Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


Ziqqurat n°7
Sommario

CroniStorie
Intervista a Leonardo Boscani
di Antonello Fresu

A. F.: Rispetto alla maggior parte degli artisti, sei arrivato ad occuparti di arti visive in età relativamente adulta: i tuoi primi lavori, infatti, risalgono alla seconda metà degli anni Novanta.
L. B.: È vero, ho iniziato ad occuparmene quando avevo 37 anni. Solo allora mi sono reso conto che l’arte poteva diventare il mezzo di comunicazione più adatto a quella che era la mia esperienza. Fino ad allora, la mia attività principale era stata prevalentemente di tipo politico.

A. F.: Il tema dominante dei tuoi primi lavori è stato quello della carne, come mai?
Leonardo Boscani, Tenere carni bianche, 1997, acrilico su tela, 48,5 x 170,5 cm (foto Donato Tore - courtesy Provincia di Sassari)L. B.: I lavori sulla carne, soprattutto sui polli, hanno rappresentato, sia pure con qualche ingenuità e la presenza di elementi personali, il mio primo tentativo di dare forma a ciò che in quel momento sentivo di comunicare. L’idea del pollo mi interessava perché, nonostante diversi artisti avessero già lavorato su questa figura - penso a Siqueiros, a Soutin, e al pollo come metafora di morte - nessun artista aveva mai utilizzato questa immagine, totalmente assente anche dall’iconografia religiosa, come metafora dell’uomo e della sua vita. Nei miei lavori l’utilizzazione della figura intera, in posizione frontale, assumeva, invece, una connotazione sacrale: era la figura antropomorfa che mi interessava, il suo rapporto con l’uomo, non quello con la morte - come spesso è stato detto - anche se, certamente, ne ho rappresentato la sofferenza. Più che una crocifissione sentivo questo lavoro come una metafora della resurrezione, come un momento di passaggio fra la morte e la vita.

A. F.: Una tematica questa della rinascita che, in un certo senso, hai proseguito in Stinchi di Santo, il lavoro sugli ex-voto, che attraverso l’uso della fotografia, segna l’inizio di un progressivo distacco sia dalle tematiche più strettamente personali, sia dall’utilizzo della tavolozza intesa in senso tradizionale.
L. B.: Il lavoro sulle carni nasceva da un forte coinvolgimento emotivo, che avevo espresso soprattutto attraverso la materia pittorica. Però, se è vero che ogni tanto puoi urlare, devi anche saperti fermare a riflettere e riconoscere che non sei solo: c’è tutto il resto del mondo. In quel pe-riodo, avevo trovato alcune foto di bambini che, scampati alla morte, erano stati vestiti da angioletti per onorare la grazia ricevuta. Mi aveva molto colpito il senso del voto, l’idea, cioè, di potersi riappropriare della vita in maniera rituale, era un segno di rinascita, uno staccarsi dalla morte per andare verso la vita.

 Leonardo Boscani, Stinchi di Santo, 1999, acrilico su fotocopie, ferro, 3 elementi 59 x 100 cm  Leonardo Boscani, Stinchi di Santo, 1999, acrilico su fotocopie, ferro, 3 elementi 59 x 100 cm  Leonardo Boscani, Stinchi di Santo, 1999, acrilico su fotocopie, ferro, 3 elementi 59 x 100 cm


A. F.: Effettivamente, è proprio dopo questo lavoro che la tua ricerca si focalizza in una direzione fortemente connotata da un punto di vista sociale e Evangelizzazione è l’opera che segna questo passaggio. Un’opera in cui continui comunque ad utilizzare la fotografia come linguaggio privilegiato.
L. B.: Con questo lavoro ho avuto la sensazione di aver trovato il linguaggio giusto per esprimere ciò che sentivo: le immagini recuperate dal passato potevano diventare icone per l’analisi del presente. Ho iniziato, quindi, a cercare delle immagini adatte a questo scopo. La scelta di utilizzare vecchie foto era dovuta al fatto che ritenevo di recuperare, attraverso queste, quel frammento di verità che solo la fotografia, con la sua totale immediatezza e oggettività, poteva rappresentare. Si parlava, in quel periodo, di una possibile guerra in Bosnia, una delle tante guerre dei nostri giorni, e mi sono reso conto che quell’immagine, inquietante ma anche un po’ patetica, dei quattro soldati della prima guerra mondiale, sarebbe potuta diventare una metafora di ciò che accade ancora oggi.

