Ziqqurat n°7
Sommario
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Lorenza
Lucchi Basili
architetture del desiderio
in mostra a
Villanova
di Mariolina Cosseddu
Fotografare una forma architettonica decontestualizzata
e sublimata equivale non a fotografare architetture, ma a compiere una
precisa e inequivocabile operazione estetica. Mai, infatti, come nelle
foto di Lorenza Lucchi Basili, l’architettura è stata tanto
lontana da se stessa e vicina ad un’aerea forma scultorea o ad un
luminoso impianto pittorico.
Le immagini di Lorenza Lucchi Basili non riflettono la realtà mimetica,
non sono testimoni di situazioni documentabili, non denunciano fenomeni
di disagio o di malessere; in pratica non sono assimilabili a nessuno
dei generi che vedono protagonista indiscusso il mezzo fotografico nella
ricerca artistica contemporanea.
Eppure il processo di rappresentazione è di pura resa fotografica,
fatto di scatti e di sola intenzionalità, senza mai manipolare
l’immagine, come conferma l’artista stessa. La visione fittizia
è perfettamente riportabile ad un dato concreto, soltanto «resa
non riconoscibile per stimolare una nuova modalità di visione,
per vedere ciò che è oltre la realtà percepibile».
Aree portuali, ponti, piloni, aeroporti, capannoni industriali, segni
tangibili del presente, sono colti per frammenti, dettagli, scorci audaci
o insolite angolazioni che snaturano la forma convenzionale del manufatto
costruito e la trasformano in ideali condizioni di natura metafisica:
superfici di linee in fuga prospettica, sfiorate da luci radenti si susseguono
in spazi drammaticamente vuoti dove si dibatte l’ombra fitta e corposa
sospinta dall’irradiarsi dei campi luminosi.
Si
genera così, all’interno del sistema bipolare di bianco e
nero (raramente fa la sua comparsa il colore), un conflitto di forze in
tensione che sprigiona vitalità ed appassionante suggestione pur
nella completa astrazione dell’immagine ottenuta. Questa si definisce
in forme di assoluta purezza, cristalli di luce, monoliti verticali o
lame metalliche che attraversano, fendendoli, territori oscuri e proseguono
in spazi inafferrabili.
È chiaro, allora, che l’intento della Lucchi Basili vada
oltre le sue stesse affermazioni («Il mio interesse è per
l’architettura») e faccia, invece, dell’architettura,
un semplice pretesto per una introspezione più profonda ed ambiziosa:
«il desiderio di indagine sull’interiorità umana».
Se, infatti, accettiamo quanto lei stessa lucidamente scrive «sembra
paradossale ma l’intuizione della mia fascinazione per l’architettura
nasce dalla convinzione che esista un preciso legame tra l’uomo
e ciò che costruisce, tra il suo vissuto psicologico, interiore,
e il mondo artificiale che crea e di cui si circonda», se, dicevo,
partiamo da questo assunto, dovremo leggere, nelle sue foto, una dimensione
intima, esoterica, che affonda le radici nell’«inconscio del
nostro sentire» e non si svela se non nella memoria e nell’immaginario
poetico. Giungere a questo stadio di comunicazione significa davvero travalicare
i dati fenomenici ed immergersi in uno stadio di pura visionarietà.
Significa dimenticare che quegli oggetti rarefatti e luminosi sono parte
concreta dell’esistenza quotidiana; sono, in definitiva, continue
epifanie di una realtà rivelata da una percezione acuita e straniata.
L’opera diventa così una soglia da attraversare e di cui
sentire il respiro profondo e vibrante in un’esperienza puramente
spirituale perché resa del tutto libera da riferimenti oggettivi.
Se si vuole, il processo conoscitivo che propone la Lucchi Basili è
prossimo a quello teorizzato da James Joyce che, riprendendo l’estetica
di San Tommaso (che, a sua volta, definiva il grado supremo della bellezza
con il termine di “claritas”), traduce quel termine con “radiance”,
potere radiante. Le cose ci appaiono solitamente rivestite di una scorza
impenetrabile che, solo in alcuni momenti privilegiati, lasciano intravedere
la loro natura segreta e celata.
