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Gli
archivi della Memoria incontro
con
Cristian Boltanski
di Giannella Demuro
G.D.: Quando si incontra
un artista che ha un percorso così intenso e impegnativo come
il suo, viene naturale chiedersi quali siano le motivazioni che hanno
orientato la ricerca in questa direzione.
C.B.: Io penso che ogni artista abbia vissuto nell’età
dell’infanzia, un qualche trauma che sarà poi raccontato
in maniera ossessiva per tutta la vita, come Louise Bourgeois –
che io ammiro enormemente – che, a distanza di ottant’anni,
continua, come lei stessa dice, ad avere un problema irrisolto con il
padre. Per me, questo “trauma” è rappresentato dalla
Shoah, dall’Olocausto, che sebbene io non abbia vissuto in prima
persona e per quanto non presente in maniera esplicita nei miei lavori,
ha condizionato in modo determinante la mia formazione sia umana che
artistica. Da questo punto di vista, anch’io agisco, quindi, come
la maggior parte degli artisti che, condizionati ciascuno da una propria
personale tematica, propongono sempre la stessa opera.
G.D.: Ritiene, quindi, che l’arte le sia
stata utile per elaborare tutto questo e per trovare delle risposte??????U`
C.B.: Secondo me non è questo il compito dell’arte:
un artista può formulare delle domande ma non ottiene, in genere,
nessuna risposta. Ciò che ho cercato di fare, nella mia vita,
è stato tentare di salvare quella che ho sempre chiamato la “piccola
memoria”, anche se, con gli anni, mi sono, sempre più
reso conto della difficoltà di questo compito, dell’impossibilità
di salvare le cose. Penso, adesso, che niente possa essere salvato.
G.D.:
Cosa intende per “piccola memoria”?
C.B.: Parlo di “piccola memoria” in contrasto
con la “grande memoria”, quella storica, quella che si legge
sui libri. La piccola memoria, invece, è una memoria fragile
che, con la morte, scompare totalmente, per sempre. Quando ero giovane
avevo orrore del fatto che la gente morisse e, per questo, i miei primi
lavori erano opere in cui tentavo di custodire la mia vita e lo facevo
mettendo dentro scatole per biscotti oggetti che mi erano appartenuti,
da quelli più importanti a quelli più banali: dalle lettere
d’amore ai fogli d’importazione, fino alle bollette di casa.
G.D.: La tendenza a raccogliere oggetti, ad archiviare
immagini, ha da sempre caratterizzato – come dimostrano anche
queste prime opere – tutta la sua ricerca. Anche l’utilizzo
?????U` di fotografie, così ricorrente in gran parte dei suoi lavori,
è da leggere in quest’ottica?
C.B.: Io non ho mai scattato una fotografia, ho sempre
utilizzato foto già esistenti che trovo e raccolgo un po’
dappertutto. Per me la fotografia rappresenta l’assenza,
testimonia che c’è stato qualcuno, e che ora quel
qualcuno non c’è più. Della fotografia,
non mi interessa affatto la qualità estetica, mi interessa, invece,
il fatto che si tratta di persone che sono state e che ora non sono
più. Non importa che siano ancora viventi, conta il fatto che
non sono più là. In un certo senso, la fotografia va sempre
in direzione della morte perché, se scattiamo una foto ogni secondo,
tre secondi dopo non è più la stessa cosa: si tratterà
sempre di un momento che è già trascorso.
G.D.: In tal caso, lo stesso discorso si potrebbe
applicare anche alle opere in cui lei
utilizza dei vecchi abiti?
C.B.: Si, è esattamente la stessa cosa. Non
c’è differenza tra un vestito liso e una fotografia, entrambi
mantengono l’immagine di qualcuno che c’è stato.
