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La Storia
cucita incontro con
Maja Bajevic
di Giannella Demuro
G.D.: La tua apparizione
sulla scena artistica internazionale è relativamente recente ma
hai ricevuto da subito riconoscimenti importanti. In che modo è
iniziato questo percorso?
M.B.: Tutto ciò che concerne
il mondo dell’arte mi ha da sempre incuriosita e affascinata, già
da bambina. Ho frequentato, poi, l’Accademia di Belle Arti di Sarajevo,
una scuola decisamente tradizionale dove si imparava certo a dipingere
e scolpire, ma si era, però, totalmente distanti da qualunque informazione
sull’arte contemporanea. In realtà, la prima volta in cui
ho visto una vera mostra di arte contemporanea è stato nel 1989
a Parigi: era Magiciens de la Terre. Una mostra che mi aveva,
allora, talmente impressionata da farmi pensare che quello era ciò
che volevo fare nella vita. È per questo che, in seguito, ho cercato
di ottenere una borsa di studio che mi permettesse di venire in Francia.
Grazie alla borsa, che ho vinto nel 1991, sono rimasta a Parigi durante
la guerra, anche perché rientrare in Bosnia era impossibile. Durante
quel periodo, però, non ho lavorato molto, ero sconvolta per quanto
accadeva nel mio paese. Non c’era niente che io potessi fare. Non
c’è mai niente che si possa fare di fronte a qualcosa di
talmente orribile come la guerra, e tutto sembra così inutile,
così piccolo, in rapporto ad una cosa come questa.
G.D.: Il tuo lavoro, però, si caratterizza
proprio per una grande attenzione e coinvolgimento per le tematiche politiche
e sociali della nostra epoca. In che modo hai superato la sensazione di
impotenza di quel periodo?
M.B.: Devo molto, da questo punto di vista, a un amico
scrittore, anche lui di Sarajevo, che mi fece notare che l’arte,
portandomi a Parigi, mi aveva forse salvato la vita: dovevo quindi utilizzarla
per reagire. E infatti, dopo la guerra, grazie a Dunja Blazevic –
che negli anni ’70 aveva dato vita al Centro di Arte Contemporanea
di Belgrado, portando Marina Abramovic, Beuys ed altri – ho iniziato
a passare sempre più tempo a Sarajevo, portando avanti dei progetti
con lei. E oggi, continuo ancora a vivere tra Parigi e Sarajevo.
G.D.: Come vivi questa
condizione? È difficile dividersi tra queste due città?
M.B.: Non è facile rispondere, perché
da un lato è una condizione sicuramente molto dura, dall’altro
è comunque utile ed appagante. A Sarajevo trovo ciò che
non ho a Parigi e viceversa. A Sarajevo è tutto difficile, precario,
compresa la situazione politica, dominata ancora oggi dagli stessi nazionalisti
che hanno gestito il potere prima della guerra. Parigi, da questo punto
di vista, mi permette di mantenere le distanze, e questa è una
cosa di cui ho bisogno per lavorare.
G.D.: Come è vissuta a Sarajevo la presenza
di quegli artisti che, come te, lavorano su temi così impegnativi?
M.B.: A Sarajevo, nonostante ci siano molte persone che
lavorano nel campo dell’arte contemporanea, manca totalmente qualunque
sostegno da parte delle strutture. Ci sono bravi artisti ma mancano i
critici, i giornali che scrivono d’arte, manca, insomma, tutto ciò
che può sostenere il mondo dell’arte. Qualche tempo fa, per
esempio, una mia performance ha avuto un grandissimo riscontro da parte
del pubblico, ma è totalmente mancata, invece, l’attenzione
della stampa, e trovo che questa sia una perdita non solo per me, ma per
Sarajevo e per tutti gli artisti perché, in fondo, mancherà
una memoria storica di ciò che è accaduto.
