Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


Ziqqurat n°7
Sommario

Mario Pischedda secondo me
di Vicenzo Sparagna

Art in Movement
intervista a Mario Pischedda

Frigidaire 154, novembre 1993 Frigidaire 154, novembre 1993



di Giannella Demuro
e Antonello Fresu

A. F.: Nello scenario delle arti visive la tua è senza dubbio una figura anomala. Contrariamente alla maggior parte dei tuoi colleghi sei rimasto sempre estraneo alle logiche ufficiali dell’arte, arrogandoti, invece, il diritto di giocare “da libero”: un cane sciolto, insomma. Da una parte, infatti, una presenza assidua nei quotidiani ed in riviste cult come Frigidaire e King, e l’amicizia di personaggi come Franco Fontana, Enrico Ghezzi, Vincenzo Sparagna, dall’altra, una certa marginalità rispetto al panorama artistico ufficiale, non solo nazionale ma anche isolano: nel tuo percorso sono pochissime le mostre e, quasi sempre, in spazi alternativi come scuole, circoli, stazioni ferroviarie; l’ultima è stata allestita nelle scale di un negozio d’abbigliamento. Da cosa nasce questa scelta?
M. P.: È stata, credo, una scelta obbligata anche se, nel tempo, è diventata il mio credo estetico, un’espressione della mia poetica. Una scelta dettata, comunque, da un’insofferenza epidermica verso qualunque imposizione esterna, verso chiunque cerchi di costringermi all’interno di un sistema. E nel mondo dell’arte, come nel mondo sociale, ho trovato spesso limitazioni e recinti. La società, in fondo, vuole persone addomesticate e generalmente tiene in considerazione solo chi è inoffensivo, chi non fa troppo male.

Mario Pischedda, La propria identità scoperta nell’isolamento, 2002, acrilico, vetro e diodi luminosi su fotografia digitale, 25,5 x 38 cmA. F.: Ma rispetto a questa condizione, quale è o quale può o deve essere la posizione dell’artista?
M. P.: Credo che la dote fondamentale dell’artista debba essere la libertà, interiore, intellettuale, totale ed incondizionata. Il vero artista non si pone il problema di non esistere: semplicemente, c’è, esiste. Il problema riguarda, piuttosto, chi artista vorrebbe essere ma non lo è, e ricorre a stratagemmi di qualunque tipo pur di esserci o anche solo apparire. Da questo punto di vista io mi sono autoinvestito. E siccome il mondo ufficiale dell’arte, delle gallerie, della critica, non mi stava bene, o viceversa, ad un certo punto ho deciso: io sono artista, e lo sono sempre e comunque. Insomma, non è necessariamente la galleria o il critico, che deve decidere se io sono un artista. A me interessa realizzare ciò che ho in testa, e allora faccio arte, sempre e comunque, in qualunque contesto. Così, posso produrre dovunque, anche per strada, o realizzare mostre addirittura per una sola persona, come è successo tantissime volte: delle mostre ad personam, dedicate. La mia mostra arriva a casa tua, se vuoi esporla la esponi. Molta gente ha ricevuto le mie mostre, intere, finite.

A. F.: Cosa intendi quando parli di mostre intere?
M. P.: Una mostra così come la vedresti in una galleria: 20-30 lavori, ma a volte anche 50, oppure uno solo, a seconda del mio umore. Naturalmente, in genere, si tratta di conoscenti, di persone che apprezzano il mio lavoro. Insomma, nel momento in cui stimo qualcuno, ho fiducia in lui e nella sua intelligenza, quel qualcuno rappresenta, per me, il mondo intero.

G. D.: Nel tuo percorso di ricerca hai sempre utilizzato la fotografia?
M. P.: Sono partito dalla scrittura, ma anche la fotografia continua ad essere, per me, una forma di scrittura. Mi piace l’idea della leggibilità diretta, immediata, delle immagini rispetto alla parola. Insomma, mentre un’opera letteraria ha bisogno di un traduttore, questo non avviene con l’immagine che, se sta in piedi, arriva comunque direttamente, senza alcuna necessità di mediazione. È per questo che alcuni siti internazionali di fotografia hanno recentemente selezionato e pubblicato alcune mie foto, che io mi ero limitato solamente ad inviare, senza alcun altro tipo di contatto.