I vestiti, anzi – ed è questo il senso del lavoro di Palermo
di qualche anno fa – conservano, a volte, persino l’odor?????U`e
della persona che lo ha indossato. Ecco, a me interessa questa “assenza”,
perché le cose sono soltanto la memoria delle cose, perché
esistono soltanto in relazione a cose passate, e tutto il mio lavoro
è basato sull’idea della fragilità del tempo.
G.D.: Lei ha realizzato diversi Monumenti.
Queste opere hanno a che fare, con il tempo?
C.B.: Si, ne ho progettati tanti, nella mia vita, e
ciò che li distingue da quelli tradizionali in marmo è
il fatto che i miei sono fatti con materiali che non sopravvivono al
tempo. Qualche anno fa il Museo di arte ebraica di Parigi mi ha commissionato
un’opera in memoria degli ebrei morti durante la guerra. Io ho
preparato, allora, un elenco che conteneva i nomi di tutte le persone,
perlopiù ebrei, che avevano abitato nel palazzo che sarebbe poi
diventato il Museo. Ho inserito però, nell’elenco, anche
il nome della portinaia francese che aveva, al tempo, denunciato gli
stessi abitanti del palazzo. Ma, anziché far incidere questi
nomi sul marmo, li ho fatti stampare su della semplice carta, per cui
ogni anno devono essere ristampati. Questo lavoro è diventato,
così, come una preghiera che bisogna ripetere costantemente.
Il museo è infatti obbligato, tutti gli anni, a ristampare e
rincollare i manifesti. Il “monumento”, quindi, muore e
rinasce ogni anno. Trovo che questo sia un modo per restituire vita
alla memoria di quelle persone.
G.D.:
Come mai in questo lavoro sul Museo ebraico ha voluto inserire anche
il nome della portinaia francese?
C.B.: Ho fatto quello che solitamente faccio nella
maggior parte dei miei lavori quando, dopo aver raccolto una grande
quantità di immagini, diventa impossibile distinguere le une
dalle altre, capire chi siano le persone ritratte, che siano vittime
o criminali. È molto importante per me, il fatto che siamo tutti
apparentemente simili e, tuttavia, differenti, unici. Nel 1994 ho realizzato
un’opera che raggruppava milleseicento ritratti di esseri umani.
Impossibile riconoscere chiunque in quella massa di gente: tutte le
loro piccole storie erano andare perdute.
G.
D.: Lei parla spesso della necessità di preservare
l’identità dell’individuo, ma come è possibile
che questo accada all’interno degli infiniuti elenchi di
nomi che costituiscono le sue opere?
C.B.: C’è una frase di Napoleone
che mi piace molto e che ripeto sempre anche se non amo affatto Napoleone.
Amo, però, questa frase che lui disse qando si trovava ad Austerliz,
riferendosi all’enorme numero di morti che giaceva sul campo di
battaglia: «Tutto questo non ha alcuna importanza, perché
basta una notte d’amore a Parigi e tutto verrà sostituito».
?????U` Effettivamente si tratta di una frase terribile ma, allo stesso tempo,
forse è l’unica cosa veramente “ottimista”
da dire perché è vero, in fondo, che nessuno è
insostituibile. Questo vuol dire che tra qualche anno, ad esempio, ci
saranno un altro critico e un altro artista seduti per un’intervista
in questo caffè, come noi oggi, o in un altro caffè, a
parlare delle stesse cose.
G.D.: Ma tutto questo suona molto cinico.
C.B.: È orribile, certo, perché ovviamente
nessuno di noi è insostituibile ma ciascuno di noi è sostituito,
anzi, fortunatamente sostituito. Credo che ci troviamo in una sorta
di linea dove ci sono persone che ci precedono e altre che vengono dopo
di noi. La vita continua: continua senza di noi, ma continua. Ciascun
essere umano è certamente unico, prodigioso, meraviglioso, ma,
nel momento in cui sparirà, e sparirà completamente, ci
sarà un altro essere altrettanto unico che lo sostituirà.
