Ziqqurat n°7
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Intervista a Leonardo Boscani
di Antonello Fresu
A. F.: Rispetto alla
maggior parte degli artisti, sei arrivato ad occuparti di arti visive
in età relativamente adulta: i tuoi primi lavori, infatti, risalgono
alla seconda metà degli anni Novanta.
L. B.: È vero, ho iniziato ad occuparmene quando
avevo 37 anni. Solo allora mi sono reso conto che l’arte poteva
diventare il mezzo di comunicazione più adatto a quella che era
la mia esperienza. Fino ad allora, la mia attività principale era
stata prevalentemente di tipo politico.
A. F.: Il tema dominante dei tuoi primi lavori è
stato quello della carne, come mai?
L.
B.: I lavori sulla carne, soprattutto sui polli, hanno
rappresentato, sia pure con qualche ingenuità e la presenza di
elementi personali, il mio primo tentativo di dare forma a ciò
che in quel momento sentivo di comunicare. L’idea del pollo mi interessava
perché, nonostante diversi artisti avessero già lavorato
su questa figura - penso a Siqueiros, a Soutin, e al pollo come metafora
di morte - nessun artista aveva mai utilizzato questa immagine, totalmente
assente anche dall’iconografia religiosa, come metafora dell’uomo
e della sua vita. Nei miei lavori l’utilizzazione della figura intera,
in posizione frontale, assumeva, invece, una connotazione sacrale: era
la figura antropomorfa che mi interessava, il suo rapporto con l’uomo,
non quello con la morte - come spesso è stato detto - anche se,
certamente, ne ho rappresentato la sofferenza. Più che una crocifissione
sentivo questo lavoro come una metafora della resurrezione, come un momento
di passaggio fra la morte e la vita.
A. F.: Una tematica questa della rinascita che, in
un certo senso, hai proseguito in Stinchi di Santo, il lavoro
sugli ex-voto, che attraverso l’uso della fotografia, segna l’inizio
di un progressivo distacco sia dalle tematiche più strettamente
personali, sia dall’utilizzo della tavolozza intesa in senso tradizionale.
L. B.: Il lavoro sulle carni nasceva da un forte coinvolgimento
emotivo, che avevo espresso soprattutto attraverso la materia pittorica.
Però, se è vero che ogni tanto puoi urlare, devi anche saperti
fermare a riflettere e riconoscere che non sei solo: c’è
tutto il resto del mondo. In quel pe-riodo, avevo trovato alcune foto
di bambini che, scampati alla morte, erano stati vestiti da angioletti
per onorare la grazia ricevuta. Mi aveva molto colpito il senso del voto,
l’idea, cioè, di potersi riappropriare della vita in maniera
rituale, era un segno di rinascita, uno staccarsi dalla morte per andare
verso la vita.
A. F.: Effettivamente, è proprio dopo questo
lavoro che la tua ricerca si focalizza in una direzione fortemente connotata
da un punto di vista sociale e Evangelizzazione è l’opera
che segna questo passaggio. Un’opera in cui continui comunque ad
utilizzare la fotografia come linguaggio privilegiato.
L. B.: Con questo lavoro ho avuto la sensazione di aver
trovato il linguaggio giusto per esprimere ciò che sentivo: le
immagini recuperate dal passato potevano diventare icone per l’analisi
del presente. Ho iniziato, quindi, a cercare delle immagini adatte a questo
scopo. La scelta di utilizzare vecchie foto era dovuta al fatto che ritenevo
di recuperare, attraverso queste, quel frammento di verità che
solo la fotografia, con la sua totale immediatezza e oggettività,
poteva rappresentare. Si parlava, in quel periodo, di una possibile guerra
in Bosnia, una delle tante guerre dei nostri giorni, e mi sono reso conto
che quell’immagine, inquietante ma anche un po’ patetica,
dei quattro soldati della prima guerra mondiale, sarebbe potuta diventare
una metafora di ciò che accade ancora oggi.
A. F.: Una prassi, quella della decontestualizzazione
e del disvelamento delle immagini, che è diventata, sempre più,
nel corso del tempo, una costante del tuo lavoro.
