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Cover Theory
brevi cenni sull'
Universo - Copia
di Marco Senaldi
Il colpo di grazia lo hai quando, dando
la solita sbirciata nella vetrina del negozio di design, vedi all’improvviso
qualcosa che non ti potevi aspettare. In bella mostra infatti ci sono
due televisori che, invece di sedurre con le lusinghe dell’ipertecnologia,
lo schermo ultrapiatto, i cristalli liquidi e il look satinato, incrociano
lo sguardo “con un istante dejà-vu”, qualcosa che
non dovrebbe essere lì: da un lato il famoso tv brionvega
disegnato da Zanuso, col fondoschiena arrotondato come la coda di una
Giulietta degli anni Sessanta, dall’altro il celeberrimo tv-cubo,
un dado di cristallo nero che nella sua enigmatica semplicità
non sfigurerebbe a fianco del misterioso monolito di 2001 Odissea
nello spazio.
Sì, perché il 2001 sarà anche passato e trapassato,
ma questi oggetti, pur essendo stati pensati e progettati quarant’anni
fa, non sono modernariato: ricostruiti oggi, in copia perfettamente
identica all’originale, ci rispediscono indietro nel tempo senza
però giocare con la nostalgia; di fatto sono nuovi di zecca,
e dunque non contengono una briciola di memoria, eppure appartengono
ad un’altra epoca. Già, ma quale?
Il fenomeno delle repliche potrebbe tranquillamente essere archiviato
nell’alveo delle bizzarrie del design, e del resto sono numerose
le aziende che sopravvivono ancor oggi producendo “pezzi classici”
dei grandi progettisti del passato. Tuttavia, basta guardarsi intorno
per capire che la tendenza alla “replica” è diffusa
oggi in un modo più capillare di quanto non sembri. Aveva cominciato
l’Alfa Romeo che, con la 156, recuperava dettagli retrò
– la targa frontale spostata di lato, come sulla mitologica Aurelia
de Il sorpasso, la maniglia della portiera, vistosa e sporgente
come quella delle vecchie Millecinque o dei frogoriferi del boom…
– ma il colpo di genio era arrivato dal centro stile di Wolfsburg,
amena cittadina teutonica dove si producono le Volkswagen: il New Beetle
ha decisamente dato il via a un’idea di design che “procede
recuperando”, e la campagna pubblicitaria per il lancio era stata
concepita proprio su quella falsariga: la headline diceva infatti: «Se
ti sei venduto l’anima, adesso è il momento di ricomprarsela»
(alludendo proprio a quegli yuppies che negli anni ’60 e ’70
avevano flirtato con l’underground e la controcultura –
movimenti di cui il Maggiolino era una sorta di bandiera ideologica
– e che oggi sono diventati manager di successo e con un budget
adeguato…).
Ma se la New Beetle era, rispetto al vecchio Maggiolino, ancora una
forzatura stilistica secondo i dettami dell’estetica postmoderna
del recupero delle linee curve unite al dettaglio hi-tech (cosa evidente
se si affiancano davvero i due modelli di auto, la vecchia e la nuova),
che dire invece della nuova Mini Cooper, che è piuttosto una
“cura ormonale” della vecchia Mini passata al photoshop
e “anabolizzata” del 15%?
Viene quasi alla mente una indimenticabile scena di Fahrenheit 451
di Truffaut, un film a favore dei libri ma anche un film di oggetti; come
non ricordare l’agghiacciante esempio di tv interattiva che istupidisce
la moglie del protagonista, il melanconico Montag? Tuttavia, mentre quel
tv color sembra davvero anticipare un futuro (il film è del ’66)
che è il nostro presente, e si materializza sulla parete così
come oggi potrebbe fare un qualunque fortunato possessore di videoproiettore
e home theater, c’è un particolare che lascia perplessi
e che balza agli occhi quando Montag, chiama il suo capo dall’apparecchio
telefonico. Tenuto conto del carattere avveniristico di Farenheit
451 ci dovremmo aspettare un cordless o addirittura un cellulare,
o un microchip in stile James Bond, e invece niente di tutto questo: il
telefono di casa Montag è una vecchia cornetta con tanto di manovella!
