Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo

Ziqqurat n°8
Sommario
Antonio Riello, Pistolamitragliatrice HK - MPK, 2002, ceramica gatti, 70 x 40 x 5 cm (courtesy Galleria Astuni, Fano e Pietrasanta)

Cover Theory brevi cenni sull'
Universo - Copia
di Marco Senaldi

Il colpo di grazia lo hai quando, dando la solita sbirciata nella vetrina del negozio di design, vedi all’improvviso qualcosa che non ti potevi aspettare. In bella mostra infatti ci sono due televisori che, invece di sedurre con le lusinghe dell’ipertecnologia, lo schermo ultrapiatto, i cristalli liquidi e il look satinato, incrociano lo sguardo “con un istante dejà-vu”, qualcosa che non dovrebbe essere lì: da un lato il famoso tv brionvega disegnato da Zanuso, col fondoschiena arrotondato come la coda di una Giulietta degli anni Sessanta, dall’altro il celeberrimo tv-cubo, un dado di cristallo nero che nella sua enigmatica semplicità non sfigurerebbe a fianco del misterioso monolito di 2001 Odissea nello spazio.
Sì, perché il 2001 sarà anche passato e trapassato, ma questi oggetti, pur essendo stati pensati e progettati quarant’anni fa, non sono modernariato: ricostruiti oggi, in copia perfettamente identica all’originale, ci rispediscono indietro nel tempo senza però giocare con la nostalgia; di fatto sono nuovi di zecca, e dunque non contengono una briciola di memoria, eppure appartengono ad un’altra epoca. Già, ma quale?
Il fenomeno delle repliche potrebbe tranquillamente essere archiviato nell’alveo delle bizzarrie del design, e del resto sono numerose le aziende che sopravvivono ancor oggi producendo “pezzi classici” dei grandi progettisti del passato. Tuttavia, basta guardarsi intorno per capire che la tendenza alla “replica” è diffusa oggi in un modo più capillare di quanto non sembri. Aveva cominciato l’Alfa Romeo che, con la 156, recuperava dettagli retrò – la targa frontale spostata di lato, come sulla mitologica Aurelia de Il sorpasso, la maniglia della portiera, vistosa e sporgente come quella delle vecchie Millecinque o dei frogoriferi del boom… – ma il colpo di genio era arrivato dal centro stile di Wolfsburg, amena cittadina teutonica dove si producono le Volkswagen: il New Beetle ha decisamente dato il via a un’idea di design che “procede recuperando”, e la campagna pubblicitaria per il lancio era stata concepita proprio su quella falsariga: la headline diceva infatti: «Se ti sei venduto l’anima, adesso è il momento di ricomprarsela» (alludendo proprio a quegli yuppies che negli anni ’60 e ’70 avevano flirtato con l’underground e la controcultura – movimenti di cui il Maggiolino era una sorta di bandiera ideologica – e che oggi sono diventati manager di successo e con un budget adeguato…).
Ma se la New Beetle era, rispetto al vecchio Maggiolino, ancora una forzatura stilistica secondo i dettami dell’estetica postmoderna del recupero delle linee curve unite al dettaglio hi-tech (cosa evidente se si affiancano davvero i due modelli di auto, la vecchia e la nuova), che dire invece della nuova Mini Cooper, che è piuttosto una “cura ormonale” della vecchia Mini passata al photoshop e “anabolizzata” del 15%?
