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Trame del Quotidiano
Antonella Spanu
di Giannella Demuro
In principio era il filo o almeno, in principio
era il filo nella ricerca e nelle opere di Antonella Spanu, artista della
nuova generazione che ha fatto del “filo” e della sua domestica
applicazione, il cucire, la cifra fondante di un personale e riconoscibile
linguaggio poetico ed estetico, al tempo metafora e pretesto per una riflessione
condotta lungo le trame del quotidiano, seguendo il dipanarsi dei tanti
momenti del vivere umano che tessono il reticolo fitto della vita: il
suo procedere e le soste, le scelte e i cambiamenti, le fratture e il
ricomporsi, i ritorni e gli abbandoni, gli ondivaghi ritmi incatenati
del tempo. Il tutto interpretato e narrato con delicato senso di ironia
e critica autoironica.
Il recupero di prassi operative culturalmente pertinenti all’universo
femminile come, in questo caso, la pratica del cucito nelle sue molteplici
declinazioni, non è certo una procedura insolita tra gli artisti
contemporanei, al contrario, sono assai numerosi quelli tra loro che scelgono
di privilegiare questo particolare medium, rispetto a tecniche
e linguaggi più canonici, schierandosi esplicitamente a favore
di «una visione non gerarchica delle pratiche e dei materiali utilizzati»
(E. De Cecco).
Benché tante siano anche le figure maschili - valgano per tutti
i nomi di Alighiero Boetti e Francesco Vezzoli a saldare temporalmente
le ricerche italiane degli ultimi decenni - che hanno fatto largo uso
di questa pratica, è innegabile che le presenze femminili si affermino
in misura preponderante in questo ambito di sperimentazione, inducendo
una rilettura dei ruoli anche all’interno del sistema dell’arte.
Non si tratta, evidentemente, di recuperare il cucito, il ricamo, l’arazzo,
il patchwork o altro a forme artistiche o di nobilitare delle pratiche
artigianali, quanto, piuttosto di recuperare l’esistente, il già
creato, per individuare e tracciare con la reiterazione del tessere o
del cucire, le coordinate di altri possibili luoghi di indagine e di riflessione.
Così l’opera di Annette Messager, cui attualmente rende omaggio
in Italia una importante retrospettiva, o quella di Rosemarie Trockel
e, tra le artiste più giovani, Daniela De Lorenzo, Laura Matei,
Maja Bajevic o Ghada Amer: solo alcune tra le tante originali esponenti
di questa multiforme poetica.
Dal simbolo antico, sottratto ai destini spezzati dalle dispotiche Parche,
ai manufatti annodati a ripetere segni creati da generazioni di mani sapienti,
numerosi sono gli echi di memorie passate che Antonella Spanu intreccia
con abilità e disinvoltura alle immagini e ai momenti del suo mondo
quotidiano, ai suoi dubbi e alle sue certezze, ai suoi sogni e alle sue
illusioni, per un lavoro che ben si inserisce in quella linea della ricerca
contemporanea che, come si intuisce, privilegia la preziosità e
la manualità del fare a fronte di un uso indiscriminato e debordante
delle tecnologie più avanzate e che in Sardegna trova la sua espressione
più avvincente e matura nella figura di Maria Lai, artista che
da decenni utilizza il filo, la stoffa e la tecnica del cucito nelle più
svariate applicazioni e alla quale anche la Spanu guarda, sebbene altri
siano per lei, naturalmente, i registri semantici e i nodi focali attorno
ai quali sviluppare una possibile ricerca.
Al di là del palese scarto generazionale, nel lavoro della Spanu
predomina una componente narrativa ironica e intimista, fortemente radicata
nell’esperienza personale e resa con una strutturazione fumettistica
priva, tuttavia, di mediazioni fabulistiche.
Fin dalle prime prove, dietro una intrigante levità formale e un
tono ingannevolmente giocoso, l’artista cela le ansie del vivere
quotidiano, la precarietà di un’identità faticosamente
costruita e i tanti sconfinamenti del pensiero.
Proprio all’atto del pensare è dedicato uno dei
suoi primi lavori: nell’installazione Il filo del discorso
del 1998, infatti, una miriade di fili rossi, vettori di altrettanti pensieri,
tendendosi in tutte le direzioni possibili, sfugge all’ordine accogliente
di una treccia per spingersi fino a nuove e possibili dimore
sulle pareti di una stanza. Tra essi solo uno non trova una sua collocazione
e, aggrappandosi ad una tela sospesa nel vuoto, scrive “ho perso
il filo del discorso”, scrive il suo fallimento, la sua impossibilità
a raggiungere un altrove. In un lavoro successivo, accostando l’immagine
alla scrittura, la Spanu inizia a scoprire le possibilità della
narrazione.
L’anno seguente realizza Ma dopo l’accademia cosa vuoi
fare?, un copriletto ricamato con la tecnica del patchwork con il
quale l’artista sostituisce il più classico, cartaceo diario
personale e al quale affida i suoi ricordi fissandoli in una dimensione
atemporale che nasce dal gesto lento e minuzioso del ricamo. Il risultato
è una teoria di piccoli personaggi, dai tratti volutamente infantili,
realizzati con ritagli di stoffa multicolore su quadratini di tessuto
tenuti assieme dal filo allegro e colorato dell’ironia che cuce
l’uno accanto all’altro, in un morbido e singolare fumetto,
gli episodi della vita di un’artista esordiente.
Nello stesso anno Antonella Spanu realizza Panni sporchi, un
intervento su un manifesto pubblicitario utilizzato per stendere un anomalo
bucato fatto di indumenti su cui comparivano le tracce scure di un ferro
da stiro, metafora di uno spazio domestico offerto allo sguardo esterno.
Nelle forme di un racconto si sviluppa anche Disabitando punto a capo,
opera del 2000, in cui ricompare, come protagonista, la stessa figura
infantile del copriletto-patchwork e nella quale convivono quadri, elementi
installativi e azione. Un intreccio di fili rossi e blu, alcuni dei quali
ancora sostengono e definiscono la sagoma di una casetta, è
ciò che resta delle soffici pareti di un’abitazione/abito:
un involucro che è corpo, dimora dell’io, ma anche luogo
di possibili cedimenti. Da questo morbido disordinato groviglio si dipana
un filo che, pur spezzandosi nel protendersi, consente il procedere, l’andare
avanti, il tendersi verso un nuovo ordine, il ricominciare “da capo”:
una catasta di gomitoli colorati annuncia, infatti, l’ordine ricostituito
di un’identità.
Questo percorso, questo faticoso cammino, è narrato in una sequenza
di undici piccoli quadri (numero che rappresenta simbolicamente l’identità
femminile) in cui la giovane protagonista vive su di sé la perdita
e il recupero dell’io, della propria identità. L’azione
narrata è stata resa ancora più esplicita dall’artista
che ha indossato un abito uguale a quello della bambina nei quadri, un
abito di maglia a strisce rosse e blu dal quale pendeva un filo spezzato,
intatto, però, nella sua parte superiore: come nell’abito,
anche nella casa, un piccolo lembo di tessuto rimane intatto a significare
la persistenza di un frammento dell’io, la permanenza
di un nucleo identitario che sopravvive a distacchi e fratture e che consente
l’intrecciarsi e l’esistere di nuove possibilità.
Antonella Spanu, nata a Mogoro (OR) nel 1974 vive e lavora a Torino.
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