G.D.:
Il lavoro di cui parli, Women at Work - Under Construction,
quello fatto per il Centro per l’arte contemporanea di Sarajevo,
è la stessa opera, mi pare, che ti ha portato alla ribalta anche
in Italia. È stata quella la tua prima performance?
M.B.: Sì, in effetti
è l’opera che ho realizzato sull’impalcatura della
Galleria Nazionale di Sarajevo, una mostra con più artisti organizzata
da Dunja Blazevic. C’erano diversi progetti e diverse generazioni
di artisti, alcuni conosciuti, altri meno. In quell’occasione ho
presentato questa performance che ho riproposto, poi, per Manifesta, e
che mi ha aperto, da allora, la strada al mondo internazionale.
G.D.: Ti sentivi pronta per questo successo?
M.B.: All’epoca sicuramente no, forse ero pronta
come artista, ma non ancora come persona: il mondo dell’arte è
un mondo molto particolare.
G.D.: In effetti Women at Work è
un lavoro interessante sotto diversi punti di vista, hai mescolato ed
equilibrato temi e situazioni diverse, compresa l’idea di utilizzare
delle donne che in realtà non sono delle artiste, le stesse donne
che poi hai continuato ad utilizzare nelle tue performance.
M.B.:
È così. Si tratta di rifugiate dell’est della Bosnia
che mi riportano alla mia stessa esperienza di rifugiata, quella che ho
vissuto a Parigi al tempo della guerra. L’idea di questa performance
è che in un momento tanto critico come quello della guerra, la
sola difesa che resta è quella di abbellire il luogo in cui si
vive e, tradizionalmente, nel mondo femminile, si fa questo con dei ricami.
Per la performance ci siamo trovate dunque, cinque donne ed io, sull’impalcatura
che copriva la facciata, allora in rifacimento, della Galleria Nazionale
della Bosnia e Erzegovina. Ciò che ho voluto dire, con questo lavoro,
è che alla Galleria Nazionale, con tutta la sua collezione e la
storia dell’arte della Bosnia e anche della ex Jugoslavia, mancava
la storia artistica degli ultimi dieci anni: la storia dei rifugiati,
la storia della guerra. Ho pensato, allora, che era importante far vedere
questa storia recente su un edificio che, da sempre, contiene la storia
antica. Trovavo interessante, inoltre, poter connotare lo spazio in maniera
così femminile. Il titolo, Women at Work, in inglese,
gioca infatti, anche sulle parole: si dice, infatti, men at work
per indicare qualcosa in costruzione. Un gioco di parole, quindi, fra
il lavoro maschile e quello femminile: la mattina gli uomini lavoravano
dietro le impalcature e portavano avanti la ristrutturazione dell’edificio,
il pomeriggio arrivavamo noi e facevamo dei ricami sulle impalcature.
Si è trattato, perciò, di un lavoro che aveva diversi livelli
di lettura.
G.D.:
I soggetti ricamati dalle donne avevano dei significati particolari,
stabiliti da te?
M.B.: No, ho lasciato le donne completamente libere di
ricamare i loro soggetti, e ciò che mi ha molto sorpreso, alla
fine, è stato il fatto che i ricami eseguiti apparivano colorati,
gioiosi, nonostante si trattasse di donne che avevano vissuto gli orrori
peggiori della vita – i loro mariti erano stati uccisi, così
i loro figli – e nonostante tutto questo, loro erano state in grado
di realizzare immagini così belle.
G.D.: Come ha reagito la gente di Sarajevo a tutto
questo?
M.B.: A Sarajevo ci sono state varie reazioni, discussioni
di carattere politico, ma sono state proprio queste donne a rispondere
nel modo più bello quando, ad un uomo che protestava chiedendo
chi e perché avesse lasciato salire quelle donne sull’impalcatura,
una di loro disse che non solo quella era stata una loro scelta, ma che
nessuno aveva il diritto di contestare la loro capacità, autonoma,
di prendere delle decisioni. Questa è stata, senza dubbio, la risposta
più pertinente su questo lavoro. D’altro canto, sui giornali
c’è stata una discussione sullo stesso tema, se fosse o meno
lecita, cioè, l’utilizzazione delle profughe in un lavoro
come questo, e ciò in un’epoca in cui uno dei partiti politici
aveva davvero utilizzato queste donne per guadagnare facili consensi politici.