L. B.: Si, è vero. Allo stesso modo in cui in
Evangelizzazione ho trasformato dei simboli di guerra in un’analisi
del fenomeno della guerra, altrettanto ho fatto per tutte le più
grandi ideologie del nostro tempo. Così, i due bambini che giocano
ai fidanzatini nella via principale di Mosca, sono simboli del comunismo,
immagini di propaganda che trasformo, nel mio lavoro, in analisi di quello
che, per me, è stato il comunismo. Insomma, a me interessa decontestualizzare
dei simboli che nel passato avevano un certo senso e che oggi ne assumono
un altro. Naturalmente questo non riguarda solo il comunismo ma tutte
le ideologie, tutte le altre fedi, tutti i dogmi.
A. F.: E il ruolo dell’artista?
L. B.: Non amo il ruolo della Cassandra, l’idea
che il dono di prevedere il futuro sia data dall’alto. Credo che
il futuro possa essere ragionevolmente previsto perché ci sono
gli elementi, oggi, per poterlo comunque determinare. Forse il compito
dell’artista è quello di gettare delle chiavi sperando che
qualcuno le prenda. Quello che cerco non sono le soluzioni, ma poter riflettere,
e far riflettere, su ciò che accade, soprattutto oggi, in un momento
in cui la comunicazione è così invasiva ed è difficile,
per l’artista come per la maggior parte della gente, riuscire a
capire dove stia la verità e dove la finzione.
A. F.: Come è accolto il tuo lavoro? Trovi
che ci siano dei riscontri a ciò che proponi?
L. B.: Non sento la necessità di avere delle risposte
immediate dagli altri, mi piacerebbe, però, contribuire con il
mio lavoro a far passare delle idee, non necessariamente subito, anche
nel lungo termine. Io non ho fretta. Il vero problema dell’arte
contemporanea è che viene ammorbidita, utilizzata dalla moda, dalla
pubblicità. Anch’io naturalmente posso cadere nell’errore
di accettare le cose che poi contesto: in realtà, io stesso potrei
essere uno dei polli, come uno dei bambini, o uno dei soldati.
Tutto oggi è talmente veloce che non è possibile capire
tutto quello che succede: si entra nel meccanismo di tendenza, si fa quello
che vogliono i galleristi, il mercato, una certa editoria. L’arte
stessa può diventare di tendenza. In questa situazione ciò
che l’artista può fare è agire come una grande parabola,
restando sempre attento a captare e ritrasmettere tutto ciò che
accade.
A. F.: Nelle ultime opere - La Piazzarossa-Zivago’s
family e Lotti di Luna - hai lavorato sul tema
dell’utopia, del sogno non realizzato.
L. B.: La Piazza Rossa era già di per sé
un’icona molto forte, un simbolo molto chiaro, per cui ho pensato
di portare in quella piazza che rappresenta il sogno di un mondo tutto
uguale, il sogno dell’utopia comunista, un gruppo familiare che
si trova su una nostra spiaggia: il padre, la madre e un bambino con il
suo rastrello, un gruppo familiare, cioè, che rappresenta il sogno
economico di quegli anni, il boom dell’edilizia, tutti simboli della
ricchezza degli anni ’60. In realtà, ciò che mi interessava
veramente era il paradosso del sogno non realizzato: due mondi diversi,
due condizioni diverse, entrambi espressioni di due sogni irrealizzati
che si realizzano, solamente, come azione d’arte. Così in
Lotti di luna, anche la luna diventa un altro sogno irrealizzabile,
un sogno, però, in cui noi tutti abbiamo creduto. C’è
stato un momento, infatti,
in cui tutta l’umanità ha creduto che sulla luna potesse
esserci una nuova vita. Ma è stato proprio vero che gli astronauti
sono andati sulla luna, oppure anche quello è stato un sogno? Oppure
ancora, è stata una grande opera d’arte? Insomma, ciò
che è accaduto in questi anni è reale, oppure è anche
quello un altro grande falso della storia? Sappiamo bene, purtroppo, che
nella storia ci sono sempre stati degli omissis su tutto ciò che
è accaduto e, in fin dei conti, chi può dimostrare che l’uomo
sia andato sulla luna? Naturalmente poteva essere la luna, oppure altro:
si tratta sempre della metafora del senso e della verità della
storia. Ciò che veramente importa è la dimensione del sogno,
sognare di avere qualcosa. L’artista deve quindi disvelare, ma deve
anche sognare, senza naturalmente farsi coinvolgere troppo da una cosa
o dall’altra.