Ora, una persona ottimista, cosa che io non sono, potrà immaginare
che durante questo piccolo arco di tempo che è la vita, sarà
possibile modificare un po’ il mondo, anche se leggermente. Io,
però, non ne sono così sicuro.
G.D.: Nonostante questo suo acceso pessimismo,
ho avuto l’impressione che la recente mostra al Centro per l’arte
contemporanea di Siena presentasse un atteggiamento di maggior apertura
verso una posizione più ottimistica, rispetto, ad esempio, alla
grande mostra di Parigi.
C.B.: L?????U`a mostra di Parigi partiva dall’idea
che non c’è ritorno. Nella mostra, alla fine del percorso
non c’era niente, c’era solo la stanza degli oggetti smarriti:
una stanza piena di oggetti senza identità. La mostra di Siena,
invece,
è abbastanza ottimista: il percorso comincia con un bambino e finisce
con un bambino. C’è una sala illuminata dalla luce del giorno
e i bambini – che come sempre nel mio lavoro hanno l’aspetto
di futuri cadaveri – sono veramente dei bambini. Questa mostra è
senza dubbio legata all’idea della durata della vita, del tempo
della vita: un tempo in cui le cose ricominciano. All’inizio del
percorso, infatti, i bambini sono neri e quasi tutte le sale sono sale
del lutto, sale del tempo della vita. Alla fine c’è
una piccola sala dove ci sono ancora degli altri bambini che hanno anche
loro l’aspetto di cadaveri, ma c’è una porta che dà
verso l’esterno e che i visitatori potevano aprire e che permetteva
di vedere cosa accadeva fuori: il sole, la luce del giorno, persone che
si abbracciano, macchine che passano. Insomma, volevo indurre lo spettatore
a capire che la vita continua. Ecco, penso che tutta la mia attività
sia legata al tema dell’individuo e della sua fragilità.
L’essere umano è importante, ma “sparisce” molto
rapidamente, poi altre persone arrivano e lo sostituiscono: ma questa
è la vita.
?????U`
G.D.: Come definirebbe, oggi, il suo rapporto con
la morte?
C.B.: Sappiamo bene che tutto è destinato
a scomparire e che tutti i tentativi di lottare contro la morte sono
inutili. La morte è una cosa molto strana: noi siamo esseri unici,
con storie, conoscenze e piccole memorie, ma – da un momento all’altro
– diventiamo un oggetto ignobile, repellente: questa è
la morte.
G.D.: E l’amore?
C.B.: Mi succede spesso una cosa molto strana: io potrei
innamorarmi di qualunque persona che passa perché ogni persona
merita di essere amata. Se si conosce qualcuno, lo si ama, perché
ogni persona è incredibile. E, allo stesso tempo, non è
possibile fare una cosa del genere perché la vita sarebbe orribile.
Se si amasse realmente ogni persona che si conosce, la vita sarebbe
troppo complicata, impossibile. Ma a questo, fortunatamente, provvede
il caso che, ad esempio, ti porta ad abitare in una città anziché
in un’altra. Nelle mie installazioni uso spesso la fotografia
ma non uso mai una persona da sola, perché non ho alcun diritto
di scegliere una persona piuttosto che un’altra. Ovunque ci sono
delle persone meravigliose, ma anche queste spariscono, spariscono dalla
memoria, molto rapidamente. Io ho avuto una nonna che era una donna
straordinaria: oggi nessuno la ricorda più. Non c’è
più alcuna immagine di lei, non ci sono più oggetti che
le sono appartenuti: ciò che resta è soltanto un ricordo
nella mia testa, un ricordo molto leggero, e ?????U`quando io morirò
non ci sarà più nessuno che si ricorderà di lei,
e di mia nonna non resterà più niente. Per questo dico
che ciascuna persona è allo stesso tempo così tanto importante
e così tanto ridicola.
G.D.: Ritiene che l’arte possa contrastare
questa caduta verso la morte e verso l’oblio?
