Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


 Ziqqurat n°7
Sommario

 Stele per Balestrini
     di Umberto Eco    

Nanni Balestrini, High and Hell, 2001, clichés di magnesio, 300 x 70 x 70 cm T
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da Mazzoli i paesaggi verbali di Balestrini
di Achille Bonito Oliva

«La scultura, sarebbe il farsi-corpo di luoghi che, aprendo una contrada e custodendola, tengono raccolto intorno a sé un che di libero che accorda una dimora a tutte le cose e agli uomini un abitare in mezzo alle cose» (Martin Heidegger).
Ecco l’emblema filosofico di Nanni Balestrini che individua la possibilità di fondare un luogo dell’arte non circoscritto ai generi tradizionali, non ancorato al semplice riferimento della poesia, pittura, della scultura, del disegno e della pura architettura.
In questo caso l’opera non è il frutto di uno sconfinamento o di un intreccio linguistico, bensì il risultato di una fondazione di un diverso spazio estetico, in cui non contano soltanto i singoli lacerti linguistici. Una pulsione wagneriana ha attraversato tutte le esperienze creative delle avanguardie storiche, e anche di alcune neoavanguardie del secondo dopoguerra, circa la possibilità di un’arte capace di totalizzare dentro di sé un ventaglio di linguaggi diversi tra loro e comunque intessuti in una interagenza spettacolare. Un desiderio di onnipotenza attraversa il processo creativo dell’arte dagli ultimi decenni dell’Ottocento fino alle esperienze del nostro secolo. Il linguaggio diventa l’attrezzo adeguato per proporre un confronto tra arte e vita, intesa come campo della complessità a cui è possibile contrapporre un’altra complessità, quella dell’opera appunto, fatta di relazione tra linguaggi diversi.
L’arte erge una sorta di diga estetica contro l’inerzia dell’esistente o perlomeno costruisce un confine interno, percorribile in uno spazio e un tempo reali. Se generalmente l’esperienza artistica fonda una temporalità e una spazialità metaforica, indicante un periplo di pura fantasia, la costruzione di un luogo intrecciato intorno all’uso di vari linguaggi permette invece una possibilità di concretezza contemplativa che sostituisce il rapporto col quotidiano, seppure momentaneamente. In qualche modo l’arte diventa la possibilità di spingere la vita verso una concreta impossibilità di articolarsi così come è. L’opera fonda un confine circolare dentro cui si compiono reali relazioni e spostamenti. Lo spostamento riguarda l’esperienza psicosensoriale dell’artista e dello spettatore che si muove dentro un campo mobile di relazioni, realizzato dal sistema complesso di segni codificati (parole tratte da giornali) e riciclati dal poeta.
Lo statuto della complessità diventa una componente che accompagna la costruzione di un’opera che non vuole sfidare la realtà sul versante della verosimiglianza, ma piuttosto della contrapposizione antagonista capace di creare stupefazione e meraviglia. Le avanguardie storiche e quelle più recenti del secondo dopoguerra hanno adottato tale tentazione, come attitudine possibile che introduce un ulteriore tema, quello della costruzione dell’opera.
Ma per essere una costruzione moderna, è necessario per l’artista introdurre un rapporto con la tecnica ineludibile. La tecnica del riciclaggio acquista il compito di fondare un’ulteriore produzione rispetto a quella che normalmente realizza. Nell’opera assume il ruolo di un mezzo piegato a un fine contemplativo e di possibile registrazione di un diverso rapporto con la complessità del mondo. Viene scardinato così il principio di una comunicazione frontale con l’opera, poggiante semplicemente su di uno scambio di tipo razionale, e proposto invece un commercio diverso capace di ben altre implicazioni.  Galleria Mazzoli (Modena), veduta della mostraD’altronde esiste per l’arte contemporanea il problema del tempo, inteso come accelerazione e velocità, che impedisce l’assunzione di un impossibile silenzioso stato di contemplazione fissato semplicemente nella zona dello sguardo mentale.
In Balestrini l’adeguamento della tecnica diventa in tal modo una necessità dell’artista contemporaneo che mediante la complessità introduce una sana deconcentrazione di elementi che impegna lo spettatore in diversi versanti. L’opera diventa una fonte di stimoli che affrontano in tal modo il complesso campo delle pulsioni inconsce. Rappresentare l’indicibile diventa l’imperativo di Balestrini poeta, oltretutto favorito dall’evoluzione dell’arte contemporanea che ha decongestionato il moralismo dell’arte, spostandolo sul piano di una sana moralità adiacente con una vitale disinibizione, specialmente dopo l’ingresso sulla scena dell’arte internazionale della transavanguardia.
La totalità di questa posizione trova la sua possibile fondazione in una totalità tecnica, in un’opera capace di restituire la rappresentazione di un impiego complesso di più generi possibili. Soltanto in tal modo l’arte contemporanea riesce a realizzare lo scopo di mettere in scena una complessità adeguata.
