Ziqqurat n°7
Sommario
Stele per Balestrini
di Umberto Eco |
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da
Mazzoli i paesaggi verbali di Balestrini
di Achille Bonito Oliva
«La scultura, sarebbe il farsi-corpo
di luoghi che, aprendo una contrada e custodendola, tengono raccolto intorno
a sé un che di libero che accorda una dimora a tutte le cose e
agli uomini un abitare in mezzo alle cose» (Martin Heidegger).
Ecco l’emblema filosofico di Nanni Balestrini che individua la possibilità
di fondare un luogo dell’arte non circoscritto ai generi tradizionali,
non ancorato al semplice riferimento della poesia, pittura, della scultura,
del disegno e della pura architettura.
In questo caso l’opera non è il frutto di uno sconfinamento
o di un intreccio linguistico, bensì il risultato di una fondazione
di un diverso spazio estetico, in cui non contano soltanto i singoli lacerti
linguistici. Una pulsione wagneriana ha attraversato tutte le esperienze
creative delle avanguardie storiche, e anche di alcune neoavanguardie
del secondo dopoguerra, circa la possibilità di un’arte capace
di totalizzare dentro di sé un ventaglio di linguaggi diversi tra
loro e comunque intessuti in una interagenza spettacolare. Un desiderio
di onnipotenza attraversa il processo creativo dell’arte dagli ultimi
decenni dell’Ottocento fino alle esperienze del nostro secolo. Il
linguaggio diventa l’attrezzo adeguato per proporre un confronto
tra arte e vita, intesa come campo della complessità a cui è
possibile contrapporre un’altra complessità, quella dell’opera
appunto, fatta di relazione tra linguaggi diversi.
L’arte erge una sorta di diga estetica contro l’inerzia dell’esistente
o perlomeno costruisce un confine interno, percorribile in uno spazio
e un tempo reali. Se generalmente l’esperienza artistica fonda una
temporalità e una spazialità metaforica, indicante un periplo
di pura fantasia, la costruzione di un luogo intrecciato intorno all’uso
di vari linguaggi permette invece una possibilità di concretezza
contemplativa che sostituisce il rapporto col quotidiano, seppure momentaneamente.
In qualche modo l’arte diventa la possibilità di spingere
la vita verso una concreta impossibilità di articolarsi così
come è. L’opera fonda un confine circolare dentro cui si
compiono reali relazioni e spostamenti. Lo spostamento riguarda l’esperienza
psicosensoriale dell’artista e dello spettatore che si muove dentro
un campo mobile di relazioni, realizzato dal sistema complesso di segni
codificati (parole tratte da giornali) e riciclati dal poeta.
Lo statuto della complessità diventa una componente che accompagna
la costruzione di un’opera che non vuole sfidare la realtà
sul versante della verosimiglianza, ma piuttosto della contrapposizione
antagonista capace di creare stupefazione e meraviglia. Le avanguardie
storiche e quelle più recenti del secondo dopoguerra hanno adottato
tale tentazione, come attitudine possibile che introduce un ulteriore
tema, quello della costruzione dell’opera.
Ma per essere una costruzione moderna, è necessario per l’artista
introdurre un rapporto con la tecnica ineludibile. La tecnica del riciclaggio
acquista il compito di fondare un’ulteriore produzione rispetto
a quella che normalmente realizza. Nell’opera assume il ruolo di
un mezzo piegato a un fine contemplativo e di possibile registrazione
di un diverso rapporto con la complessità del mondo. Viene scardinato
così il principio di una comunicazione frontale con l’opera,
poggiante semplicemente su di uno scambio di tipo razionale, e proposto
invece un commercio diverso capace di ben altre implicazioni. D’altronde
esiste per l’arte contemporanea il problema del tempo, inteso come
accelerazione e velocità, che impedisce l’assunzione di un
impossibile silenzioso stato di contemplazione fissato semplicemente nella
zona dello sguardo mentale.
In Balestrini l’adeguamento della tecnica diventa in tal modo una
necessità dell’artista contemporaneo che mediante la complessità
introduce una sana deconcentrazione di elementi che impegna lo spettatore
in diversi versanti. L’opera diventa una fonte di stimoli che affrontano
in tal modo il complesso campo delle pulsioni inconsce. Rappresentare
l’indicibile diventa l’imperativo di Balestrini poeta, oltretutto
favorito dall’evoluzione dell’arte contemporanea che ha decongestionato
il moralismo dell’arte, spostandolo sul piano di una sana moralità
adiacente con una vitale disinibizione, specialmente dopo l’ingresso
sulla scena dell’arte internazionale della transavanguardia.