In realtà, la loro situazione era stata completamente dimenticata:
non avevano appartamenti dove abitare, non potevano tornare a casa loro,
non avevano soldi, niente. Quindi da un lato le si utilizzava come simboli,
ma dall’altro non ci si occupava affatto di loro. Per me è
stato importante dimostrare che queste donne non erano state dimenticate,
che esistevano ancora.
G.D.: Si trattava delle stesse donne che hanno preso
parte anche al lavoro Women at Work - The Observers? In quest’opera
ti sei spostata dal presente al passato, modificando totalmente il contesto
rispetto ai lavori precedenti, come mai?
M.B.: Ero stata invitata al Chateau Voltaire, in Francia,
per fare una performance come quella che avevo fatto a Sarajevo. È
mia abitudine, però, lavorare su un progetto originale, site
specific. Mi aveva colpito il fatto che Voltaire fosse, anche lui,
una sorta di profugo intellettuale, e avesse abitato questo castello che,
vicinissimo a Ginevra, gli permetteva di rifugiarsi rapidamente in Svizzera
in caso
di necessità. Trattandosi di un castello ho voluto quindi lavorare
con le “castellane”, le donne del castello. Per cinque giorni
queste donne, ed io con loro, abbiamo ricamato nel piazzale
davanti al castello mentre una pittrice dipingeva tutta la scena come
un d’après di un quadro di Frans Hals, un famoso
pittore fiammingo. Le mie collaboratrici, però, che sono mussulmane,
indossavano il chador, e questa era l’unica differenza rispetto
al quadro originale. Il titolo di questo lavoro – Women at Work
- The Observers – aveva un riferimento ben preciso: richiamava
l’assoluta passività degli “osservatori” olandesi
delle Nazioni Unite che, trovandosi a Srebrenica nel momento della sua
caduta, si erano limitai ad “osservare” senza far niente per
impedire gli eccidi.
G.D.: Dove si trova il quadro adesso?
M.B.: Il quadro si trova a Sarajevo. È una riproduzione
in scala 1:1 dell’originale e l’ha dipinto Alma Sulievic,
anche lei di Sarajevo, che ha partecipato con me anche alla mostra Le
tribù dell’arte a Roma.
G.D.:
Il ciclo Women at Work si conclude con un terzo lavoro –
Washing up – che hai presentato alla Biennale di Istanbul
del 2001.
M.B.: Avevo scelto l’hamam, in quell’occasione,
perché è un luogo pubblico e privato allo stesso tempo,
forse più privato della stessa casa. Per questo
lavoro sono state ricamate delle frasi
di Tito, come per esempio, «Si vive come se ci dovesse essere la
pace per cento anni, ma ci si prepara come se la guerra dovesse iniziare
domani», oppure «Viva la fraternità armata dei nostri
popoli», frasi diventate, a distanza di anni, completamente assurde.
Queste frasi sono state ricamate in bosniaco, in inglese e in turco su
dei teli che, successivamente, abbiamo lavato per cinque giorni nell’hamam
finché non si sono completamente rovinati, stracciati.
G.D.:
Anche in questo caso le donne che hanno partecipato con te alla performance
erano le stesse delle volte precedenti. Mi colpisce la naturalezza con
cui sei riuscita a creare un legame tra la vita e l’arte, al di
fuori delle strade ufficiali dell’arte stessa. Come anche il fatto
che tu sia riuscita ad arrivare al cuore di queste persone, che continui
ancora oggi a coinvolgere nei tuoi lavori. Senza dimenticare, poi, la
scelta di un’attività tradizionalmente femminile come il
cucire per raccontare la storia.
