Ziqqurat n°7
Sommario
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Estetica
& Gen.etica

di Valerio Dehò
Cyber
Narciso
Vi è qualcosa nelle annunciate modificazioni genetiche che non
ha la patina del nuovo, ma la ruggine dell’antico. La replica dell’uomo,
della sua stessa biologia molecolare, può essere vista da alcuni
come un sogno che si realizza. Per altri è una tragica profezia
che si realizza. Di “falsi Adami” è piena la storia
dell’umanità. Però finora le macchine hanno simulato
soltanto alcune parti o funzioni del corpo umano. Anche un bastone è
l’estensione del braccio. Da allora, cioè dalla preistoria
ad oggi, la potenza dell’uomo è sempre stata orientata all’espansione
delle sue capacità, anzi la sua limitatezza è stata vissuta
come una sconfitta da cancellare in fretta.
In effetti, ne è passato di tempo, quante macchine sono state inventate
per allargare la sfera del potere sulla Natura, e sugli altri uomini.
Quante capacità umane sono state espanse nell’universo del
non più umano. Il mondo macchinico brulica di fantasmi, di glorie
e di sconfitte. La rivoluzione industriale della fine del Settecento inaugurò
la corsa impari tra l’uomo e la macchina. Oggi tutto questo non
ha più senso, nessun luddista sparerebbe ai cloni, a questi umani
che sono tali e basta. Diverso è invece il caso del cyborg in cui
la filosofia meccanica che lo governa è ancora una condanna alla
dannazione del “mecare”, del commettere adulterio con la natura.
La creazione appartiene invece alla “poiesis”, a un fare sempre
più vicino all’attività degli dei.
E l’anima? Questo fardello di pochi grammi a sentire i fisiopatologi
(tale è infatti il peso che si perde subito dopo la morte), è
stato una diga tra l’artificiale e l’umano, ma la compattezza
di questo argine viene sempre meno. Se ancora è dato di assistere
ad un film come A.I. in cui gli umani mostrano quanto cinismo
abbiamo sviluppato nella loro cosiddetta evoluzione e trattano i perfetti
piccoli robot come carne da macello, certamente pesa ancora il ricordo
fastidioso del golem o del trucco infinito degli automi seicenteschi.
Dall’anatra di Vaucanson al Pinocchio di Spielberg-Kubrick il passo
è grande, ma la maledizione è una sola. «Macchine
siete e macchine rimarrete», questo non lo si può dimenticare,
anche se poi le prenderemmo in casa come dei figli dandogli perfino il
bacino della buonanotte. Ma l’uomo non è mai stato tenero
con i propri fratelli, almeno da Caino in avanti, cioè da sempre.
L’inferiorità va sempre dichiarata, inferiorità strutturale,
chip al posto della materia grigia, colore di pelle o rivestimento siliconico:
le differenze sembrano permanere.
Ma la clonazione apre uno spiraglio di indeterminatezza che rinvia direttamente
all’orrore. L’uomo dinanzi al se stesso sta zitto,
si contempla come Cyber Narciso, quasi si compiace di tanta illuminata
potenza. Già i replicanti di Phil Dick erano bella gente, ma era
fiction. La pecora Dolly è simpatica e scottish, ma ha
ancora dei problemi da superare. Comunque la strada è segnata.
Povero Strindberg se vedesse non solo un suo doppio attraversargli
la strada di Stoccolma, ma addirittura una dozzina prendere il caffè
vicino alla Torre blu, scriverebbe un nuovo e insonne romanzo. Fantascienza,
certo, ma del tipo «è impossibile andare sulla luna»
o «non si può rigene-rare un arto umano». Le cellule
staminali tra un po’ ce le impianteranno in ambulatorio e con la
mutua, altro che fantascienza.
L’arte aspetta, registra, prolifera nelle pieghe di una duplicazione
al cubo. Ma l’artista resta un Ego con centro se stesso. Non può
tacere dinanzi all’estremo Narcisismo di una replica. Umano
troppo umano. I figli sono la stessa cosa, ma auto generarsi è
ancora più bello, perché è di noi stessi che saremo
sempre innamorati anche quando stringiamo la mano di un essere diverso
da noi.