A. F.: Una prassi, quella della decontestualizzazione e del disvelamento delle immagini, che è diventata, sempre più, nel corso del tempo, una costante del tuo lavoro.
L. B.: Si, è vero. Allo stesso modo in cui in Evangelizzazione ho trasformato dei simboli di guerra in un’analisi del fenomeno della guerra, altrettanto ho fatto per tutte le più grandi ideologie del nostro tempo. Così, i due bambini che giocano ai fidanzatini nella via principale di Mosca, sono simboli del comunismo, immagini di propaganda che trasformo, nel mio lavoro, in analisi di quello che, per me, è stato il comunismo. Insomma, a me interessa decontestualizzare dei simboli che nel passato avevano un certo senso e che oggi ne assumono un altro. Naturalmente questo non riguarda solo il comunismo ma tutte le ideologie, tutte le altre fedi, tutti i dogmi.

Leonardo Boscani, Evangelizzazione, 1999, olio e plotter painting su carta fotografica, 4 elementi 88 x 240 cm ciascuno Leonardo Boscani, Evangelizzazione, 1999, olio e plotter painting su carta fotografica, 4 elementi 88 x 240 cm ciascuno Leonardo Boscani, Evangelizzazione, 1999, olio e plotter painting su carta fotografica, 4 elementi 88 x 240 cm ciascuno Leonardo Boscani, Evangelizzazione, 1999, olio e plotter painting su carta fotografica, 4 elementi 88 x 240 cm ciascuno



A. F.: E il ruolo dell’artista?
L. B.: Non amo il ruolo della Cassandra, l’idea che il dono di prevedere il futuro sia data dall’alto. Credo che il futuro possa essere ragionevolmente previsto perché ci sono gli elementi, oggi, per poterlo comunque determinare. Forse il compito dell’artista è quello di gettare delle chiavi sperando che qualcuno le prenda. Quello che cerco non sono le soluzioni, ma poter riflettere, e far riflettere, su ciò che accade, soprattutto oggi, in un momento in cui la comunicazione è così invasiva ed è difficile, per l’artista come per la maggior parte della gente, riuscire a capire dove stia la verità e dove la finzione.

A. F.: Come è accolto il tuo lavoro? Trovi che ci siano dei riscontri a ciò che proponi?
L. B.: Non sento la necessità di avere delle risposte immediate dagli altri, mi piacerebbe, però, contribuire con il mio lavoro a far passare delle idee, non necessariamente subito, anche nel lungo termine. Io non ho fretta. Il vero problema dell’arte contemporanea è che viene ammorbidita, utilizzata dalla moda, dalla pubblicità. Anch’io naturalmente posso cadere nell’errore di accettare le cose che poi contesto: in realtà, io stesso potrei essere uno dei polli, come uno dei bambini, o uno dei soldati. Tutto oggi è talmente veloce che non è possibile capire tutto quello che succede: si entra nel meccanismo di tendenza, si fa quello che vogliono i galleristi, il mercato, una certa editoria. L’arte stessa può diventare di tendenza. In questa situazione ciò che l’artista può fare è agire come una grande parabola, restando sempre attento a captare e ritrasmettere tutto ciò che accade.

A. F.: Nelle ultime opere - La Piazzarossa-Zivago’s family e Lotti di Luna - hai lavorato sul  Leonardo Boscani, Piazzarossa - Zivago’s Family, 2000, stampa digitale, 300 x 300 cmtema dell’utopia, del sogno non realizzato.
L. B.: La Piazza Rossa era già di per sé un’icona molto forte, un simbolo molto chiaro, per cui ho pensato di portare in quella piazza che rappresenta il sogno di un mondo tutto uguale, il sogno dell’utopia comunista, un gruppo familiare che si trova su una nostra spiaggia: il padre, la madre e un bambino con il suo rastrello, un gruppo familiare, cioè, che rappresenta il sogno economico di quegli anni, il boom dell’edilizia, tutti simboli della ricchezza degli anni ’60. In realtà, ciò che mi interessava veramente era il paradosso del sogno non realizzato: due mondi diversi, due condizioni diverse, entrambi espressioni di due sogni irrealizzati che si realizzano, solamente, come azione d’arte. Così in Lotti di luna, anche la luna diventa un altro sogno irrealizzabile, un sogno, però, in cui noi tutti abbiamo creduto. C’è stato un momento, infatti, in cui tutta l’umanità ha creduto che sulla luna potesse esserci una nuova vita. Ma è stato proprio vero che gli astronauti sono andati sulla luna, oppure anche quello è stato un sogno? Oppure ancora, è stata una grande opera d’arte? Insomma, ciò che è accaduto in questi anni è reale, oppure è anche quello un altro grande falso della storia? Sappiamo bene, purtroppo, che nella storia ci sono sempre stati degli omissis su tutto ciò che è accaduto e, in fin dei conti, chi può dimostrare che l’uomo sia andato sulla luna? Naturalmente poteva essere la luna, oppure altro: si tratta sempre della metafora del senso e della verità della storia. Ciò che veramente importa è la dimensione del sogno, sognare di avere qualcosa. L’artista deve quindi disvelare, ma deve anche sognare, senza naturalmente farsi coinvolgere troppo da una cosa o dall’altra.