Viene quasi alla mente una indimenticabile scena di Fahrenheit 451 di Truffaut, un film a favore dei libri ma anche un film di oggetti; come non ricordare l’agghiacciante esempio di tv interattiva che istupidisce la moglie del protagonista, il melanconico Montag? Tuttavia, mentre quel tv color sembra davvero anticipare un futuro (il film è del ’66) che è il nostro presente, e si materializza sulla parete così come oggi potrebbe fare un qualunque fortunato possessore di videoproiettore e home theater, c’è un particolare che lascia perplessi e che balza agli occhi quando Montag, chiama il suo capo dall’apparecchio telefonico. Tenuto conto del carattere avveniristico di Farenheit 451 ci dovremmo aspettare un cordless o addirittura un cellulare, o un microchip in stile James Bond, e invece niente di tutto questo: il telefono di casa Montag è una vecchia cornetta con tanto di manovella! Spia del passato che non passa in un universo futuribile che ha perso la memoria, la cornetta di Montag è anche l’anticipazione più sorprendente che Truffaut ci abbia regalato con il suo film, quasi a voler dire che nel futuro ci dovremo attendere anche inaspettati e quasi inconsci ritorni di frammenti del passato.Leonardo Pivi, Identità virtuale, 2002, micromosaico (opus vermiculatum), 40 x 30 cm (courtesy Galleria Astuni, Fano e Pietrasanta)
Ma non è forse esattamente questo ciò che sta accadendo?
Un altro campo immenso in cui trova applicazione la sindrome di Montag è offerto dalle più recenti tendenze musicali. Senza andare ad addentrarsi nei meandri della lounge, della cocktail music e nei territori del remix, che vedono in vetta gruppi come i Daft Punk, che più che il punk sviscerano il loro amore molesto per personaggi da noi semisepolti tipo Giorgio Moroder e compagnia (cantante, of course), basta fare mente locale su quello che è stato uno dei cd più venduti di alcuni anni fa, e cioè Fleurs di Battiato che è, fin dal titolo, una “antologia” di brani del passato vicino e lontano, vere e proprie covers musicali, che spaziano dalla Ballata dell’amore perduto di de Andrè a Era de maggio.
Proprio la cover è oggi l’oggetto di un dibattito acceso e di una costante ridefinizione. L’idea proviene dalla pratica consistente nel realizzare versioni alternative di pezzi famosi, le cosiddette covers (in inglese “copertina”, nel senso di brano famoso o di successo che appare sulla copertina del disco). La diversa interpretazione, il remix, la nuova versione, si sovrappone al brano di partenza, talvolta in lingua diversa, talvolta con arrangiamenti, entrando con l’originale in una complessa relazione di simbiosi.
Concettualmente, la cover differisce dalla più classica “variazione sul tema”, perché quest’ultima utilizza un motivo musicale già noto traducendolo in una composizione complessivamente nuova. La cover invece è un calco di un brano già esistente che viene comunque eseguito per intero, anche se in forme che possono distorcere o modificare profondamente lo stile e persino il senso dell’originale, a cui però restano morbosamente fedeli.
In questo senso la cover si distingue anche dalla pratica (più diffusa nell’ambito cinematografico) del remake. Il remake (il rifacimento ad esempio di un classico del genere noir anni ’50 come Il postino suona sempre due volte) ha valenze nostalgiche: si ammicca all’originale, alla sua atmosfera, magari con qualche ritocco fondamentale, (parti della storia, oppure il finale) per avvicinarlo al presente salvandone il glamour passatista.
Invece, non sempre la cover aggiorna l’originale – talvolta ne estrae l’anima più antica: è il caso di un pezzo concepito per sintetizzatore e strumenti elettronici, come Autobahn, dei Kraftwerk, rifatto per ensemble di soli violini dal Balanescu Quartet. In altre parole, il remake assomiglia di più a quello che nel linguaggio del design dovremmo definire un restyling (un fenomeno diffuso anche nella moda); mentre la cover si sovrappone come un doppio al suo originale “fotocopiandolo”, ed è più simile alla “replica”.