A. F.: In questo momento hai nuovi progetti in vista?
L. B.: Trovandomi a cavallo del secolo e per di più
tra la fine di un millennio e l’inizio di un altro, non potevo che
fare un lavoro sul tempo. In Corsica sono venuto in possesso di tantissime
lastre fotografiche che rappresentano un gruppo familiare tra l’’800
e il ’900, la storia di una famiglia fino alla prima guerra mondiale.
Si vedono i bambini che prima crescono e giocano con i loro giocattoli
e poi si trasformano in soldati. Ho la grande fortuna di avere in mano
la storia di questa famiglia e di vederne i cambiamenti attraverso gli
oggetti, ad esempio i giocattoli, che diventano altro, che diventano divise.
Contemporaneamente lavoro con degli artisti corsi ad una situazione che
la Sardegna e la Corsica hanno vissuto entrambe: l’esperienza della
prima guerra mondiale. In entrambi i casi si trattava di due popoli che
per la prima volta andavano a difendere le rispettive nazioni, con tutti
i problemi conseguenti: quelli della lingua, dell’estraneità,
della marginalità, della cultura, dell’inserimento di due
gruppi sociali, culturali all’interno di gruppi molto più
grandi. Per rappresentare questo periodo che va dal secolo scorso all’inizio
del nuovo millennio abbiamo pensato di cercare dei reduci, ancora viventi,
che abbiano fatto la prima guerra mondiale, sia in Sardegna che in Corsica,
e adesso iniziamo a fotografarli. Ciò che ci interessa è
rappresentare il senso di eroismo di queste persone che hanno superato
questo millennio, l’eroismo che però sta nel vivere la vita,
non nell’aver fatto la guerra, aver disertato o averla finita. Insomma,
in questo caso utilizzo le foto del presente, questi vecchi reduci, per
raccontare il passato, e delle foto del passato, le foto della famiglia
francese, per rappresentare il presente.
A. F.: Tu citi spesso Christian Boltanski come uno
dei più grandi artisti contemporanei. Che affinità trovi
con il suo lavoro?
L. B.: Amo molto l’opera di Boltanski, è
uno degli artisti che sento più vicino a me, ma credo che ci sia
una differenza sostanziale tra i due lavori: mentre Boltanski ha alle
spalle la conoscenza della morte di massa, dove non conta il riconoscimento
dell’individuo, del singolo, la storia individuale, ma conta quella
globale. Io ho bisogno di entrare, di approfondire le storie delle persone
che rappresento e di ritrovare, quindi, la riconoscibilità del
singolo.
A. F.: in questi anni hai sperimentato diversi linguaggi
- dalla pittura, al disegno, all’installazione fino al video e alla
fotografia - arrivando a realizzare anche delle performance. Come si inserisce
nella tuo discorso l’azione performativa?
L. B.: Mi interessa vedere la reazione degli altri, ma
a volte anche mettere in gioco me stesso, o lasciarmi trasportare dalle
emozioni. Le mie performance nascono spesso in maniera del tutto improvvisata
senza preparazione, manca la componente progettuale perché mi sono
reso conto che quando lavoravo su un progetto definito sentivo che perdevo
il valore dell’attimo. Quando ho partecipato alla rassegna Atlante,
poco prima dell’inaugurazione ho chiesto a due ragazzi, che per
la loro bellezza avrebbero potuto essere dei modelli per la pubblicità
di un qualunque prodotto di bellezza, o di abbigliamento, di girare per
la mostra, come una coppia qualunque, con una carrozzina dentro la quale,
però, c’era un agnellino scuoiato. Al suono di una sirena
d’allarme, proveniente dalla carrozzina, la gente si avvicinava
per guardare, ma dentro trovava l’agnello. Insomma, sento la performance
come una azione di guerriglia…
A. F.: Come vivi la condizione periferica della Sardegna?
L. B.: Sento che la periferia è il centro del
mondo. Dalla periferia si ha la possibilità di osservare le cose
con un certo distacco che una grande città come Milano o New York,
dai tempi accelerati, non permette di avere. Penso che, per quanto la
periferia abbia dei limiti, come il fatto di non potersi confrontare,
è dalle periferie che oggi stanno nascendo le cose più interessanti,
come è successo, ad esempio, agli artisti che provengono dall’est,
e quando parlo di periferia non intendo solo la periferia come isola,
ma la periferia come pensiero.
Leonardo Boscani è nato a Sassari nel 1961, città in
cui vive e lavora. |