incontrare venendo a Roma contro la volontà della
mia famiglia. A Roma c’erano Turcato, Guttuso, Gentilini, Dorazio,
Monachesi. L’amore per il colore me lo hanno dato gli artisti di
quella generazione. A scuola ho avuto Marcello Avenali e Sante Monachesi.
Turcato lo incontravo tutti i giorni in via Ripetta. Forse è lui
quello che mi affascinava di più per la sua pittura. Poi, come
sai, ho anche contestato Guttuso perché nel ’68 presi una
posizione anarchico-libertaria. Monachesi è stato un maestro per
la sua follia anarcoide e per il senso di libertà della pittura
e allo stesso senso di rigore che sapeva trasmettere, come il concetto
di essere artisti in modo totale.
A.Z.: E i compagni di strada?
N.M.M.:
Sono le occasioni della vita della strada che ti formano e le strade di
Roma erano Piazza del Popolo, Via Ripetta, Piazza Colonna. C’erano
Festa, Schifano, Angeli, che vedevo di meno. Con De Dominicis ci si incrociava,
magari ci si parlava anche, ma con il suo carattere era difficile discutere:
ci incontravamo al baretto dell’Accademia lui col suo cappottone
nero, io col mio cappottone marrone e ci salutavamo. Con Mimmo Germanà
eravamo veramente compagni di percorso. Ma io ero più interessato
a quelli che appartenevano alla generazione precedente: Kounellis, Mattiacci,
e soprattutto Guccione che mi affascinava per il suo senso della pittura.
Ma tra i giovani e i vecchi, preferivo i vecchi: non posso dimenticare
l’incontro con De Chirico, Aragon, Afro…..
A.Z.: Insomma, possiamo dire che tu hai più
il senso del rapporto maestro-discepolo che del rapporto cameratesco.
È per questo che hai deciso di dirigere un’accademia?
N.M.M.: No, per me era piuttosto un’avventura,
una scommessa. Dopo Roma e Torino, cioè due accademie storiche,
mi piaceva l’idea di dirigere un’accademia di recente istituzione
e periferica, sognando l’atmosfera dei miei anni di studio all’accademia.
Ci sono riuscito, non ci sono riuscito, è un bilancio che ancora
non si può fare, ma sono fatti che non hanno niente a che vedere
con il mio lavoro di pittore.
Nicola Maria Martino è nato a Lesina (FG) vive e lavora tra
Roma e la Sardegna.
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