G. D.: Nei titoli delle tue mostre, ma anche in singole opere, compare spesso la parola f/oto/grafia, riconducibile ad un’idea che tu hai elaborato per l’immagine fotografica. Di cosa si tratta, esattamente?
Mario Pischedda, I’m consumer, 2000, still da video, 5’M. P.: In un numero di Frigidaire avevo affermato di essere un f/oto/grafo, cioè di fotografare con l’orecchio, intendendo, con questo, il mio voler fotografare con il sentimento, con l’emozione, oltre che con l’occhio. In questo senso, per me, la macchina fotografica non è così importante, non è determinante: è soltanto un’appendice. Ciò che è fondamentale, invece, è il fatto che l’immagine sia radioattiva, attraversata dal sentimento, investita totalmente da me stesso. È questo il senso della provocazione con Ghezzi, un intero servizio fotografico, con me totalmente bendato: il fotografo che scatta con l’orecchio.

A. F.: Tu sei un grande lettore e, nei tuoi lavori, è quasi sempre presente una breve frase di accompagnamento che, come una sorta di didascalia, diventa parte integrante dell’opera: come mai? Cosa cerchi nelle letture?
M. P.: Tutto ciò che può fornire spiegazioni, o che magari mi piace o mi incuriosisce, o un’illuminazione; a volte cerco proprio la definizione più esatta per l’immagine, e questo non è facile: è un lungo lavoro di ricerca, con un grande dispendio di energia. Però, alla fine c’è la foto e, accanto ad essa, quella frase magica che le si sposa perfettamente. Alla stessa immagine, poi, posso dare a volte titoli diversi e questo fa sì che quell’immagine diventi un’altra cosa, e poi un’altra ancora, sia che la modifichi o che non la modifichi affatto. Insomma, potrei utilizzare una stessa immagine all’infinito sfruttando, a volte, persino gli errori.

G. D.: Tu hai sempre lavorato intervenendo - manualmente o con il computer - sulle immagini; mi sembra però, che negli ultimi tempi questi interventi siano sempre più limitati, quando non totalmente scomparsi.
M. P.: I periodi precedenti sono stati caratterizzati così fortemente dall’intervento manuale perché i mezzi di cui disponevo erano comunque “poveri”, e non per mia scelta. Lavoravo allora con il mezzo più povero fra tutti, il multiplo più democratico - la fotocopia - sulla quale intervenivo in vario modo, sovrapponendo le immagini, moltiplicandole e trattandole con vari interventi di tipo grafico. La mia idea, insomma, era quella di produrre, anche con scarsi mezzi, delle opere qualitativamente valide. Nei miei nuovi lavori gli interventi sono invece limitatissimi, sono tornato alla fotografia, nel tentativo, però, di mettere il lettore in uno stato di sottile ambiguità, che non gli consenta di capire veramente se un’immagine è modificata o no, se c’è un intervento oppure no. Sto tornando ad una semplicità totale, quasi francescana, dell’immagine. Nelle foto dell’ultima mostra, ad esempio, nessuna delle immagini è stata ritoccata.

