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Art
in
Movement
intervista a Mario
Pischedda
di Giannella Demuro
e Antonello Fresu
A. F.: Nello scenario
delle arti visive la tua è senza dubbio una figura anomala. Contrariamente
alla maggior parte dei tuoi colleghi sei rimasto sempre estraneo
alle logiche ufficiali dell’arte, arrogandoti, invece, il diritto
di giocare “da libero”: un cane sciolto, insomma. Da una parte,
infatti, una presenza assidua nei quotidiani ed in riviste cult come Frigidaire
e King, e l’amicizia di personaggi come Franco Fontana,
Enrico Ghezzi, Vincenzo Sparagna, dall’altra, una certa marginalità
rispetto al panorama artistico ufficiale, non solo nazionale ma anche
isolano: nel tuo percorso sono pochissime le mostre e, quasi sempre, in
spazi alternativi come scuole, circoli, stazioni ferroviarie; l’ultima
è stata allestita nelle scale di un negozio d’abbigliamento.
Da cosa nasce questa scelta?
M. P.: È stata, credo, una scelta obbligata anche
se, nel tempo, è diventata il mio credo estetico, un’espressione
della mia poetica. Una scelta dettata, comunque, da un’insofferenza
epidermica verso qualunque imposizione esterna, verso chiunque cerchi
di costringermi all’interno di un sistema. E nel mondo dell’arte,
come nel mondo sociale, ho trovato spesso limitazioni e recinti. La società,
in fondo, vuole persone addomesticate e generalmente tiene in considerazione
solo chi è inoffensivo, chi non fa troppo male.
A.
F.: Ma rispetto a questa condizione, quale è o quale
può o deve essere la posizione dell’artista?
M. P.: Credo che la dote fondamentale dell’artista
debba essere la libertà, interiore, intellettuale, totale ed incondizionata.
Il vero artista non si pone il problema di non esistere: semplicemente,
c’è, esiste. Il problema riguarda, piuttosto, chi artista
vorrebbe essere ma non lo è, e ricorre a stratagemmi di
qualunque tipo pur di esserci o anche solo apparire. Da questo punto di
vista io mi sono autoinvestito. E siccome il mondo ufficiale dell’arte,
delle gallerie, della critica, non mi stava bene, o viceversa, ad un certo
punto ho deciso: io sono artista, e lo sono sempre e comunque. Insomma,
non è necessariamente la galleria o il critico, che deve decidere
se io sono un artista. A me interessa realizzare ciò che ho in
testa, e allora faccio arte, sempre e comunque, in qualunque
contesto. Così, posso produrre dovunque, anche per strada, o realizzare
mostre addirittura per una sola persona, come è successo tantissime
volte: delle mostre ad personam, dedicate. La mia mostra arriva a casa
tua, se vuoi esporla la esponi. Molta gente ha ricevuto le mie mostre,
intere, finite.
A. F.: Cosa intendi quando parli di mostre intere?
M. P.: Una mostra così come la vedresti in una
galleria: 20-30 lavori, ma a volte anche 50, oppure uno solo, a seconda
del mio umore. Naturalmente, in genere, si tratta di conoscenti, di persone
che apprezzano il mio lavoro. Insomma, nel momento in cui stimo qualcuno,
ho fiducia in lui e nella sua intelligenza, quel qualcuno rappresenta,
per me, il mondo intero.
G. D.: Nel tuo percorso di ricerca hai sempre utilizzato
la fotografia?
M. P.: Sono partito dalla scrittura, ma anche la fotografia
continua ad essere, per me, una forma di scrittura. Mi piace l’idea
della leggibilità diretta, immediata, delle immagini rispetto alla
parola. Insomma, mentre un’opera letteraria ha bisogno di un traduttore,
questo non avviene con l’immagine che, se sta in piedi, arriva comunque
direttamente, senza alcuna necessità di mediazione. È per
questo che alcuni siti internazionali di fotografia hanno recentemente
selezionato e pubblicato alcune mie foto, che io mi ero limitato solamente
ad inviare, senza alcun altro tipo di contatto.