M.B.: Nonostante in molti miei lavori torni il tema del
cucire, questo non è legato, nella mia poetica, ad una posizione
strettamente “femminista”. È piuttosto espressione
di una condizione “intima”, perché il mondo della donna,
in quanto donna, mi è molto più vicino. Io lavoro sull’opposizione
di intimo e pubblico, privato e politico. Il privato, l’intimo del
mondo delle donne, è per me più leggibile, comprensibile,
ed è per questo che lo uso nel mio lavoro.
G.D.:
In effetti, mi pare che un lavoro come Dressed Up, la performance
che nel ’99 hai realizzato a Sarajevo e che poi hai riproposto alla
Biennale di Valencia, integri pienamente
queste due realtà. In che modo è nata quest’opera?
M.B.: Per Dressed up ho stampato sulla tela
una carta della ex Jugoslavia
e ho realizzato una performance che durava sei ore durante le quali, con
queste carte, preparavo un vestito per me. Ho tagliato la tela adattandola
al mio corpo, senza tener conto delle divisioni delle repubbliche o delle
nazioni, mentre due microfoni – uno vicino alla bocca e l’altro
vicino alla macchina da cucire – sottolineavano da una parte l’aspetto
intimo, legato al mio respiro e, dall’altra, una condizione aggressiva,
legata al suono della macchina da cucire che, amplificata, ricordava la
mitragliatrice. All’inizio del vernissage ho indossato il vestito
che avevo appena cucito e l’ho tenuto addosso per tutta la serata.
G.D.: La dimensione di cui parli, intima e privata
allo stesso tempo, l’hai indagata anche attraverso l’iconografia
simbolica dell’abitazione, della casa: mi riferisco specificamente
al video Green, Green Grass of Home.
M.B.:
Sì, ho filmato questo video in un prato della Svizzera, in una
situazione, quindi, del tutto neutrale, in un paese neutrale. Non è
stata una scelta voluta, mi trovavo già in Svizzera, con mio marito
Emanuel Licha, anche lui un artista, ed è con lui che ho realizzato
il video. Sento questo lavoro come un connubio riuscito tra due visioni
differenti: lui lavora molto sull’architettura nell’arte,
mentre io lavoro soprattutto sulle tematiche dell’intimità
e della memoria. Il campo “neutro” di un paese neutrale era
il luogo perfetto in cui realizzare questo video che è la descrizione
del mio appartamento a Sarajevo, un appartamento che ci è stato
tolto durante la guerra e che rappresenta la storia e la memoria della
mia famiglia: è l’appartamento dove vivevano i miei nonni,
il posto in cui sono nata, che apparteneva da sempre alla mia famiglia
e che rimanda, quindi, ad una dimensione intima e privata della “storia”.
G.D.: Che cosa si vede nel video?
M.B.: Io passeggio nel campo e, mentre cammino, faccio
una descrizione del mio appartamento, dico «qui c’è
la cucina, qui mia nonna ha cucinato, qui c’è la mia camera…»,
e faccio questa descrizione
passeggiando in questo campo, dove non c’è niente. Successivamente,
da questo video, Emanuel ha tratto le informazioni per disegnare il mio
appartamento e, pur non avendolo mai visto, il disegno che ha fatto è
quasi totalmente corrispondente alla realtà. Questo lavoro –
Green, Green Grass of Home – prende il titolo da una vecchia
canzone di Tom Jones che racconta di una persona che, vivendo in prigione,
sogna di tornare a casa e di incontrare la donna che ama, dicendo «come
è bello toccare il verde, la verde erba di casa». Ma, in
realtà, si trova ancora in prigione e ciò che descrive è
solo fantasia: ha solo immaginato di essere tornato a casa.
G.D.: Nel tuo lavoro l’elemento sociale è
molto forte. Credi che l’arte oggi debba avere un ruolo attivo in
questa direzione?