C.B.: Il vero artista scompare nel suo lavoro, non è
che un’immagine collettiva,
il riflesso del desiderio degli altri. Chi, come l’artista, produce
un’immagine in cui gli altri si riconoscono, non esiste più.
Nell’arte si passa dalla propria storia personale all’universale,
e se la storia personale suscita interesse, allora diventa storia per
chiunque. È sempre lo spettatore, in fondo, che fa l’artista.
È lo spettatore che fabbrica la propria visione dell’opera,
secondo la storia personale di ciascuno. Credo che questo, inevitabilmente,
sia ciò che si interpone tra l’artista e lo spettatore: lo
spettatore avrà sempre una maniera diversa di vedere le cose. La
bellezza dell’opera d’arte è proprio questa. Nel cinema
ci sono delle persone che, sedute vicine, guardano lo stesso film, ma
nessuno, in fondo, guarda veramente lo stesso film, ognuno guarda e riconosce
soltanto sé stesso o il proprio passato. Se vogliamo che lo spettatore
scopra qualcosa dobbiamo fa?????U`r sì, come artisti, che si riconosca
in ciò che noi facciamo, che riconosca la nostra opera come qualcosa
che gli appartiene. Se leggiamo una biografia, ad esempio quella di Proust,
lui non parla di sé, parla dei lettori, e per questo ci riconosciamo
nel suo libro. Ci riconosciamo in attesa in una stanza, o mentre aspettiamo
nostra madre. Insomma, Proust parla proprio di noi ed è per questo
che ci riconosciamo nei suoi libri. È ogni singolo lettore, ogni
singolo spettatore, che “conclude” l’opera. Quando ero
giovane avevo un’idea troppo cristiana, pensavo, cioè, che
l’artista non avesse un volto, e che al suo posto avesse uno specchio.
Non doveva, insomma, avere una sua vita personale: l’artista diventava
totalmente gli altri, non era più niente che gli altri, e ogni
persona che vedeva l’opera poteva dire «Sono io, parla di
me». Dunque, l’artista si nascondeva e non restava nient’altro
che il desiderio degli altri, la storia degli altri.
G.D.: È per questo, allora, che
– come ha già affermato più volte – avrebbe
“costruito” la sua biografia utilizzando in parte elementi
della sua vita personale ed altri tratti dalla vita di altre persone?
Possiamo dire che si è trattato di un passaggio che l’ha
portata a creare una storia universale?
C.B.:
Sì?????U`, mi piaceva parlare di me stesso. C sono delle cose che
sono una storia mitica. Io sono realmente nato alla fine della guerra,
sono nato da madre sconosciuta che mi ha riconosciuto solo in un secondo
tempo, non poteva camminare, aveva la poliomielite. Questa è una
realtà di cui io non ho mai parlato, scelgo adesso di parlarne
e, se lei scriverà di questo, sarà una storia esemplare.
Ecco, la mia storia è una storia esemplare. Però, quello
che ho appena detto non corrisponde alla realtà o meglio, è
solo una parte della realtà. Potrei dire anche che lavoro molto
poco, che passo il tempo a guardare la TV e che sono totalmente abbruttito
davanti ad essa. Insomma, ognuno di noi crea i suoi modelli: io ho costruito
questo. Quando ero giovane, ho fatto un’intervista e ho giocato
il ruolo del giovane pittore disperato. Ma tutto quello che avevo detto
scherzando era la verità, perché era un miscuglio di realtà
e fantasia. In realtà io ho sempre mentito, sono un grande bugiardo,
mi piace mentire. Non ho mai detto delle cose vere e, anche quando le
dicevo, non sapevo quale fosse la verità.
G.D.: Ma, nonostante questo, lei cerca comunque
la verità?