Spia del passato che non passa in un universo futuribile che ha perso
la memoria, la cornetta di Montag è anche l’anticipazione
più sorprendente che Truffaut ci abbia regalato con il suo film,
quasi a voler dire che nel futuro ci dovremo attendere anche inaspettati
e quasi inconsci ritorni di frammenti del passato.
Ma non è forse esattamente questo ciò che sta accadendo?
Un altro campo immenso in cui trova applicazione la sindrome di Montag
è offerto dalle più recenti tendenze musicali. Senza andare
ad addentrarsi nei meandri della lounge, della cocktail music e nei
territori del remix, che vedono in vetta gruppi come i Daft Punk, che
più che il punk sviscerano il loro amore molesto per personaggi
da noi semisepolti tipo Giorgio Moroder e compagnia (cantante, of course),
basta fare mente locale su quello che è stato uno dei cd più
venduti di alcuni anni fa, e cioè Fleurs di Battiato
che è, fin dal titolo, una “antologia” di brani del
passato vicino e lontano, vere e proprie covers musicali, che
spaziano dalla Ballata dell’amore perduto di de Andrè
a Era de maggio.
Proprio la cover è oggi l’oggetto di un dibattito acceso
e di una costante ridefinizione. L’idea proviene dalla pratica
consistente nel realizzare versioni alternative di pezzi famosi, le
cosiddette covers (in inglese “copertina”, nel
senso di brano famoso o di successo che appare sulla copertina del disco).
La diversa interpretazione, il remix, la nuova versione, si
sovrappone al brano di partenza, talvolta in lingua diversa, talvolta
con arrangiamenti, entrando con l’originale in una complessa relazione
di simbiosi.
Concettualmente, la cover differisce dalla più classica
“variazione sul tema”, perché quest’ultima
utilizza un motivo musicale già noto traducendolo in una composizione
complessivamente nuova. La cover invece è un calco di
un brano già esistente che viene comunque eseguito per intero,
anche se in forme che possono distorcere o modificare profondamente
lo stile e persino il senso dell’originale, a cui però
restano morbosamente fedeli.
In questo senso la cover si distingue anche dalla pratica (più
diffusa nell’ambito cinematografico) del remake. Il remake
(il rifacimento ad esempio di un classico del genere noir anni ’50
come Il postino suona sempre due volte) ha valenze nostalgiche:
si ammicca all’originale, alla sua atmosfera, magari con qualche
ritocco fondamentale, (parti della storia, oppure il finale) per avvicinarlo
al presente salvandone il glamour passatista.
Invece, non sempre la cover aggiorna l’originale –
talvolta ne estrae l’anima più antica: è il caso
di un pezzo concepito per sintetizzatore e strumenti elettronici, come
Autobahn, dei Kraftwerk, rifatto per ensemble di soli violini
dal Balanescu Quartet. In altre parole, il remake assomiglia
di più a quello che nel linguaggio del design dovremmo definire
un restyling (un fenomeno diffuso anche nella moda); mentre
la cover si sovrappone come un doppio al suo originale “fotocopiandolo”,
ed è più simile alla “replica”.
Remake e opera rifatta dunque vivono un casto rapporto di affetto
reciproco; viceversa, la cover è un’ingegneria
genetica dell’originale, quasi un gemello contro natura. Il remake
è dunque dalla parte della “corretta e naturale”
filiazione, ossia segue una discendenza genealogica culturale, che ha
tanti e tanti illustri esempi di fronte a sé (è chiaro
che anche l’Orlando Furioso flirta con i poemi
epici medievali, come è chiaro che l’Antologia di Spoon
River non è che un rifacimento aggiornato dell’Antologia
Palatina…), mentre la cover è dalla parte
della riproduzione frattale, estrapolazione di un individuo-copia da
un frammento di un altro individuo, in altre parole “clonazione”.