A. F.: A proposito di quest’ultima mostra mi ha colpito il modo in cui hai giocato sul concetto dell’effimero. Da un lato l’aver fissato nell’immagine frammenti minimi e precari dell’esistenza, che acquistano dignità, proprio perché, come titolava la mostra, Tutto è unico, è irripetibile; dall’altro l’aver evidenziato il carattere precario della stessa opera d’arte. È insolito per un artista, dar via le opere come hai fatto tu in quell’occasione, gratuitamente, a chi ne avesse fatto richiesta. C’era un intento provocatorio in questa operazione?
Mario Pischedda, Poco adatto a regimi dittatoriali, 1997, polaroid, 10 x10,2 cmM. P.: Per me è fondamentale che le opere appartengano ad un altro. Il regalare le opere di una mostra, cioè il privare le opere di un valore economico, sta ad indicare che io ho dato loro il massimo del valore affettivo, il massimo del valore comunicativo. Parto dal presupposto che qualcosa possa sempre nascere, nel senso che un input può essere positivo per un altro per crescere a sua volta. Definisco l’artista, da questo punto di vista, l’ultimo vero uomo politico rimasto sulla piazza, l’ultimo uomo capace di gridare contro le ingiustizie, contro il sistema sbagliato, contro l’assurdità dell’esistenza, contro l’organizzazione sociale. Credo che viviamo in un mondo grottesco e assurdo e l’opera dell’artista deve servire a questo: a testimoniare il grottesco e l’assurdo che ci circonda.

A. F.: Però, nonostante questa visione che hai dell’uomo e della vita, con il carico di grottesco che la caratterizza, mi pare che in te ci sia anche un grande ottimismo, un piacere dell’incontro e un grande senso dell’ironia.
M. P.: Certo, ci deve essere il lato della comicità, dell’ironia, nel vivere, anche se dietro la comicità ci può essere una tragedia immensa. A me non interessa esistere, ma una volta che sei al mondo devi spendere la vita al meglio, nel piacere, nel vissuto, nei rapporti interpersonali, nell’opera d’arte o in quello che vuoi. Io tento di ri-significare la vita in senso positivo. Insomma, a me non piace buttarla sulla sofferenza, preferisco ridere, anche se in maniera oscena, anche se dietro può nascondersi il dolore.

Mario Pischedda, Abbasso la morte, 1997, still da video, 5’ Mario Pischedda, Abbasso la morte, 1997, still da video, 5’ Mario Pischedda, Abbasso la morte, 1997, still da video, 5’ Mario Pischedda, Abbasso la morte, 1997, still da video, 5’

G. D.: È questo il senso del video Abbasso la morte?
M. P.: Baudrillard ha affermato che la morte è oscena, pornografica. Nel video Abbasso la morte c’è questa risata. Avevo visto a Roma una mostra sconvolgente e scioccante di Serrano, che poi avevo intervistato per Frigidaire. Quando guardi qualcosa di sconvolgente, e la morte è sempre un fatto sconvolgente, proprio perché è oscena, si ride, per difesa, certo: quindi io ascolto Youssou N’Dour a tutto volume e rido oscenamente, anche se, con questo, non voglio certo spiegare il video.

A. F.: Ultimamente hai realizzato diversi video. Che cosa ti consente il filmato in più o di diverso rispetto alla fotografia?
M. P.: Senza dubbio una maggiore libertà espressiva. Infatti adesso mi sto dedicando maggiormente al video proprio perché mi permette di utilizzare una dimensione plurisensoriale: oltre all’immagine c’è l’audio, la musica. D’altronde, ho sempre sostenuto che una mia foto non può essere letta se non con la musica con la quale io l’ho pensata, con cui l’ho composta. See a photo with the music, guarda la foto con la musica: ti ovatti le orecchie con una bella cuffia ed entri in sintonia con l’immagine. Ecco, il video mi permette proprio questo. E, infatti, uno dei miei prossimi progetti sarà quello di utilizzare la telecamera per fare delle fotografie, utilizzare una ripresa fissa, come si faceva anticamente, con il telone, 20 o 30 minuti, e riprendere un soggetto fisso. Come una fotografia. In questo modo quell’immagine singola, diventa come un film, un petit film, una storia intera in una sola foto, come ad esempio la serie notturna On The road, dove c’è tutta una certa letteratura americana.