«In quel momento - scrive Joyce nello Stephen Hero - l’anima
della cosa, la sua identità balzano verso di noi, fuori del velo
dell’apparenza. L’anima dell’oggetto più comune
ci appare radiante. L’oggetto compie la sua epifania.»
Significativo
il momento in cui Stephen spiega ad un amico come l’orologio della
Dogana, da semplice «pezzo dell’ammobiliamento di una strada
di Dublino», si trasformi, col suo quadrante, in un occhio spirituale
che fruga nel buio.
Né diversamente funzionano le cosiddette “intermittenze del
cuore” di Marcel Proust, il cui potere manifestante scopre una seconda
realtà più profonda e più vera di quella vistosamente
leggibile nella semplice apparenza delle cose.
Così come nel celebre episodio dei campanili di Martinville che,
visti al sole del tramonto, procurano «quel piacere particolare
che non rassomiglia a nessun altro» e che, formulato in parole nella
mente dello scrittore, rappresenta la ragione stessa e il motivo conduttore
della pagina scritta. L’epifania, dunque, come atto fondante la
rappresentazione artistica, senza la quale non può prodursi conoscenza.
Così nelle austere, essenziali ed abbaglianti visioni della Basili,
che fa della forma architettonica «la chiave per leggere un codice
cifrato che si nasconde nel visibile e che l’abitudine ci porta
a non guardare più veramente; ma la forma può abbandonare
la funzione: una scala non è più una scala ma un’esplosione
strutturale nello spazio, un elemento che pur restando fermo sprigiona
energia cinetica come se si muovesse in una danza».
Tali ci sono apparse le immagini della Lucchi Basili nella mostra al Palatu
’e sas Iscolas di Villanova
Monteleone che coraggiosamente ha proposto un lavoro certo non facile
e comunque singolare rispetto alle rassegne fotografiche da tempo avviate.
Nei grandi plotter che animavano l’esposizione si respirava
un’atmosfera labirintica, un senso di vertigine emanato dalle forme
severe e ritmicamente ascensionali che, nella ripetizione seriale, diffondevano
una crescente serenità inquieta.
Così grandi, quelle immagini, da diventare vere e proprie installazioni
mobili, fatte di prospettive discordanti, insistentemente acefale e laterali,
violate dalla luce e sfuggenti nel vuoto. Uno spazio mentale e non fisico,
dunque, che l’artista consiglia di godere nella pura contemplazione,
lontano da qualsiasi riflessione razionale, perché mai scientificamente
dimostrabile.
Ora, se è vero che un tale atto di conoscenza del reale si situa
in una dimensione
romantica del sentire e dell’agire, come ci avvertono i curatori
della mostra, Giuliana Altea e Marco Magnani, è anche vero che
le soluzioni finali, il linguaggio estetico cui approda la Basili è
senz’altro di resa più classica che romantica.
Naturalmente intendiamo per classico il valore totalizzante affidato alla
forma, regolatrice dell’universo, misura dello spazio inteso come
individuale e collettivo assieme.
Il rigore strutturale, la purezza della geometria, l’equilibrio
compositivo, dicono, più di quanto non si creda, l’aspirazione
massima di queste eleganti impaginazioni a creare una realtà immutabile
che ha “valore e significato universale”: un’architettura
del desiderio, ma un desiderio sapientemente progettato.
Lorenza Lucchi Basili (Pescara, 1966) vive a Bologna. Formatasi come
architetto, ha pubblicato una monografia, L’ordine nascosto
dell’organizzazione urbana (con Franco Donato) per la Franco
Angeli. Ha al suo attivo un’intensa attività espositiva in
campo internazionale.
(foto courtesy Soter Editore/Composita) |