L’esempio più eclatante in questo senso è rappresentato
dal famoso Psycho (1960), di Alfred Hitchcock, che è
stato maniacalmente ricopiato ad opera di Gus Van Sant nel film omonimo,
Psycho, appunto, quasi quarant’anni dopo (1998). In questo
caso, siamo di fronte ad una vera e propria cover cinematografica,
perché l’originale hitchcockiano è stato replicato
sequenza per sequenza, anche se a colori e con attori diversi dall’originale.
Nella storia del cinema, d’ora in poi, dovremo parlare di due
Psycho, specificando a quale facciamo riferimento…
Ma se con tutto ciò pensiamo di aver detto una verità definitiva
sull’universo-cover siamo fuori strada. Basta dare un’occhiata
a un sito come coversproject.com, che raccoglie in un database
tutte le mille e mille possibili covers musicali degli ultimi
anni, e soprattutto soffermarsi nell’area dibattito tra gli appassionati
del genere per capire come, fra rifacimenti tali e quali, copie dove la
musica resta uguale ma i testi cambiano, oppure remix che frullano
canzoni diverse ma riconoscibili, ecc. ecc., il concetto di cover
sia come quello di tempo per sant’Agostino: se nessuno mi chiede
che cos’è, lo so, se mi interrogano, non lo so più.
Invece di interpretare questo scacco come una sconfitta, è chiaro
che l’idea-cover gode di una salute filosofica straordinaria:
il dibattito in rete è oggettivamente una delle controversie
esteticamente più interessanti nella contemporaneità –
se è vero, come è vero, che (per dirla con le parole di
uno che detestava abbastanza la modernità, come don Benedetto
Croce), «l’Estetica, che è la scienza dell’arte,
non ha … come s’immagina in certe concezioni scolastiche,
l’assunto di definire una volta per tutte l’arte …
ma è soltanto la continua sistemazione, sempre rinnovata e accresciuta,
dei problemi ai quali, secondo i vari tempi, dà luogo la riflessione
sull’arte» (Croce, Aesthetica in nuce, 1928, nuova
ed. 1990, p. 207).
Dio mio, cos’è il forum di coversproject se non la continua
sistemazione sempre rinnovata e accresciuta della riflessione sull’arte?
Anche l’arte visiva del resto, per quanto rifare un quadro sembri
molto più difficile che coverizzare o remixare
una canzone, non è rimasta estranea a questo dibattito, se non
altro perché fin da subito ha dovuto rispondere allo shock consistente
nella possibilità di essere tecnicamente riproducibile. Il nemico
numero uno dell’arte tradizionale, cioè Marcel Duchamp,
meglio noto per aver rovesciato un orinatoio e averlo intitolato Fontana
(nel lontano 1917), fu al centro di aspre critiche di “mercificazione”
perché negli anni ’60 autorizzò il suo amico e collezionista
Arturo Schwartz a realizzare delle repliche di quell’orinatoio,
che nel frattempo era andato perduto; lui stesso però, da vero
genio, aveva preventivamente realizzato tra il 1936 e il 1941 una valigia
(la Boite en valise) in cui erano contenute le riproduzioni
in miniatura di tutte le sue opere più famose: una vera e propria
collezioni di mini-cover! Ma la cosa ancor più sorprendente
è che, negli anni Novanta, un altro artista americano, Mike Bidlo,
già noto per aver “ricopiato” centinaia di Picasso,
ha prodotto decine e decine di acqueforti dedicate appunto all’orinatoio
duchampiano…
Anche
nelle arti visive dunque la cover tende a sostituire la più
innocua e postmoderna citazione; quest’ultima ha una lunga storia,
se si pensa che già Ingres, nel suo autoritratto, non fa che riprendere
consapevolmente l’inimitabile Autoritratto di Raffaello,
ma le cose si complicano quando un artista contemporaneo come Giulio Paolini,
grazie alla tecnica dell’emulsione fotografica su tela, sovrappone
i due autoritratti e crea una terza opera non-originale dal titolo Doppio
Autoritratto. Proprio a Paolini si deve, forse, la prima vera e propria
cover artistica, ossia quel famoso Giovane che guarda Lorenzo
Lotto, (1967) che non è altro che la riproduzione fotografica
dell’ancor più famoso Ritratto di giovane, dipinto
appunto da Lorenzo Lotto nel 1505: il fatto che il giovane ritratto nel
quadro fissi i suoi occhi in quelli di chi guarda, diventa per l’artista
contemporaneo il segno di un inquietante “ritorno al futuro”,
dato che, per un momento, noi occupiamo esattamente il posto dove cinque
secoli fa si era collocato Lotto per dipingere. L’inquietante diventa
dunque la chiave di lettura della cover, il doppio illegittimo
e alieno con cui dobbiamo fare i conti, come in quella scena memorabile
di Terminator 2 in cui un poliziotto viene ucciso dal terminator
che ha preso le sue fattezze, e, in definitiva, viene ucciso da “se
stesso”.