Se con il romanticismo, il simbolismo, il futurismo, il dadaismo e il surrealismo l’arte totale trova la sua effettuazione mediante una voluta disarticolazione dell’immagine, ora questo è possibile soltanto con uno spostamento verso una complessità futuribile, che non si lascia intimorire dall’uso della tecnologia, semmai l’adopera con una maturità post-industriale e, dunque, con arcaica maturità. Per questo Balestrini totalmente disinibito e consapevole della progressione non lineare dell’arte, adotta un metodo in cui la complessità non significa integrazione dei generi, fondazione di un’opera compatta, e invece tende verso un’opera risolta in un campo di vibrante disseminazione.
La poesia visiva di Balestrini diventa la costante che accompagna parole di diversa estrazione, eppure legate tra loro dal collage: bisogno di uno sconfinamento interdisciplinare non puro e semplice, ma necessario per fondare una peripezia estetica legata a un processo di conoscenza. L’arte ambientale degli anni Sessanta aveva allargato i varchi delle esperienze delle avanguardie storiche, ma le aveva anche ancorate a una costruzione di spazi in cui non esisteva se non una messa in scena dei processi di formazione dell’immagine, una pedante analiticità di stampo nordamericano con una inflessione orientale rivolta verso un desiderio di vuoto.
Ora invece in Balestrini esiste una tensione conoscitiva rivolta anche verso l’assunzione di risvolti che travalicano il semplice assunto formale, con una predilezione verso la rappresentazione di contenuti seppure trasfigurati formalmente attraverso l’elaborazione linguistica.
Il processo di conoscenza elaborato dall’opera riguarda non soltanto lo stato di complessità tecnica ma anche pulsioni interne e bisogni interiori che appartengono a un’idea del mondo. La maturità di Balestrini consiste nell’elaborazione di forme che aggregano elementi disparati tra loro ma dati in pura associazione. Invece negli anni Sessanta e Settanta la maturità sembrava consistere nella capacità di integrazione, apparentemente competitiva con l’integrata complessità dell’universo tecnologico. Nanni Balestrini, In Italia, 2001, ink jet su tela, 98,5 x 98,5 cmSaldare i vari elementi sembrava l’unica maniera di competere con un mondo in cui tutto sembrava strutturato in maniera adeguata. Invece Balestrini opera su di una diversa lunghezza d’onda, fondata su una elaborazione che non tende a mascherare la diversità, semmai a esibirla nella problematica unità dell’opera, come processo di aggregazione di diversi linguaggi che necessitano di un diverso trattamento.
In questo consiste la nuova maturità dell’arte del 2000, che richiede una perizia tecnica allargata, e nello stesso tempo una mentalità che non crede nell’integrazione tra arte e vita, ma semmai alla possibilità di creare un’opera fatta anche di interstizi fluttuanti tra le forme elaborate dall’arte e quelle preesistenti della vita.
In tal modo, nel lavoro di Balestrini, l’opera diventa quel luogo heideggeriano che non si contempla frontalmente come una vecchia scultura, ma il campo di riserva di un linguaggio capace di creare una dimora effettiva in cui lo spettatore possa fluttuare e respirare.
Accordare una dimora all’uomo e abitare in mezzo alle cose significa la capacità di non essere monolitici, al contrario irregolari fino al punto di muoversi lungo coordinate impalpabili e relative, tra punti di riferimento dislocati in maniera asimmetrica tra loro, con una felice afasia spaziale e temporale.
L’arte ambientale degli anni Sessanta e Settanta ci aveva proposto spazi abitati da un progetto organico, di omogeneità, fino alla completa integrazione di ogni dettaglio o segno dentro un invaso retto da un principio di utopica assolutezza.
Tale assolutezza corrispondeva a uno svuotamento, all’eliminazione di ogni accidentalità che veniva spazzata via da una forte tensione geometrica. Il risultato era uno spazio di pura apnea. Balestrini, invece, fonda la possibilità della poesia visiva come “dimora”, intesa come luogo ampio di relazione, sistema aperto a vari apporti linguistici per puro accostamento tra loro. L’accostamento lascia appunto varchi, interstizi dentro cui respira una vitale distanza spuria tra i vari linguaggi. L’afasia spaziale e temporale nasce proprio Nanni Balestrini, Oui, 1983, collage su carta, 33 x 27 cmdal distanziamento fisico degli elementi e dal percorso soggettivo compiuto dallo spettatore. La distanza aumenta proporzionalmente alla differenza delle soluzioni linguistiche e formali, che non rispondono a uno stato di omogeneità ma a uno volutamente sporco: parole stampate nella prosa del quotidiano, bidimensionale poesia a parete, poesia tridimensionale in forma turrita di parole, architetture che si assommano tra loro e si costringono in un perimetro delimitato dall’architettura che ospita il tutto, la tipografia della vita, stile non trafugabile.