G. D.: Nel tuoi lavori usi spesso l’autoritratto: c’è un motivo preciso per questa scelta?
M. P.: All’inizio l’ho fatto per mancanza di modelli, poi alla fine è diventato anche quello un mio discorso: uso me stesso, sono libero, posso fare quello che voglio della mia immagine, mentre spesso, quando si ha a che fare con gli altri questo non è possibile. Con l’autoritratto io implodo, mi inabisso dentro il mio io. In realtà la ricerca antropologica può essere condotta anche su se stessi. Analizzandomi, andando a fondo, scindendomi, attraversandomi, esplorandomi, abolendo tutti i tabù, io sto facendo una ricerca sull’uomo: io sono solo uno strumento. L’arte, da questo punto di vista, è catartica, non dico che ti fa stare bene, ma ti libera. Ecco, per me è importante la dimensione purificatrice e liberatoria dell’arte.

 

Mario Pischedda è nato a Palau (SS) nel 1949. Vive e lavora a Tempio Pausania (SS).

 

Mario Pischedda secondo me

di Vincenzo Sparagna

Mario Pischedda è un artista “moderno”, nel senso che la sua inquietudine lo conduce, come un nomade della forma, della parola e dell’idea, da un genere all’altro, da un’illuminazione critica a uno scatto f/oto/otico, come lui chiama le sue foto “scattate a orecchio”, frutto di un gesto istintivo, della mente che guarda e non sa...
Mario subisce e pratica consapevolmente nelle sue opere & performances la fascinazione “maivista” dell’esperimento provocatorio, della trovata sarcastica, della citazione che finge di replicare, ma in realtà ringiovanisce l’originale.
D’altra parte l’artista, per lui, per esistere deve negarsi, fondersi con il fruitore, cancellarsi, allestendo una pièce in cui lo spettatore è il vero protagonista.
E non a caso il Nostro, oltre che Pixel, si firma spesso mariopischeddainmovement. Egli infatti non segue nelle sue invenzioni un fine, non punta un bersaglio preciso, semplicemente si muove, prova e riprova le sue varianti, si autoritrae come volto/oggetto, sbeffeggia il copyright e l’unicità dell’opera, pratica l’Usa & getta..., unisce la bidimensionalità alla tridimensionalità (celebre la sua opera “two balls”, due palline di ping pong appiccicate su un foglio) in una specie di “fuga senza fine”, dove l’artista è l’evaso e la critica, l’accademia, le regole sono i poliziotti che vogliono riportarlo in cella.
Pischedda vuole evitare la cattura, spiazzare, sorprendere, violare le mode, isolarsi dal rumore banale dell’epoca.
Cosa davvero difficilissima, se perseguita con sincerità, poiché il primo critico/spettatore è proprio l’autore, che deve sorprendersi da solo come un giocatore di scacchi che, giocando contro se stesso, non può barare.
In ogni caso Kinobàlanos (un altro nome del nostro Pixel) viene da lontano. Non solo perché culturalmente si è formato nel crogiuolo di ardimenti ideali e formali degli anni ’60, che vicini non sono, ma perché in lui il senso del presente è altrettanto forte del senso della storia e della memoria.
A rivedere i suoi primi lavori fotografici - le ricerche sulle figurazioni contorte e mostruose del sughero gallurese, gli sguardi scintillanti degli operai nel calore degli altiforni, i volti di bambini, vecchi, uomini, donne e animali - sembra che egli abbia voluto cominciare da una sorta di archiviazione, una indagine classificatoria di luci, ombre, dettagli e particolari. Quasi per trovare radici profonde alle sue figure, come quelle delle sugheraie, e potersi librare in seguito verso il gratuito, il fanciullesco, il surreale.
Per questo da mariopischeddainmovement c’è da attendersi altre sorprese f/oto/grafiche e altre invenzioni, che in lui crescono e fioriscono naturalmente, come i rami nuovi e verdissimi di un leccio secolare.

Vincenzo Sparagna, giornalista satirico militante, professionista del giornalismo più irriverente e rivoluzionario. Protagonista dell’avventura de “Il Male”nel 1978, dal 1980 è direttore del periodico “Frigidaire”.


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