A. F.: In questo momento hai nuovi progetti in vista?
L. B.: Trovandomi a cavallo del secolo e per di più tra la fine di un millennio e l’inizio di un altro, non potevo che fare un lavoro sul tempo. In Corsica sono venuto in possesso di tantissime lastre fotografiche che rappresentano un gruppo familiare tra l’’800 e il ’900, la storia di una famiglia fino alla prima guerra mondiale. Si vedono i bambini che prima crescono e giocano con i loro giocattoli e poi si trasformano in soldati. Ho la grande fortuna di avere in mano la storia di questa famiglia e di vederne i cambiamenti attraverso gli oggetti, ad esempio i giocattoli, che diventano altro, che diventano divise. Contemporaneamente lavoro con degli artisti corsi ad una situazione che la Sardegna e la Corsica hanno vissuto entrambe: l’esperienza della prima guerra mondiale. In entrambi i casi si trattava di due popoli che per la prima volta andavano a difendere le rispettive nazioni, con tutti i problemi conseguenti: quelli della lingua, dell’estraneità, della marginalità, della cultura, dell’inserimento di due gruppi sociali, culturali all’interno di gruppi molto più grandi. Per rappresentare questo periodo che va dal secolo scorso all’inizio del nuovo millennio abbiamo pensato di cercare dei reduci, ancora viventi, che abbiano fatto la prima guerra mondiale, sia in Sardegna che in Corsica, e adesso iniziamo a fotografarli. Ciò che ci interessa è rappresentare il senso di eroismo di queste persone che hanno superato questo millennio, l’eroismo che però sta nel vivere la vita, non nell’aver fatto la guerra, aver disertato o averla finita. Insomma, in questo caso utilizzo le foto del presente, questi vecchi reduci, per raccontare il passato, e delle foto del passato, le foto della famiglia francese, per rappresentare il presente.

A. F.: Tu citi spesso Christian Boltanski come uno dei più grandi artisti contemporanei. Che affinità trovi con il suo lavoro?
L. B.: Amo molto l’opera di Boltanski, è uno degli artisti che sento più vicino a me, ma credo che ci sia una differenza sostanziale tra i due lavori: mentre Boltanski ha alle spalle la conoscenza della morte di massa, dove non conta il riconoscimento dell’individuo, del singolo, la storia individuale, ma conta quella globale. Io ho bisogno di entrare, di approfondire le storie delle persone che rappresento e di ritrovare, quindi, la riconoscibilità del singolo.

A. F.: in questi anni hai sperimentato diversi linguaggi - dalla pittura, al disegno, all’installazione fino al video e alla fotografia - arrivando a realizzare anche delle performance. Come si inserisce nella tuo discorso l’azione performativa?
L. B.: Mi interessa vedere la reazione degli altri, ma a volte anche mettere in gioco me stesso, o lasciarmi trasportare dalle emozioni. Le mie performance nascono spesso in maniera del tutto improvvisata senza preparazione, manca la componente progettuale perché mi sono reso conto che quando lavoravo su un progetto definito sentivo che perdevo il valore dell’attimo. Quando ho partecipato alla rassegna Atlante, poco prima dell’inaugurazione ho chiesto a due ragazzi, che per la loro bellezza avrebbero potuto essere dei modelli per la pubblicità di un qualunque prodotto di bellezza, o di abbigliamento, di girare per la mostra, come una coppia qualunque, con una carrozzina dentro la quale, però, c’era un agnellino scuoiato. Al suono di una sirena d’allarme, proveniente dalla carrozzina, la gente si avvicinava per guardare, ma dentro trovava l’agnello. Insomma, sento la performance come una azione di guerriglia…

A. F.: Come vivi la condizione periferica della Sardegna?
L. B.: Sento che la periferia è il centro del mondo. Dalla periferia si ha la possibilità di osservare le cose con un certo distacco che una grande città come Milano o New York, dai tempi accelerati, non permette di avere. Penso che, per quanto la periferia abbia dei limiti, come il fatto di non potersi confrontare, è dalle periferie che oggi stanno nascendo le cose più interessanti, come è successo, ad esempio, agli artisti che provengono dall’est, e quando parlo di periferia non intendo solo la periferia come isola, ma la periferia come pensiero.

Leonardo Boscani è nato a Sassari nel 1961, città in cui vive e lavora.

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