G. D.: Nei titoli delle tue mostre, ma anche in singole
opere, compare spesso la parola f/oto/grafia, riconducibile ad un’idea
che tu hai elaborato per l’immagine fotografica. Di cosa si tratta,
esattamente?
M.
P.: In un numero di Frigidaire avevo affermato di essere
un f/oto/grafo, cioè di fotografare con l’orecchio, intendendo,
con questo, il mio voler fotografare con il sentimento, con l’emozione,
oltre che con l’occhio. In questo senso, per me, la macchina fotografica
non è così importante, non è determinante: è
soltanto un’appendice. Ciò che è fondamentale, invece,
è il fatto che l’immagine sia radioattiva, attraversata dal
sentimento, investita totalmente da me stesso. È questo il senso
della provocazione con Ghezzi, un intero servizio fotografico, con me
totalmente bendato: il fotografo che scatta con l’orecchio.
A. F.: Tu sei un grande lettore e, nei tuoi lavori,
è quasi sempre presente una breve frase di accompagnamento che,
come una sorta di didascalia, diventa parte integrante dell’opera:
come mai? Cosa cerchi nelle letture?
M. P.: Tutto ciò che può fornire spiegazioni,
o che magari mi piace o mi incuriosisce, o un’illuminazione; a volte
cerco proprio la definizione più esatta per l’immagine, e
questo non è facile: è un lungo lavoro di ricerca, con un
grande dispendio di energia. Però, alla fine c’è la
foto e, accanto ad essa, quella frase magica che le si sposa perfettamente.
Alla stessa immagine, poi, posso dare a volte titoli diversi e questo
fa sì che quell’immagine diventi un’altra cosa, e poi
un’altra ancora, sia che la modifichi o che non la modifichi affatto.
Insomma, potrei utilizzare una stessa immagine all’infinito sfruttando,
a volte, persino gli errori.
G. D.: Tu hai sempre lavorato intervenendo - manualmente
o con il computer - sulle immagini; mi sembra però, che negli ultimi
tempi questi interventi siano sempre più limitati, quando non totalmente
scomparsi.
M. P.: I periodi precedenti sono stati caratterizzati
così fortemente dall’intervento manuale perché i mezzi
di cui disponevo erano comunque “poveri”, e non per mia scelta.
Lavoravo allora con il mezzo più povero fra tutti, il multiplo
più democratico - la fotocopia - sulla quale intervenivo in vario
modo, sovrapponendo le immagini, moltiplicandole e trattandole con vari
interventi di tipo grafico. La mia idea, insomma, era quella di produrre,
anche con scarsi mezzi, delle opere qualitativamente valide. Nei miei
nuovi lavori gli interventi sono invece limitatissimi, sono tornato alla
fotografia, nel tentativo, però, di mettere il lettore in uno stato
di sottile ambiguità, che non gli consenta di capire veramente
se un’immagine è modificata o no, se c’è un
intervento oppure no. Sto tornando ad una semplicità totale, quasi
francescana, dell’immagine. Nelle foto dell’ultima mostra,
ad esempio, nessuna delle immagini è stata ritoccata.
A. F.: A proposito di quest’ultima mostra mi
ha colpito il modo in cui hai giocato sul concetto dell’effimero.
Da un lato l’aver fissato nell’immagine frammenti minimi e
precari dell’esistenza, che acquistano dignità, proprio perché,
come titolava la mostra, Tutto è unico, è irripetibile;
dall’altro l’aver evidenziato il carattere precario della
stessa opera d’arte. È insolito per un artista, dar via le
opere come hai fatto tu in quell’occasione, gratuitamente, a chi
ne avesse fatto richiesta. C’era un intento provocatorio in questa
operazione?