M.B.: Sì, sono convinta che nel mio lavoro sia
presente una forte componente sociale. Credo che oggi viviamo in un mondo
in cui non è possibile non occuparsi di politica, anche perché,
in ogni caso, la politica si occupa di noi, ed è importante poter
testimoniare questo.
G.D.: Le tue “testimonianze” sono sempre
molto coinvolgenti, e non parlo solo di coinvolgimento emotivo. Mi riferisco
a quello fisico che ha coinvolto il pubblico nella performance che hai
realizzato a Graz, anche qui con Emanuel Licha.
M.B.: Si trattava di una casa labirinto: tre scatole
di vetro incastrate l’una nell’altra. Emanuel ed io ci trovavamo
nella stanza centrale – una stanza normale con un divano e un piccolo
tavolo – impegnati in una discussione. Chi arrivava dall’esterno,
sentiva le voci di una discussione di una coppia, senza capire di cosa
si parlasse. Si coglievano soltanto alcune frasi isolate, ripetute dalla
stessa persona, in risposta ad un qualcosa detto dall’altro: «Non
sapevo», «Non sapevo che questo ti facesse male, non sapevo».
Insomma, la “scusa” politica che si usa più frequentemente:
«non sapevo che ci fossero i campi di concentramento», «non
sapevo cosa accadeva in Bosnia», e così via. E, per questo
motivo, nessuno ha fatto niente. Quindi «non sapevo» è
la scusa più terribile nella vita privata e nella vita pubblica.
All’interno della stanza c’era anche un televisore, dal quale
arrivavano dei suoni, delle notizie sulla guerra. Il pubblico poteva entrare
nella casa e arrivare vicino a noi, per i cinque giorni che abbiamo abitato
lì. Altre coppie hanno, poi, proseguito la performance alternandosi
per un mese intero, in quella struttura.
G.D.: In questo lavoro hai inserito il suono della
voce, altrove hai amplificato il tuo respiro e le sonorità sinistre
di una macchina da cucire, altre volte ancora, hai cantato tu stessa delle
canzoni. Quanto conta il suono nelle tue opere?
M.B.: Il suono è un elemento molto importante
del mio lavoro. Abbiamo parlato, prima, della performance nell’hamam
di Istanbul: anche lì ho utilizzato delle voci. L’hamam
è composto da varie sale: prima di arrivare alla sala principale,
dove si fa il bagno, si attraversano degli spazi nei quali, durante la
performance era possibile sentire il suono ritmato delle conte dei giochi
di bambini, un gioco crudele che riflette la competizione “ad eliminazione”
del mondo dei grandi. Era una situazione angosciante, anche perché
le conte venivano cantate in turco, in francese e in bosniaco da persone
adulte. Successivamente, sempre con il suono, ho realizzato Avanti
Popolo, un’installazione con 25 canzoni patriottiche di paesi
diversi e di orientamenti politici diversi – dalle canzoni fasciste
alle canzoni comuniste – dove c’era sempre, come in tutte
le canzoni di questo tipo, l’esaltazione di un “noi”
contro un “voi”. Insomma, canzoni dal ritmo coinvolgente,
marce dal tono ottimistico che, sentite tutte insieme, producevano solo
caos, come tutto ciò che accade oggi nel mondo: tutti gridano,
ma le persone non si ascoltano, nessuno sente niente, un po’ come
nei miei lavori.
G.D.: Quali progetti stai portando avanti adesso?
M.B.: Sono stata invitata, assieme ad altri due artisti,
a rappresentare la Bosnia alla Biennale di Venezia. Sempre in Italia partecipo
ad altri due progetti. Uno per il Mart di Trento, una mostra dedicata
ad artisti – uomini e donne – che lavorano con il cucito,
l’altro con Achille Bonito Oliva, con cui lavoro per la terza volta,
che mi ha invitata a settembre a Padula, dove presenterò una nuova
performance.
Maja Bajevic è nata a Sarajevo nel 1967. Vive e lavora tra
Parigi e Sarajevo.
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