La totalità di questa posizione trova la sua possibile fondazione
in una totalità tecnica, in un’opera capace di restituire
la rappresentazione di un impiego complesso di più generi possibili.
Soltanto in tal modo l’arte contemporanea riesce a realizzare lo
scopo di mettere in scena una complessità adeguata.
Se con il romanticismo, il simbolismo, il futurismo, il dadaismo e il
surrealismo l’arte totale trova la sua effettuazione mediante una
voluta disarticolazione dell’immagine, ora questo è possibile
soltanto con uno spostamento verso una complessità futuribile,
che non si lascia intimorire dall’uso della tecnologia, semmai l’adopera
con una maturità post-industriale e, dunque, con arcaica maturità.
Per questo Balestrini totalmente disinibito e consapevole della progressione
non lineare dell’arte, adotta un metodo in cui la complessità
non significa integrazione dei generi, fondazione di un’opera compatta,
e invece tende verso un’opera risolta in un campo di vibrante disseminazione.
La poesia visiva di Balestrini diventa la costante che accompagna parole
di diversa estrazione, eppure legate tra loro dal collage: bisogno di
uno sconfinamento interdisciplinare non puro e semplice, ma necessario
per fondare una peripezia estetica legata a un processo di conoscenza.
L’arte ambientale degli anni Sessanta aveva allargato i varchi delle
esperienze delle avanguardie storiche, ma le aveva anche ancorate a una
costruzione di spazi in cui non esisteva se non una messa in scena dei
processi di formazione dell’immagine, una pedante analiticità
di stampo nordamericano con una inflessione orientale rivolta verso un
desiderio di vuoto.
Ora invece in Balestrini esiste una tensione conoscitiva rivolta anche
verso l’assunzione di risvolti che travalicano il semplice assunto
formale, con una predilezione verso la rappresentazione di contenuti seppure
trasfigurati formalmente attraverso l’elaborazione linguistica.
Il processo di conoscenza elaborato dall’opera riguarda non soltanto
lo stato di complessità tecnica ma anche pulsioni interne e bisogni
interiori che appartengono a un’idea del mondo. La maturità
di Balestrini consiste nell’elaborazione di forme che aggregano
elementi disparati tra loro ma dati in pura associazione. Invece negli
anni Sessanta e Settanta la maturità sembrava consistere nella
capacità di integrazione, apparentemente competitiva con l’integrata
complessità dell’universo tecnologico. Saldare
i vari elementi sembrava l’unica maniera di competere con un mondo
in cui tutto sembrava strutturato in maniera adeguata. Invece Balestrini
opera su di una diversa lunghezza d’onda, fondata su una elaborazione
che non tende a mascherare la diversità, semmai a esibirla nella
problematica unità dell’opera, come processo di aggregazione
di diversi linguaggi che necessitano di un diverso trattamento.
In questo consiste la nuova maturità dell’arte del 2000,
che richiede una perizia tecnica allargata, e nello stesso tempo una mentalità
che non crede nell’integrazione tra arte e vita, ma semmai alla
possibilità di creare un’opera fatta anche di interstizi
fluttuanti tra le forme elaborate dall’arte e quelle preesistenti
della vita.
In tal modo, nel lavoro di Balestrini, l’opera diventa quel luogo
heideggeriano che non si contempla frontalmente come una vecchia scultura,
ma il campo di riserva di un linguaggio capace di creare una dimora effettiva
in cui lo spettatore possa fluttuare e respirare.
Accordare una dimora all’uomo e abitare in mezzo alle cose significa
la capacità di non essere monolitici, al contrario irregolari fino
al punto di muoversi lungo coordinate impalpabili e relative, tra punti
di riferimento dislocati in maniera asimmetrica tra loro, con una felice
afasia spaziale e temporale.
L’arte ambientale degli anni Sessanta e Settanta ci aveva proposto
spazi abitati da un progetto organico, di omogeneità, fino alla
completa integrazione di ogni dettaglio o segno dentro un invaso retto
da un principio di utopica assolutezza.
Tale assolutezza corrispondeva a uno svuotamento, all’eliminazione
di ogni accidentalità che veniva spazzata via da una forte tensione
geometrica. Il risultato era uno spazio di pura apnea. Balestrini, invece,
fonda la possibilità della poesia visiva come “dimora”,
intesa come luogo ampio di relazione, sistema aperto a vari apporti linguistici
per puro accostamento tra loro. L’accostamento lascia appunto varchi,
interstizi dentro cui respira una vitale distanza spuria tra i vari linguaggi.