Nanni Balestrini (Milano, 1935) poeta e romanziere, vive attualmente tra Parigi e Roma. Agli inizi degli anni ’60 fa parte dei poeti Novissimi e del Gruppo 63, che riunisce gli scrittori della neoavanguardia. Nel 1963 compone la prima poesia realizzata con un computer. Attivo anche nel campo delle arti visive, con mostre in Italia, Francia, Germania, Stati Uniti e presenza alla Biennale di Venezia del 1993.


(testi e foto - courtesy Galleria Mazzoli, Modena)

Stele
per
Balestrini
di Umberto Eco

C’è una affermazione di Pascal circa i suoi Pensieri che recita: «Che non si dica che non ho detto nulla di nuovo: è nuova la disposizione delle materie.» Mi veniva in mente vedendo che Balestrini ha scelto come epigrafe di questi suoi nuovi lavori una frase di Jakobson: «Mallarmé diceva anche che serviva al borghese le stesse parole che egli legge tutti i giorni nel suo giornale, ma che le serviva in una combinazione sconcertante.»
Ora, l’affermazione di Mallarmé potrebbe essere presa nel suo senso più letterale: il poeta usa le stesse parole che si trovano nel dizionario usato da tutti, salvo che le combina in modo inatteso. Quasi ovvio. Ma nell’affermazione di Pascal c’è qualcosa di più: egli non parla di nuova disposizione delle parole ma di nuova disposizione di argomenti. E qui la cosa si fa diversa, perché un conto è combinare in modo nuovo le parole che la lingua ci mette a disposizione, per farne dei testi, e un conto è riordinare, riassettare, scomporre e ricombinare testi preesistenti.
Si noti che si sta parlando di ricombinazione fisica, che prevede un taglio, una mutilazione, una dissezione anatomica precedente. Questo non ha nulla a che fare con le tendenze decostruzionistiche per cui di un testo, così come si presenta, si possono dare infinite interpretazioni, anche quelle che il suo autore non prevedeva. Qui non si tratta di interpretazione (che riguarda i significati) bensì di operazione chirurgica sui significanti - e dunque, per ricorrere a una distinzione che ho fatto altrove, non di interpretazione bensì di uso, anzi, nel caso di Balestrini, di riuso, proprio nel senso di riciclo.
A Potremmo dire che la tecnica non è inconsueta nelle arti visive, perché altro non è che il collage. Con i testi verbali ci sono meno esempi, a parte Bourroughs e pochi altri.
Balestrini si presenta come lo scrittore più pigro mai esistito, perché si potrebbe dire (esagerando un poco) che di suo non ha mai scritto una sola parola e ha soltanto ricomposto brandelli di testi altrui. Però gli accade quello che accade a molti infingardi che non hanno voglia di lavorare, e per tirare a campare, tra una truffa, la corsa per arrivare a coprire in extremis un assegno a vuoto, il muoversi di qui e di là per trovare un prestito, scroccare una cena o vendere la fontana di Trevi a un turista giapponese, impiegano ventiquattrore al giorno, sono sempre con il fiatone, mai non riposano e in fin dei conti faticano molto di più e più intensamente di un bancario che timbri il cartellino.
La furia collagistica di Balestrini, che dura dalla fine degli anni cinquanta, ha prodotto un corpus di grande coerenza e dalla cifra riconoscibilissima, segno che in questa riappropriazione non indebita dei testi altrui egli ci ha messo qualcosa di suo, che è poi lo stile - il che per un poeta è tutto, ed è fatto di molto sudore creativo.
Un tratto dello stile di Balestrini è che si riconosce sempre quando egli sta componendo qualcosa avendo scomposto qualcosa d’altro, ma rimane in ogni caso il sospetto che quest’opera di riciclo non abbia del tutto messo a tacere i testi originali. Voglio dire che si potrebbe ricostruire la cattedrale di Chartres usando solo lattine di Coca Cola, e se poi si ricopre il tutto con una mano d’intonaco la Coca Cola scompare e rimane una sorta di costruzAione dallo strano bugnato. Ma se le lattine rimangono a vista è lecito domandarsi se non vi siano dei rapporti tra la Coca Cola e il Sacro, e comunque se l’autore non avesse voluto suggerirli. Se così fosse - se questo sospetto appena potesse nascere - allora l’operazione di collage non si sarebbe limitata all’uso, alla scomposizione del supporto materiale di un discorso che, nell’operazione di riciclo, scompare, ma conserverebbe alcune delle caratteristiche dell’interpretazione (del testo distrutto).