Lo
fece, il raddoppiamento, quel genio di un Alighiero e Boetti che già
negli anni ’60 inventò un suo doppio, in tutto uguale, creando
un binomio perfetto perché inscindibile: Alighiero & Boetti.
Marchio di fabbrica che mette d’accordo artisticità e soli-dità
imprenditoriale, come poi ne abbiamo visti tanti. Quanti sono stati i
cloni di Boetti? Tantissimi, coppie vere o di fatto, o di sesso attratte
dalla formula della & commerciale che fa tanto cinismo anni Ottanta,
ma invece il Boetti torinese l’aveva escogitato per prendere per
i fondelli l’arte delle originalità vendute a caro prezzo,
l’arte del demiurgo che lavora solo su ispirazione e nel buio della
sua stanzetta. La premiata ditta Alighiero & Boetti si faceva invece
aiutare nell’impresa, ma è stata lo stesso grande e ha tracciato
una strada a tanti giovani artisti che lo hanno eletto (involontariamente)
come Grande Clonatore o Sommo Padre. Segreti della genetica che forse
un giorno verranno spiegati, in attesa sempre di una mappatura a cui sfugga
il gene dell’arte, che da qualche parte del nostro DNA si sarà
pure rifugiato.
Video
nonstrorum
I mostri hanno abitato l’antichità del mondo. Bestie gigantesche
venivano avvistate a iosa dai marinai afflitti dalle lunghe bonacce o
avvolti da tempeste oceaniche. Oltre le colonne d’Ercole oppure
nel favoloso Oriente si aggiravano esseri improbabili ma temibilissimi,
scherzi di natura con cui non era lecito scherzare. Ma se era l’Oriente
la terra dei Draghi, oggi i mostri nascono nei laboratori farmaceutici,
dalla ricerca genetica. Se un tempo la fantasia dell’uomo si dava
da fare per inventare curiosi accoppiamenti tra uomo e animale e tra gli
animali stessi, oggi l’immaginazione è giunta finalmente
al potere, ma si tratta di un potere sconcertante e tutto sotto l’insegna
dell’industria genetica. Quello che era possibile alla letteratura,
oggi lo è per la scienza. Ma ha un senso dare vita a ibridi, a
specie i cui nomi non esistevano nel “Grande Libro della Natura”?
Da un certo punto di vista è vero che l’uomo ha sempre modificato
il proprio ambiente e ha creato degli animali sempre più vicini
alle proprie esigenze. Gli animali domestici sono tutti frutto di artificio,
razze pure praticamente non esistono. Lo stesso vale per le piante. L’artificialità
è l’unica naturalezza a nostra disposizione. Ma le possibilità
che si sono aperte dicono qualcosa in più perché il mostro
non ha più l’empirismo e la casualità del Frankenstein,
è il prodotto di un programma di controllo che ha a disposizione
una combinatoria sterminata.
Ma
la genetica rimuove le paure ancestrali? No, è vero piuttosto che
ne crea di nuove. Così l’arte si popola d’esseri strani
con qualcosa di familiare. Vi sono da un lato i fenomeni tipici del baraccone
mediatico, mostri di derivazione filmica, che fanno orrore ma soprattutto
schifo. Spesso con ironia, si pensi agli indimenticabili B movie della
Troma Film, ma con una violenza che è ormai respirabile anche
nella vita comune. Allora viene da pensare che l’Oriente attuale
sia il mondo mediatico. È questa la fucina degli scempi biologici,
dei paradossi di quegli esseri impossibili che seminano il panico nelle
menti comuni di gente comune.
