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Editoriale
di Giannella Demuro
- Il fatto che un autore, nello specifico Angela Vettese,
abbia ritenuto di dover intitolare la sua ultima pubblicazione A
cosa serve l’arte contemporanea, al di là delle esigenze
di mercato e oltre ad essere indicativo delle attese del pubblico, è
una conferma ulteriore, se mai ce ne fosse bisogno, che il dibattito
sull’arte e sul suo ruolo in relazione all’individuo e al
sistema sociale sia attuale oggi, forse ancora più di ieri. Molti
i segnali in questo senso, forti soprattutto quelli che arrivano dal
sempre crescente numero di artisti provenienti da regioni a margine
del cosiddetto mondo occidentale, segnali che ci inducono ad interrogarci
ancora sull’utilità e sulla funzione dell’arte.
L’appartenenza ad una periferia, la Sardegna, ci porta, tuttavia,
ad orientare la riflessione proprio su quel margine cui si
alludeva in precedenza.
Se l’arte visiva, come si afferma da più parti, partecipa
con un suo specifico statuto all’esperienza collettiva, grazie
alla capacità di intuire e cogliere i fermenti e i cambiamenti
della società ancor prima che essi si manifestino nella loro
compiutezza, offrendo uno strumento di lettura del tempo, forse meno
preciso - proprio perché percorre strade meno razionali - di
quanto possano offrire le scienze storiche e filosofiche, ma più
puntuale ed incisivo rispetto ad esse, ci chiediamo quale sia l’arte
che assolve questa funzione e quali i requisiti che l’artista
deve possedere.
Esiste, infatti, un art system, con le sue logiche di mercato
e di potere, il giro delle gallerie, il valzer delle mostre e delle
presenze, gli artisti di tendenza e le mode onnivore e, accanto ad esso,
un’arte delle periferie, dove periferie, naturalmente,
non sono soltanto quelle geografiche, ma tutte quelle aree a margine
che producono un’arte sotterranea, fatta di artisti che difficilmente
riusciranno ad imporre la loro presenza all’interno del sistema
sia per la difficoltà di accedere ad esso, sia perché
comunque estranei e non contenibili nelle logiche del mercato.
Ma se una delle prerogative dell’arte sembra essere quella di
disvelare i meccanismi del sistema, come possono gli artisti riconosciuti,
che in un sistema simile, quello dell’arte, sono entrati rispondendo
alle sue implacabili logiche, essere in grado di opporsi ad esso? Quanto
questi stessi artisti corrono il rischio di essere fagocitati ed integrati?
È possibile che l’arte, ufficializzandosi, possa diventare
meno incisiva e capace di adempiere al suo compito?
È lecito, dunque, chiedersi se in qualche modo non abbia un senso
ben preciso proporre, come in questo numero, non solo la presenza di
artisti provenienti da aree geograficamente periferiche, ma anche artisti
underground, pressoché sconosciuti, che possiedono originalità
e capacità creative a volte anche superiori a quelle di molti
artisti inseriti nel sistema.
La speranza, certo, è che l’arte, anche la più ufficializzata,
non possa mai essere totalmente ingabbiata, ma certamente ancora meno
potrà esserlo l’arte sotterranea proprio perché
è lo stare al margine che preserva, ancora, lo spirito e la libertà
dell’artista.
Riconoscere e dare visibilità a questo spirito e alle espressioni
artistiche che esso produce diventa sempre più necessario, soprattutto
in un momento in cui - come da tempo accade in Sardegna e non solo -
il ritorno di politiche culturali conservatrici, ed il conseguente ostracismo
delle istituzioni pubbliche nei confronti dell’arte contemporanea
tenta di ostacolare e minare la portata destabilizzante e trasformatrice
della sperimentazione visiva.
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