Remake e opera rifatta dunque vivono un casto rapporto di affetto reciproco; viceversa, la cover è un’ingegneria genetica dell’originale, quasi un gemello contro natura. Il remake è dunque dalla parte della “corretta e naturale” filiazione, ossia segue una discendenza genealogica culturale, che ha tanti e tanti illustri esempi di fronte a sé (è chiaro che anche l’Orlando Furioso flirta con i poemi epici medievali, come è chiaro che l’Antologia di Spoon River non è che un rifacimento aggiornato dell’Antologia Palatina…), mentre la cover è dalla parte della riproduzione frattale, estrapolazione di un individuo-copia da un frammento di un altro individuo, in altre parole “clonazione”. L’esempio più eclatante in questo senso è rappresentato dal famoso Psycho (1960), di Alfred Hitchcock, che è stato maniacalmente ricopiato ad opera di Gus Van Sant nel film omonimo, Psycho, appunto, quasi quarant’anni dopo (1998). In questo caso, siamo di fronte ad una vera e propria cover cinematografica, perché l’originale hitchcockiano è stato replicato sequenza per sequenza, anche se a colori e con attori diversi dall’originale. Nella storia del cinema, d’ora in poi, dovremo parlare di due Psycho, specificando a quale facciamo riferimento…
Ma se con tutto ciò pensiamo di aver detto una verità definitiva sull’universo-cover siamo fuori strada. Basta dare un’occhiata a un sito come coversproject.com, che raccoglie in un database tutte le mille e mille possibili covers musicali degli ultimi anni, e soprattutto soffermarsi nell’area dibattito tra gli appassionati del genere per capire come, fra rifacimenti tali e quali, copie dove la musica resta uguale ma i testi cambiano, oppure remix che frullano canzoni diverse ma riconoscibili, ecc. ecc., il concetto di cover sia come quello di tempo per sant’Agostino: se nessuno mi chiede che cos’è, lo so, se mi interrogano, non lo so più.Bertozzi & Casoni, Vassoio con rifiuti omaggio a Manzoni, 2002, ceramica policroma, 53 x 35 x h 16 cm (courtesy Galleria Cardi & Co. Milano)
Invece di interpretare questo scacco come una sconfitta, è chiaro che l’idea-cover gode di una salute filosofica straordinaria: il dibattito in rete è oggettivamente una delle controversie esteticamente più interessanti nella contemporaneità – se è vero, come è vero, che (per dirla con le parole di uno che detestava abbastanza la modernità, come don Benedetto Croce), «l’Estetica, che è la scienza dell’arte, non ha … come s’immagina in certe concezioni scolastiche, l’assunto di definire una volta per tutte l’arte … ma è soltanto la continua sistemazione, sempre rinnovata e accresciuta, dei problemi ai quali, secondo i vari tempi, dà luogo la riflessione sull’arte» (Croce, Aesthetica in nuce, 1928, nuova ed. 1990, p. 207).
Dio mio, cos’è il forum di coversproject se non la continua sistemazione sempre rinnovata e accresciuta della riflessione sull’arte? Anche l’arte visiva del resto, per quanto rifare un quadro sembri molto più difficile che coverizzare o remixare una canzone, non è rimasta estranea a questo dibattito, se non altro perché fin da subito ha dovuto rispondere allo shock consistente nella possibilità di essere tecnicamente riproducibile. Il nemico numero uno dell’arte tradizionale, cioè Marcel Duchamp, meglio noto per aver rovesciato un orinatoio e averlo intitolato Fontana (nel lontano 1917), fu al centro di aspre critiche di “mercificazione” perché negli anni ’60 autorizzò il suo amico e collezionista Arturo Schwartz a realizzare delle repliche di quell’orinatoio, che nel frattempo era andato perduto; lui stesso però, da vero genio, aveva preventivamente realizzato tra il 1936 e il 1941 una valigia (la Boite en valise) in cui erano contenute le riproduzioni in miniatura di tutte le sue opere più famose: una vera e propria collezioni di mini-cover! Ma la cosa ancor più sorprendente è che, negli anni Novanta, un altro artista americano, Mike Bidlo, già noto per aver “ricopiato” centinaia di Picasso, ha prodotto decine e decine di acqueforti dedicate appunto all’orinatoio duchampiano…
Luis Felipe Ortega e Daniel Guzman, Remake, 1994, video, 10’ (courtesy Kurimanzutto, Città del Messico)Anche nelle arti visive dunque la cover tende a sostituire la più innocua e postmoderna citazione; quest’ultima ha una lunga storia, se si pensa che già Ingres, nel suo autoritratto, non fa che riprendere consapevolmente l’inimitabile Autoritratto di Raffaello, ma le cose si complicano quando un artista contemporaneo come Giulio Paolini, grazie alla tecnica dell’emulsione fotografica su tela, sovrappone i due autoritratti e crea una terza opera non-originale dal titolo Doppio Autoritratto. Proprio a Paolini si deve, forse, la prima vera e propria cover artistica, ossia quel famoso Giovane che guarda Lorenzo Lotto, (1967) che non è altro che la riproduzione fotografica dell’ancor più famoso Ritratto di giovane, dipinto appunto da Lorenzo Lotto nel 1505: il fatto che il giovane ritratto nel quadro fissi i suoi occhi in quelli di chi guarda, diventa per l’artista contemporaneo il segno di un inquietante “ritorno al futuro”, dato che, per un momento, noi occupiamo esattamente il posto dove cinque secoli fa si era collocato Lotto per dipingere. L’inquietante diventa dunque la chiave di lettura della cover, il doppio illegittimo e alieno con cui dobbiamo fare i conti, come in quella scena memorabile di Terminator 2 in cui un poliziotto viene ucciso dal terminator che ha preso le sue fattezze, e, in definitiva, viene ucciso da “se stesso”.