Faccio un solo esempio, e lo traggo dalle Istruzioni per l’uso pratico della signorina Richmond:
Nettatela squamatela infilatele nel ventre/le erbe odorose fissatela allo spiedo/con un sottile filo metallico o con uno spago/umido grigliatela alla carbonella accesa//cospargetela con rosmarino e alloro/lasciatela riposare per un’ora così che/tutti gli aromi la penetrino poi scuoiatela/e pulitela tagliatela in grossi pezzi//infilzatela ben unta d’olio sullo spiedo/e praticatele qualche taglio sulla pelle/perché non abbia a screpolarsi fatela cuocere/a fuoco moderato spruzzandola di sale.
Il gioco, che continua per molti altri versi, è scoperto: si tratta di un riciclo di istruzioni di cucina. Ma è più che evidente che queste istruzioni, applicate alla signorina Richmond, si colorano (e a tinte accese) di marchese di Sade. Perfetto, si direbbe: il testo, neppure troppo smembrato, ma in ogni caso prelevato dal suo contesto originario, ha perduto il suo senso per acquistarne un altro. Ma ne siamo proprio sicuri? Non inizieremo, da questo punto in avanti, a leggere ricette di cucina vedendovi in trasparenza l’ombra del Divin Marchese, comprendendo quanto vi Asia di perverso in ogni pratica carnivora che trasformi il Crudo in Cotto?
Questo sempre preoccupa con Balestrini: il sospetto che il suo massacro di significanti riciclati non comporti anche una rilettura del significato di ciò che è stato riciclato.
Balestrini ha proceduto, nella sua attività di riciclatore, dal grande al piccolo e dal piccolo all’infinitesimale. Dapprima prelevava testi interi, poi li sminuzzava, poi ha fatto collages di sole parole, e infine di brandelli di parole e di lettere alfabetiche. E’ disceso dall’universo dei testi a quello della tipografia. E lo si vede benissimo in queste ultime prove, tanto più affini alle arti visive che non alla poesia, talché si sarebbe tentati di non-leggere bensì soltanto guardare questi labirinti e rizomi tipografici, questi obelischi senza messaggio iniziatico. Si potrebbero considerare oggetti, oggetti visivi fatti con brandelli che furono testi verbali, non testi verbali fatti con altri testi verbali...
Eppure, anche se con fatica, se si scorrono con l’occhio queste composizioni, si incominciano a intravedere delle tracce monotematiche, come se in qualche modo ciascuna composizione fosse a soggetto. Affiorano parole chiave, ripetizioni, si annusano i contesti di origine, ci si chiede perché l’autore abbia scelto quei ritagli e non altri.
Non sono sicuro che Balestrini voglia che le sue composizioni si leggano così, se desideri che l’utente di questi suoi oggetti tipografici vi cerchi disperatamente messaggi in cifra, allusioni, rinvii a campi semantici ben definiti, composizione per composizione. Tuttavia, se pure non volesse, non potrebbe impedirci di farlo. E se poi lo voleva, proprio l’aveAr l’aria di non volerlo (o almeno di non pretenderlo) ci spingerebbe a farlo.
Allora sono geroglifici? Balestrini aspetta (sollecita) il suo Champollion?
Inutile chiederglielo perché, per tutta risposta, ci mostrerebbe sorridendo un’altra stele.

Critico, saggista, scrittore e semiologo di fama internazionale, Umberto Eco è nato ad Alessandria il 5 gennaio 1932. Nel 2003 è stato insignito dal presidente della Repubblica francese, Jacques Chirac, del titolo di ufficiale della Legion d'Honneur.

 

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