Accanto a quest’orrore a basso costo (una parabola satellitare non
la si nega a nessuno), vi sono mostruosità umane che esasperano
il concetto di diverso fino a farlo coincidere con il reale. Cera o vetroresina
hanno popolato l’arte di autentiche e affascinanti porcherie. Particolarmente
indagato (e sfruttato perché i mostri rendono sempre bene in termini
economici e di audience) il genere ha prodotto e sta producendo un Circo
Barnum artistico che spesso scende nel sessuale per lo scandalo che ci
meritiamo. L’artista, spesso americano, colpisce un target, non
approfondisce nulla di quanto sta accadendo e produce un’estetica
teratologica. I mostri e gli anni ’90 sono stati anticipati dalla
fotografia. Witkins su tutti, ma anche tante belle mostre organizzate
dentro e attorno ai musei di storia naturale come quello della Specola
di Firenze. L’arte e i video hanno diffuso di tutto dallo splatter
al parabiologico, gli ibridi hanno comunque preso il sopravvento sui lucertoloni
del Grande Show Biz cinematografico.
I bimbi naturalmente aggiungono alla deformità anche quell’orrore
che deriva dalla loro innocenza (vera o presunta) e in più muovono
perfino a compassione. A due o a tre teste, con corpi in cui gli arti
si moltiplicano come fossero insetti di una specie sconosciuta, sono entrati
nei musei con il loro colorito terreo. Perché alla fine se l’arte
è diventata un museo delle cere qualcosa è cambiato o sta
cambiando e non in meglio.
Ma ci sono anche forme instabili e inattese, giocattoli che mostrano il
proprio lato peggiore, fumetti transgenici, pupazzi che hanno deviato
dalla propria missione rassicurante e ormai hanno invaso il territorio
della paura. Anche questo cambiamento di segno è interessante perché
l’infanzia con tutti i suoi territori limitrofi (innocenza, serenità,
gioco, famiglia) diventa un territorio della grande guerra che si sta
combattendo tra le Forze del Bene e quelle del Male. Come il Blob ormai
mitico, la massa purulenta entra nelle nostre case attraverso le fessure
delle porte, attraverso i tubi di scarico del bagno. Non basta non aprire
agli sconosciuti, da Poltergeist in avanti sappiamo che basta un tubo
catodico. Nemmeno i nostri figli sono al riparo, anzi possono diventare
veicoli d’infezione. Così la semplice e serena quotidianità
viene scalfita da un orrore a volte sottile, altre devastante. L’innocenza
del Mulino Bianco di kinderiana memoria si scontra con il ghigno malefico
di giocattoli sempre pronti a ribellarsi agli umani. La Manichinia, città
di pupattole e bambocci semoventi, di E. T. A. Hoffmann si è ormai
eclissata sotto l’urgenza dei tempi, sotto la loro violenza che
nulla risparmia. Addio Principessa Brambilla e addio anche tenero Golem
che spaventavi grandi e piccini nel ghetto di Praga. Oggi la paura nasce
davanti al camino mentre leggiamo il giornale alla fine di una bella giornata
di lavoro: nasce da un peluche che improvvisamente comincia a guardarci
in un modo strano.
X
- Y Code
La struttura del DNA, la sua sequenza di algebra biologica, è stata
sempre un riferimento linguistico per altre discipline. È straordinario
il numero di citazioni e transcodificazioni che si sono costituite attorno
perché il potere di arrivare a comunicare direttamente alla gente
attraverso un “oggetto” di questo tipo, non poteva non avere
un’eco permanente. DNA, una catena di amminoacidi che vengono letti
come un linguaggio. Alla base della vita vi sono parole, come affermato
da chi è certamente più in alto di noi dicendo: «In
principio fu il verbo». Anche in questo caso c’è il
fascino che esercita l’arrivare ai costituenti della materia animata,
qualcosa di simile al primo modello di atomo come quello di Bohr, che
è stato scelto come il simbolo stesso della scienza atomica, il
suo logo. Quindi un simbolo. La spirale della vita è diventata
l’immagine di un movimento infinito, di quel movimento che ne genera
altri, che non s’interrompe mai, che fa dell’essere perpetuo
un principio. Vitale, per l’appunto. Quindi tutto si avvita all’infinito
portando i valori della vita a diffondere un modello di scienza e di sapienza.