E così, anche l’arte contemporanea – che si è sempre comportata nei confronti dell’arte tradizionale come una sorta di corpo estraneo, o come un vero e proprio Terminator – si vede oggi, con stupefatto orrore, “terminata” da se stessa: si pensi al rovesciamento dell’opera di Yves Klein operato da una giovane artista americana come Rachel Lachowitz: laddove l’esplosivo artista francese aveva (nel 1960) usato delle modelle dipinte di blu come dei “timbri viventi” per realizzare delle tele che all’epoca furono giudicate “scandalose”, Rachel ha rovesciato il segno del gioco e (trent’anni dopo, nel 1992) ha usato, lei, donna, un modello maschio, “inchiostrandolo” però, invece che di Blu Klein, di un femminilissimo rossetto!
E infine, anche la letteratura, la più tradizionale di tutte le arti, sembra ormai molto lontana dai bei giorni in cui era possibile “ispirarsi” ad aulici modelli del passato, per farli ritornare vivi nella prosa o nella poesia del presente. Senza dubbio, il primo ad avere intuito questo destino dello scrivere, fu Borges nella sublime e indimenticabile novella di Pierre Menard, il letterato infaticabile e oscuro che dedicò gli sforzi di una vita, non a produrre un capolavoro sconosciuto di originalità, ma a ri-scrivere un capolavoro fin troppo conosciuto appartenente di diritto all’umanità intera, il Don Chisciotte. Nella versione di Borges, Menard riscrive sì il Chisciotte, solo che, per acribia e puntiglio letterario, distrugge quasi tutto il suo lavoro, lasciando ai posteri solo alcuni frammenti, che sono, si badi bene, in tutto e per tutto simili all’originale di Cervantes, ma «assumono un senso completamente diverso da quello che potevano avere nel XVII secolo». Ecco, il fatto è che oggi potremmo dire che gran parte dell’opera dei creativi contemporanei consiste, in fondo, nel colmare proprio questa immensa lacuna lasciata da un lavoro di riscrittura à la Menard: oggi, non ci contentiamo più dei frammenti, montati insieme in mostruosi Frankenstein traballanti e incerti, oggi, qui e là, cominciano ad aggirarsi minacciosamente nel nostro panorama culturale gli spettri di veri e propri cloni, completi e perfettamente funzionanti.
Che dire infatti dell’operazione che ha visto come protagonisti tre dei nostri più agguerriti poeti e scrittori contemporanei, Aldo Nove, Tiziano Scarpa e Raul Montanari, che nel 2000 hanno pubblicato un libro di poesie (Nelle galassie oggi come oggi, Einaudi), ciascuna intesa come cover di un brano rock, dai Rolling Stones ai Bauhaus? Si può solo aggiungere che evidentemente la cover porta davvero fortuna, dato che proprio questo volumetto è risultato il libro di poesie più venduto nella storia della poesia italiana…
(P.S.: quindi non stupitevi se rileggerete questo stesso articolo pubblicato, in altra versione, da qualche altra parte. In universo copia non è forse questo il destino fatale di ogni prodotto di cultura?

 

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