E così, anche l’arte contemporanea – che si è
sempre comportata nei confronti dell’arte tradizionale come una
sorta di corpo estraneo, o come un vero e proprio Terminator –
si vede oggi, con stupefatto orrore, “terminata” da se stessa:
si pensi al rovesciamento dell’opera di Yves Klein operato da
una giovane artista americana come Rachel Lachowitz: laddove l’esplosivo
artista francese aveva (nel 1960) usato delle modelle dipinte di blu
come dei “timbri viventi” per realizzare delle tele che
all’epoca furono giudicate “scandalose”, Rachel ha
rovesciato il segno del gioco e (trent’anni dopo, nel 1992) ha
usato, lei, donna, un modello maschio, “inchiostrandolo”
però, invece che di Blu Klein, di un femminilissimo rossetto!
E infine, anche la letteratura, la più tradizionale di tutte
le arti, sembra ormai molto lontana dai bei giorni in cui era possibile
“ispirarsi” ad aulici modelli del passato, per farli ritornare
vivi nella prosa o nella poesia del presente. Senza dubbio, il primo
ad avere intuito questo destino dello scrivere, fu Borges nella sublime
e indimenticabile novella di Pierre Menard, il letterato infaticabile
e oscuro che dedicò gli sforzi di una vita, non a produrre un
capolavoro sconosciuto di originalità, ma a ri-scrivere un capolavoro
fin troppo conosciuto appartenente di diritto all’umanità
intera, il Don Chisciotte. Nella versione di Borges, Menard
riscrive sì il Chisciotte, solo che, per acribia e puntiglio
letterario, distrugge quasi tutto il suo lavoro, lasciando ai posteri
solo alcuni frammenti, che sono, si badi bene, in tutto e per tutto
simili all’originale di Cervantes, ma «assumono un senso
completamente diverso da quello che potevano avere nel XVII secolo».
Ecco, il fatto è che oggi potremmo dire che gran parte dell’opera
dei creativi contemporanei consiste, in fondo, nel colmare proprio questa
immensa lacuna lasciata da un lavoro di riscrittura à
la Menard: oggi, non ci contentiamo più dei frammenti,
montati insieme in mostruosi Frankenstein traballanti e incerti, oggi,
qui e là, cominciano ad aggirarsi minacciosamente nel nostro
panorama culturale gli spettri di veri e propri cloni, completi e perfettamente
funzionanti.
Che dire infatti dell’operazione che ha visto come protagonisti
tre dei nostri più agguerriti poeti e scrittori contemporanei,
Aldo Nove, Tiziano Scarpa e Raul Montanari, che nel 2000 hanno pubblicato
un libro di poesie (Nelle galassie oggi come oggi, Einaudi),
ciascuna intesa come cover di un brano rock, dai Rolling Stones
ai Bauhaus? Si può solo aggiungere che evidentemente la cover
porta davvero fortuna, dato che proprio questo volumetto è risultato
il libro di poesie più venduto nella storia della poesia italiana…
(P.S.: quindi non stupitevi se rileggerete questo stesso articolo pubblicato,
in altra versione, da qualche altra parte. In universo copia non è
forse questo il destino fatale di ogni prodotto di cultura?
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