C.B.: La situazione è complessa,
perché ci sono sempre molte verità. Sfortunatamente ne
appare solo una ma le verità sono tante. Le cose sono troppo
complesse perché ci possa essere una sola verità. E dunque
si mente e, allo stesso tempo, non si mente affatto. Mentire è
una specie di difesa, per proteggersi.
G.D.:
Lei crede che il mentire sia un qualcosa che solo l’artista
può permettersi, distinguendosi così, ad esempio, da un
filosofo o da uno scienziato?
C.B.: Io credo che l’arte debba porre
delle domande filosofiche, ma non necessariamente con il linguaggio
della filosofia. Nell’arte, come nel linguaggio poetico, si pongono
sempre domande filosofiche. Io ho molti legami con i filosofi ma il
vantaggio di essere artista è che se, ad esempio, dico che il
cielo è rosso, sento di avere il pieno diritto di dirlo. Se dicessi
questo ad un filosofo, però, lui risponderebbe che “può
darsi” che il cielo sia rosso perché un pensatore del XV
secolo diceva così, anche se poi, successivamente, uno scienziato
del XVII affermerà, giustificandolo, qualcosa di totalmente diverso.
Per l’artista è diverso. L’artista ha qualcosa che
potremmo definire religioso, per cui se io vedo il cielo rosso vuol
dire che il cielo è veramente rosso, non ho bisogno di giustificarlo.
Il lavoro dell’artista, insomma, è molto vicino al lavoro
filosofico ma molto più libero, molto più spontaneo, non
ha bisogno di appoggiarsi alle “miserie” di qualcosa di
concreto. Se un’affermazione è valida per me, questo basta.
Si dice che bisogna vedere per credere ma io dico che bisogna credere
per vedere. È per questo che un artista può di?????U`re delle
cose, che sono filosofiche, senza avere, però, alcuna relazione
con i pensatori dei secoli precedenti. Arte e filosofia camminano in
due direzioni parallele: i filosofi devono però appoggiarsi su
alcune certezze, mentre l’artista può dire delle verità
permettendosi, però, anche di mentire.
G.D.: Ha detto, prima, che lavora poco, ma le piace
lavorare ?
C.B.: Veramente, io non faccio niente e non mi piace
molto lavorare. Mi dà molto fastidio lavorare. E in più
non penso che il lavoro sia così importante: io sono un professore,
insegno all’accademia di Belle Arti e ai miei studenti dico sempre
che bisogna aspettare, sperare, e anche un artista deve sempre attendere
e sperare.
G.D: E lei a che punto è di questa attesa?
C.B.: Io aspetto e spero sempre di fare
una grande opera. Vivo sempre in questa attesa. Si aspetta, ma non sono
tanto sicuro che in un angolo di strada, o in un bosco, si possa avere
più ispirazione rispetto a stare nel mio atelier. Posso anche
guardare lei che mangia e questo può essermi utile a qualcosa.
Passo intere giornate, a volte, a guardare soap opera, disinteressandomi
dei contenuti e concentrandomi sulle immagini che possono dirmi qualcosa.
Ciò che importa è rimanere nella condizione di attesa,
attendere qualcosa che permetta di lavorare.
G.D.: Quali sono i suoi progetti più immediati?
C.B.: Ultimamente mi occupo di teatro. Non mi interessa,
però, fa?????U`re spettacoli tradizionali dove la gente sta seduta e
guarda il palcoscenico, mi interessa che il pubblico possa muoversi
all’interno di grandi spazi, dove continuamente accade qualcosa.
C’è una grande differenza fra il teatro, che è un’arte
del tempo e la pittura e la scultura che sono arti dello spazio. Io
ho cercato di trovare qualcosa che stesse tra pittura e teatro, spettacoli
che sono dei percorsi, dei sentieri, per cui lo spettatore passeggia
in un luogo, ascolta delle cose, ha la possibilità di camminare
e di ricevere degli shock sonori, o visivi. E questo è realmente
ciò che più mi interessa in questo momento.
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