M.
P.: Per me è fondamentale che le opere appartengano ad
un altro. Il regalare le opere di una mostra, cioè il privare le
opere di un valore economico, sta ad indicare che io ho dato loro il massimo
del valore affettivo, il massimo del valore comunicativo. Parto dal presupposto
che qualcosa possa sempre nascere, nel senso che un input può essere
positivo per un altro per crescere a sua volta. Definisco l’artista,
da questo punto di vista, l’ultimo vero uomo politico rimasto sulla
piazza, l’ultimo uomo capace di gridare contro le ingiustizie, contro
il sistema sbagliato, contro l’assurdità dell’esistenza,
contro l’organizzazione sociale. Credo che viviamo in un mondo grottesco
e assurdo e l’opera dell’artista deve servire a questo: a
testimoniare il grottesco e l’assurdo che ci circonda.
A. F.: Però, nonostante questa visione che
hai dell’uomo e della vita, con il carico di grottesco che la caratterizza,
mi pare che in te ci sia anche un grande ottimismo, un piacere dell’incontro
e un grande senso dell’ironia.
M. P.: Certo, ci deve essere il lato della comicità,
dell’ironia, nel vivere, anche se dietro la comicità ci può
essere una tragedia immensa. A me non interessa esistere, ma una volta
che sei al mondo devi spendere la vita al meglio, nel piacere, nel vissuto,
nei rapporti interpersonali, nell’opera d’arte o in quello
che vuoi. Io tento di ri-significare la vita in senso positivo. Insomma,
a me non piace buttarla sulla sofferenza, preferisco ridere, anche se
in maniera oscena, anche se dietro può nascondersi il dolore.
G. D.: È
questo il senso del video Abbasso la morte?
M. P.: Baudrillard ha affermato che la morte è
oscena, pornografica. Nel video Abbasso la morte c’è questa
risata. Avevo visto a Roma una mostra sconvolgente e scioccante di Serrano,
che poi avevo intervistato per Frigidaire. Quando guardi qualcosa
di sconvolgente, e la morte è sempre un fatto sconvolgente, proprio
perché è oscena, si ride, per difesa, certo: quindi io ascolto
Youssou N’Dour a tutto volume e rido oscenamente, anche se, con
questo, non voglio certo spiegare il video.
A. F.: Ultimamente hai realizzato diversi video.
Che cosa ti consente il filmato in più o di diverso rispetto alla
fotografia?
M. P.: Senza dubbio una maggiore libertà espressiva.
Infatti adesso mi sto dedicando maggiormente al video proprio perché
mi permette di utilizzare una dimensione plurisensoriale: oltre all’immagine
c’è l’audio, la musica. D’altronde, ho sempre
sostenuto che una mia foto non può essere letta se non
con la musica con la quale io l’ho pensata, con cui l’ho composta.
See a photo with the music, guarda la foto con la musica: ti
ovatti le orecchie con una bella cuffia ed entri in sintonia con l’immagine.
Ecco, il video mi permette proprio questo. E, infatti, uno dei miei prossimi
progetti sarà quello di utilizzare la telecamera per fare delle
fotografie, utilizzare una ripresa fissa, come si faceva anticamente,
con il telone, 20 o 30 minuti, e riprendere un soggetto fisso. Come una
fotografia. In questo modo quell’immagine singola, diventa come
un film, un petit film, una storia intera in una sola foto, come
ad esempio la serie notturna On The road, dove c’è
tutta una certa letteratura americana.
G. D.: Nel tuoi lavori usi spesso l’autoritratto:
c’è un motivo preciso per questa scelta?