La scrittura, la spirale, le sequenze di X e Y che sono poi il patrimonio
dell’umanità unico e imprescindibile, hanno avuto la forza
non solo della scienza ma anche quella del sogno.
La semiotica diventa allora come un’amplificazione di questo messaggio
che si universalizza non solo per la propria forza intrinseca e costitutiva,
ma anche per la sua possibilità di traduzione. Naturalmente i simboli
sfuggono alla loro origine, diventano qualcosa d’altro, ma se diventano
tali ci sono dei motivi profondi che dobbiamo mettere in evidenza.
E non si tratta semplicemente di porre sullo stesso piano la genetica
con tutto il mondo della produzione umana. Si tratta di vedere nella catena
del DNA anche un principio umano che ci sottrae all’entropia, al
disordine. La ripetizione differente della doppia spirale, è una
certezza che il caos può essere allontanato definitivamente, che
è un episodio e nulla di più. Nella arti decorative vale
lo stesso principio, il ripetere dei motivi dà la certezza che
nulla si crea ma tutto si trasforma. Il modulo in architettura annuncia
lo stesso principio che è sempre quello del mattoncino che si sovrappone
all’altro, ma quel mattoncino vive, si evolve, si modifica con il
tempo e nel tempo. In più questo elemento ultimo ha una struttura
linguistica, si tratta di parole. Gli amminoacidi sono messaggeri di informazione,
sono già attrezzati per convivere con la nostra estrema evoluzione.
Allora il Codice genetico affascina come potere non solo di costruzione
ma anche di previsione. A cercare bene è tutto lì o quasi.
Ma senza accettare un determinismo di tipo fideistico-religioso. Quando
le arti guardano ad esso vorrebbero possederne la forza e la forma, rivelarne
la regola soggiacente. Costruire prevedendo come da questa sequenza sia
possibile originare uno o mille universi, o comunque quell’universo
che a noi sta bene e in cui vorremmo vivere, sembra un paradosso inscritto
nella tradizione delle utopie sette-ottocentesche. Nelle sue traduzioni
anche gli artisti ne hanno recepito la fascinazione. Chi ricerca una forma,
ha trovato finalmente la forma originaria. Le sequenze, le spirali, la
vita sottesa e annunciata sono referenti di uno sviluppo infinito, di
un’attività illimitata. Contiene tutta l’importanza
che ha nella vita umana la ripetizione, la certezza di comprendere e farsi
comprendere, ma anche tutto il bisogno di un cambiamento periodico, lento,
ma un cambiamento che ci consenta di allontanare l’orizzonte sempre
un po’ più in là. Per questo l’espressione “codice
genetico” è una di quelle più ricorrenti. Oggi non
se ne può fare a meno, dagli OGM ai delitti efferati, tutti cercano
di arrivare a svelare il mistero dell’imprinting.
Perché in questo risiede il mistero conclusivo, anche l’arte
cerca le origini e cerca di svincolarsi dalla catena temporale. Ma prevale
anche il paradosso dell’identità, che sempre cerchiamo per
istinto e sopravvivenza. Nel codice l’identità è celata,
ma esiste. Bisogna saperla tirare fuori, scoprirla. Ma nel momento in
cui la cono-sciamo rischiamo di farcela rubare, di riprodurla rischiando
la replica, il doppio, il mostro. Così tutto si tiene e scopriamo
alla fine di questo breve viaggio verbale che abbiamo cercato di congiungere
l’identico a se stesso, di ricostituirlo nella sua essenza inscindibile.
L’arte e la scienza si trovano linguisticamente vicine nel giustificare
l’inviolabilità dell’individuo e nel cercare contemporaneamente,
proprio nelle mutazioni, la conferma di questo principio identitario.
Paradossi dell’uomo che per affermare la sua umanità deve
negarla.
Valerio Dehò è critico d’arte contemporanea.
Vive e lavora a Bologna. Ha curato la mostra DnArt per la prima Biennale
Merano Arte (giugno-settembre 2002). Questo articolo è gentilmente
concesso da Merano Arte.
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