L’afasia spaziale e temporale nasce proprio dal
distanziamento fisico degli elementi e dal percorso soggettivo compiuto
dallo spettatore. La distanza aumenta proporzionalmente alla differenza
delle soluzioni linguistiche e formali, che non rispondono a uno stato
di omogeneità ma a uno volutamente sporco: parole stampate nella
prosa del quotidiano, bidimensionale poesia a parete, poesia tridimensionale
in forma turrita di parole, architetture che si assommano tra loro e si
costringono in un perimetro delimitato dall’architettura che ospita
il tutto, la tipografia della vita, stile non trafugabile.
Nanni Balestrini (Milano, 1935) poeta e romanziere,
vive attualmente tra Parigi e Roma. Agli inizi degli anni ’60 fa
parte dei poeti Novissimi e del Gruppo 63, che riunisce gli scrittori
della neoavanguardia. Nel 1963 compone la prima poesia realizzata con
un computer. Attivo anche nel campo delle arti visive, con mostre in Italia,
Francia, Germania, Stati Uniti e presenza alla Biennale di Venezia del
1993.
(testi e foto - courtesy Galleria Mazzoli, Modena)
Stele
per
Balestrini
di Umberto Eco
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C’è una
affermazione di Pascal circa i suoi Pensieri che recita: «Che
non si dica che non ho detto nulla di nuovo: è nuova
la disposizione delle materie.» Mi veniva in mente vedendo
che Balestrini ha scelto come epigrafe di questi suoi nuovi
lavori una frase di Jakobson: «Mallarmé diceva
anche che serviva al borghese le stesse parole che egli legge
tutti i giorni nel suo giornale, ma che le serviva in una combinazione
sconcertante.»
Ora, l’affermazione di Mallarmé potrebbe essere
presa nel suo senso più letterale: il poeta usa le stesse
parole che si trovano nel dizionario usato da tutti, salvo che
le combina in modo inatteso. Quasi ovvio. Ma nell’affermazione
di Pascal c’è qualcosa di più: egli non
parla di nuova disposizione delle parole ma di nuova disposizione
di argomenti. E qui la cosa si fa diversa, perché un
conto è combinare in modo nuovo le parole che la lingua
ci mette a disposizione, per farne dei testi, e un conto è
riordinare, riassettare, scomporre e ricombinare testi preesistenti.
Si noti che si sta parlando di ricombinazione fisica, che prevede un taglio,
una mutilazione, una dissezione anatomica precedente. Questo non ha nulla
a che fare con le tendenze decostruzionistiche per cui di un testo, così
come si presenta, si possono dare infinite interpretazioni, anche quelle
che il suo autore non prevedeva. Qui non si tratta di interpretazione
(che riguarda i significati) bensì di operazione chirurgica sui
significanti - e dunque, per ricorrere a una distinzione che ho fatto
altrove, non di interpretazione bensì di uso, anzi, nel caso di
Balestrini, di riuso, proprio nel senso di riciclo.
A Potremmo dire che la tecnica non è inconsueta nelle arti visive,
perché altro non è che il collage. Con i testi verbali ci
sono meno esempi, a parte Bourroughs e pochi altri.
Balestrini si presenta come lo scrittore più pigro mai esistito,
perché si potrebbe dire (esagerando un poco) che di suo non ha
mai scritto una sola parola e ha soltanto ricomposto brandelli di testi
altrui. Però gli accade quello che accade a molti infingardi che
non hanno voglia di lavorare, e per tirare a campare, tra una truffa,
la corsa per arrivare a coprire in extremis un assegno a vuoto, il muoversi
di qui e di là per trovare un prestito, scroccare una cena o vendere
la fontana di Trevi a un turista giapponese, impiegano ventiquattrore
al giorno, sono sempre con il fiatone, mai non riposano e in fin dei conti
faticano molto di più e più intensamente di un bancario
che timbri il cartellino.
La furia collagistica di Balestrini, che dura dalla fine degli anni cinquanta,
ha prodotto un corpus di grande coerenza e dalla cifra riconoscibilissima,
segno che in questa riappropriazione non indebita dei testi altrui egli
ci ha messo qualcosa di suo, che è poi lo stile - il che per un
poeta è tutto, ed è fatto di molto sudore creativo.