M. P.: All’inizio l’ho fatto per mancanza
di modelli, poi alla fine è diventato anche quello un mio discorso:
uso me stesso, sono libero, posso fare quello che voglio della mia immagine,
mentre spesso, quando si ha a che fare con gli altri questo non è
possibile. Con l’autoritratto io implodo, mi inabisso dentro il
mio io. In realtà la ricerca antropologica può essere condotta
anche su se stessi. Analizzandomi, andando a fondo, scindendomi, attraversandomi,
esplorandomi, abolendo tutti i tabù, io sto facendo una ricerca
sull’uomo: io sono solo uno strumento. L’arte, da questo punto
di vista, è catartica, non dico che ti fa stare bene, ma ti libera.
Ecco, per me è importante la dimensione purificatrice e liberatoria
dell’arte.
Mario Pischedda è nato a Palau (SS) nel 1949. Vive e lavora
a Tempio Pausania (SS).
Mario
Pischedda secondo me
di Vincenzo Sparagna
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Mario Pischedda è un artista
“moderno”, nel senso che la sua inquietudine lo conduce,
come un nomade della forma, della parola e dell’idea, da un
genere all’altro, da un’illuminazione critica a uno
scatto f/oto/otico, come lui chiama le sue foto “scattate
a orecchio”, frutto di un gesto istintivo, della mente che
guarda e non sa...
Mario subisce e pratica consapevolmente nelle sue opere & performances
la fascinazione “maivista” dell’esperimento provocatorio,
della trovata sarcastica, della citazione che finge di replicare,
ma in realtà ringiovanisce l’originale.
D’altra parte l’artista, per lui, per esistere deve
negarsi, fondersi con il fruitore, cancellarsi, allestendo una pièce
in cui lo spettatore è il vero protagonista.
E non a caso il Nostro, oltre che Pixel, si firma spesso
mariopischeddainmovement. Egli infatti non segue nelle
sue invenzioni un fine, non punta un bersaglio preciso, semplicemente
si muove, prova e riprova le sue varianti, si autoritrae come volto/oggetto,
sbeffeggia il copyright e l’unicità dell’opera,
pratica l’Usa & getta..., unisce la bidimensionalità
alla tridimensionalità (celebre la sua opera “two balls”,
due palline di ping pong appiccicate su un foglio) in una specie
di “fuga senza fine”, dove l’artista è
l’evaso e la critica, l’accademia, le regole sono i
poliziotti che vogliono riportarlo in cella.
Pischedda vuole evitare la cattura, spiazzare, sorprendere,
violare le mode, isolarsi dal rumore banale dell’epoca.
Cosa davvero difficilissima, se perseguita con sincerità,
poiché il primo critico/spettatore è proprio l’autore,
che deve sorprendersi da solo come un giocatore di scacchi
che, giocando contro se stesso, non può barare.
In ogni caso Kinobàlanos (un altro nome del nostro
Pixel) viene da lontano. Non solo perché culturalmente si
è formato nel crogiuolo di ardimenti ideali e formali degli
anni ’60, che vicini non sono, ma perché in lui il
senso del presente è altrettanto forte del senso della storia
e della memoria.
A rivedere i suoi primi lavori fotografici - le ricerche sulle figurazioni
contorte e mostruose del sughero gallurese, gli sguardi scintillanti
degli operai nel calore degli altiforni, i volti di bambini, vecchi,
uomini, donne e animali - sembra che egli abbia voluto cominciare
da una sorta di archiviazione, una indagine classificatoria
di luci, ombre, dettagli e particolari. Quasi per trovare radici
profonde alle sue figure, come quelle delle sugheraie,
e potersi librare in seguito verso il gratuito, il fanciullesco,
il surreale.
Per questo da mariopischeddainmovement c’è
da attendersi altre sorprese f/oto/grafiche e altre invenzioni,
che in lui crescono e fioriscono naturalmente, come i rami nuovi
e verdissimi di un leccio secolare.
Vincenzo Sparagna, giornalista satirico militante, professionista
del giornalismo più irriverente e rivoluzionario. Protagonista
dell’avventura de “Il Male”nel 1978, dal 1980
è direttore del periodico “Frigidaire”.
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