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La libertà del segno
intervista a
Gaetano Brundu
di Maria Dolores Picciau
M.D.P.: Il tuo esordio
nella vita culturale cagliaritana è legato alle mostre collettive
dei pittori e scultori di Studio 58. Come è nata la tua avventura
artistica?
G.B.: C’erano le letture, Lionello Venturi in
particolare, le mostre a Roma, alla Galleria Nazionale d’Arte
Moderna era stata appena esposta la mitica collezione Cavellini, una
raccolta orientata principalmente verso gli informali europei. A Cagliari,
nell’estate del 1957, con Italo Agus si cercava di creare un “Caffè
degli artisti” con l’idea di sollecitare l’esposizione
di opere, la libera discussione e l’incontro senza filtri e selezioni.
Avevamo vent’anni, più o meno e incominciammo a trovar
contatti con altri artisti della nostra età e nel giro di pochi
mesi aveva preso corpo l’idea di creare un gruppo, un gruppo di
rinnovamento, di dibattito libero e senza preconcetti.
M.D.P.: Studio 58, il Gruppo Iniziativa,
dei quali sei stato tra i fondatori, tra il ’58 ed i
primi anni Sessanta, che cosa si proponevano e che cosa hanno rappresentato
per l’arte in Sardegna?
G.B.: Per Studio 58 era fondamentale l’affermazione
di libertà, la rivendicazione ad un pensare libero, la creazione
di un dibattito privo di pregiudizi e di valori dati una volta per tutte.
Per il Gruppo Iniziativa c’era un progetto più
ampio, più generale nelle sue implicazioni sociali e d’impegno
su progetto di Francesco Cocco. Il Gruppo Iniziativa si articolò
presto in settori specifici, quello artistico era uno di essi. Del 1964
è l’elaborazione del Manifesto, firmato da me,
Mazzarelli, Pantoli e Staccioli. Cosa ha rappresentato il Gruppo
Iniziativa per la Sardegna, o per l’Italia, è una
cosa che non era al centro delle mie preoccupazioni. Nel sistema dell’arte
c’è, e c’era anche allora, una dimensione globale,
un’ideale comunicazione planetaria, particolarmente sentita fra
gli artisti e le intelligenze progressiste, e fra coloro che pensano
che il futuro può rivelarsi prodigo di doni per la vita dell’umanità.
Le specificità locali possono essere assorbite in queste ampie
dinamiche. La Sardegna è un’isola, forse perfino felice,
di questo vasto mondo.
M.D.P.: Sei stato considerato un iconoclasta e un
rivoluzionario quando nel 1960 per la
prima volta hai esposto i tuoi sacchi al Portico Sant’Antonio
a Cagliari: vogliamo ricordare l’importanza di quell’evento?
G.B.: La mostra al Portico Sant’Antonio, nel
febbraio 1960, ebbe un impatto di massa. Non era una mostra limitata
al clima rarefatto e artefatto delle gallerie. Era un’operazione
iconoclasta rispetto al contesto locale, ma sapevo bene cos’era
successo da più di quarant’anni nelle più avanzate
ricerche artistiche in diverse parti del mondo ed il mio intento era
piuttosto quello di partecipare ad un processo che ancora stava impegnando
tanti artisti nel mondo. Certo uno dei sacchi esposti al Portico
Sant’Antonio era intitolato Souvenir from Auschwitz,
un altro riprendeva un verso di Ezra Pound a proposito di Ulisse, Il
mio nome è Nessuno. Potevano anche essere visti, in qualche
modo, come un riflesso di opposti estremismi, come si diceva allora,
certamente io li proponevo per la loro carica di sarcasmo e di disperazione,
la storia senza ritorno dei lager e la vicenda apparentemente senza
speranza nella grotta di Polifemo. Non a caso avevo scelto la parola
Souvenir, come fosse un’innocente cartolina da un luogo
di vacanza, per evocare quella tragedia espressa da un sacco strappato
e sbrindellato e macchiato di rosso sangue.
M.D.P.: Ma quali erano le ragioni di fondo che
giustificavano quest’ansia di rinnovamento?
G.B: Le ragioni di fondo erano le stesse che in tutto
il mondo spingevano tanti artisti ad affermare la loro libertà
espressiva e per questo a scontrarsi inevitabilmente con conformismi
e spirito cortigiano, ad essere guardati con ostilità dal Potere
e dai suoi cortigiani e cani da guardia. Mi viene da pensare al presente,
oggi, qui, ma anche qui ieri e non solo avantieri, ma ormai siamo abituati
a tutto e ci resta solo da sperare che il peggio non debba ancora venire.
M.D.P.: Quando è comparso per la prima volta
il “baffo” e personalmente a cosa lo riconduci?
G.B.: Il primo “baffo” è del 1962.