Un tratto dello stile di Balestrini è che si riconosce sempre quando
egli sta componendo qualcosa avendo scomposto qualcosa d’altro,
ma rimane in ogni caso il sospetto che quest’opera di riciclo non
abbia del tutto messo a tacere i testi originali. Voglio dire che si potrebbe
ricostruire la cattedrale di Chartres usando solo lattine di Coca Cola,
e se poi si ricopre il tutto con una mano d’intonaco la Coca Cola
scompare e rimane una sorta di costruzAione dallo strano bugnato. Ma se
le lattine rimangono a vista è lecito domandarsi se non vi siano
dei rapporti tra la Coca Cola e il Sacro, e comunque se l’autore
non avesse voluto suggerirli. Se così fosse - se questo sospetto
appena potesse nascere - allora l’operazione di collage non si sarebbe
limitata all’uso, alla scomposizione del supporto materiale di un
discorso che, nell’operazione di riciclo, scompare, ma conserverebbe
alcune delle caratteristiche dell’interpretazione (del testo distrutto).
Faccio un solo esempio, e lo traggo dalle Istruzioni per
l’uso pratico della signorina Richmond:
Nettatela squamatela infilatele nel ventre/le erbe odorose fissatela allo
spiedo/con un sottile filo metallico o con uno spago/umido grigliatela
alla carbonella accesa//cospargetela con rosmarino e alloro/lasciatela
riposare per un’ora così che/tutti gli aromi la penetrino
poi scuoiatela/e pulitela tagliatela in grossi pezzi//infilzatela ben
unta d’olio sullo spiedo/e praticatele qualche taglio sulla pelle/perché
non abbia a screpolarsi fatela cuocere/a fuoco moderato spruzzandola di
sale.
Il gioco, che continua per molti altri versi, è scoperto: si tratta
di un riciclo di istruzioni di cucina. Ma è più che evidente
che queste istruzioni, applicate alla signorina Richmond, si colorano
(e a tinte accese) di marchese di Sade. Perfetto, si direbbe: il testo,
neppure troppo smembrato, ma in ogni caso prelevato dal suo contesto originario,
ha perduto il suo senso per acquistarne un altro. Ma ne siamo proprio
sicuri? Non inizieremo, da questo punto in avanti, a leggere ricette di
cucina vedendovi in trasparenza l’ombra del Divin Marchese, comprendendo
quanto vi Asia di perverso in ogni pratica carnivora che trasformi il Crudo
in Cotto?
Questo sempre preoccupa con Balestrini: il sospetto che il suo massacro
di significanti riciclati non comporti anche una rilettura del significato
di ciò che è stato riciclato.
Balestrini ha proceduto, nella sua attività di riciclatore, dal
grande al piccolo e dal piccolo all’infinitesimale. Dapprima prelevava
testi interi, poi li sminuzzava, poi ha fatto collages di sole parole,
e infine di brandelli di parole e di lettere alfabetiche. E’ disceso
dall’universo dei testi a quello della tipografia. E lo si vede
benissimo in queste ultime prove, tanto più affini alle arti visive
che non alla poesia, talché si sarebbe tentati di non-leggere bensì
soltanto guardare questi labirinti e rizomi tipografici, questi obelischi
senza messaggio iniziatico. Si potrebbero considerare oggetti, oggetti
visivi fatti con brandelli che furono testi verbali, non testi verbali
fatti con altri testi verbali...
Eppure, anche se con fatica, se si scorrono con l’occhio queste
composizioni, si incominciano a intravedere delle tracce monotematiche,
come se in qualche modo ciascuna composizione fosse a soggetto. Affiorano
parole chiave, ripetizioni, si annusano i contesti di origine, ci si chiede
perché l’autore abbia scelto quei ritagli e non altri.
Non sono sicuro che Balestrini voglia che le sue composizioni si leggano
così, se desideri che l’utente di questi suoi oggetti tipografici
vi cerchi disperatamente messaggi in cifra, allusioni, rinvii a campi
semantici ben definiti, composizione per composizione. Tuttavia, se pure
non volesse, non potrebbe impedirci di farlo. E se poi lo voleva, proprio
l’aveAr l’aria di non volerlo (o almeno di non pretenderlo)
ci spingerebbe a farlo.
Allora sono geroglifici? Balestrini aspetta (sollecita) il suo Champollion?
Inutile chiederglielo perché, per tutta risposta, ci mostrerebbe
sorridendo un’altra stele.
Critico, saggista, scrittore e semiologo di fama internazionale,
Umberto Eco è nato ad Alessandria il 5 gennaio 1932. Nel 2003 è
stato insignito dal presidente della Repubblica francese, Jacques Chirac,
del titolo di ufficiale della Legion d'Honneur. |
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