Apparve su un olio su tela che intitolai subito Leone I. La
forma ed il simbolo del baffo era ed è riconducibile alle particolari
problematiche messe in luce dal Surrealismo e, prima ancora, alle analisi
di Freud sul sogno e sui suoi simboli. Quindi il baffo, è anche
un simbolo fallico; ma direi che esso richiama un più ampio e
complicato ambito erotico. Sono seguite infinite variazioni sul tema,
dal suo definire il muso di quei primi gattoni, i leoni, al riproporsi
per la loro semplice forma in composizioni non figurative, fino alle
recenti sperimentazioni al computer.
M.D.P: Spesso i tuoi lavori sono accompagnati da
scritte e citazioni. Cosa significano per te oggi visto che hanno perso,
forse, quel carattere dissacrante e di protesta che avevano negli anni
’60?
G.B.: Sì. Da un lato i versi dei poeti, dall’altro
le parole scritte sui quadri o sui disegni, qualche volta anche parole
e frasi inventate, come Kail als Munst, da Mail als Kunst.
Altre volte le parole sono belle e chiare: Maledetti, Maledetti
vorrà pur
dire qualcosa. Questa scritta, utilizzata in due mostre del 1999, voleva
richiamare misere esperienze del quotidiano, “storie di ordinaria
burocrazia” e poiché c’era anche un richiamo ad un
famoso titolo di Bukowski, l’idea della follia veniva lasciata scivolare
fra le pieghe di quel titolo. Se guardiamo al quotidiano, ad ambiti più
ristretti e forse per questo più deprimenti e disperanti, pesa
su di noi la consapevolezza di essere avvolti in una rete di norme vessatorie,
di trappole amministrative, limiti e limitazioni gestite dalla burocrazia
con la sua congenita ottusità ed incoercibile inclinazione alla
sopraffazione del cittadino in cui si vede un suddito da tener buono e
spaventato e con la sensazione di avere sempre torto; sono le trappole
che incidono sul quotidiano e corrodono i sentimenti, che avvelenano ogni
nostra velleità di goderci serenamente le gioie che l’esistenza
potrebbe anche dispensarci.
M.D.P.: Hai svolto sempre un’intensa attività
pubblicistica. Molti artisti preferiscono lavorare al cavalletto e alcuni
vivono appartati. Tu sei molto schivo ma ami esprimere anche attraverso
la scrittura il tuo credo e a volte lo fai in modo “dissacrante”.
Quale deve essere per te il ruolo dell’artista oggi?
G.B.: Qualche volta ripenso agli anni ’58 e ’59,
alle cose che riuscivo a scrivere allora, alla libertà che concretamente
riuscivo a strappare in contesti che apparivano illiberali e repressivi.
Ora mi chiedo perché quella libertà non la si eserciti
oggi. Forse per limiti nostri attuali, per autocensura, mancanza di
coraggio e per troppo rispetto delle cose che non ci piacciono. E magari
poco amore per le cose che ci piacciono. O magari per una forte illiberalità
del contesto, per la funzione negativa e censoria dei filtri, cioè
di coloro che hanno il potere di pubblicare o non pubblicare. Ne risente
il clima generale, la qualità del dibattito culturale, poiché
se manca una vivace, anche feroce, dialettica, la vita culturale resta
priva del suo ossigeno, della sua principale ragion d’essere.
A questo discorso si può collegare quello sul ruolo dell’artista
oggi. Non credo si debba pensare a tale ruolo in modo rigido, statico,
bisogna concepire una dinamica che può anche avere le sue apparenti
contraddizioni, una dinamica che contenga, nei suoi diversi momenti,
sia la torre d’avorio che il buttarsi nella mischia; il silenzio,
ma anche il canto, l’urlo e l’invettiva.
M.D.P.: Perché le tue partecipazioni a mostre
sono sempre più rare?
G.B.: Oggi non ho una gran voglia di esporre, date
le condizioni attuali, in certi contesti, ma forse in me si è
accentuata l’insofferenza per certa ostilità istituzionale
che si sente nell’aria, ma anche per questi rituali pseudo mondani,
per le troppe approssimazioni culturali e per questo starnazzare. E
poi percepisco diffusa una più generale ostilità per l’arte
e perfino per le sue logiche interne, un’ostilità che si
annida fin nelle strutture sociali e amministrative, nelle logiche del
potere e nelle ideologie, tutte, del Leviatano predone e vessatorio
che si è impadronito anche della nostra vita quotidiana, delle
nostre ore e dei nostri pensieri.
Gaetano Brundu è nato a Cagliari nel 1936.
Vive e lavora a Cagliari. Fin dagli esordi ha inteso il fare artistico
come impegno sociale e di critica all’establishement artistico.
È stato tra i promotori del Gruppo 58 e tra i fondatori
del Gruppo d’Iniziativa democratica.
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