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Le
ali del viola
Wanda
Nazzari |
di Alessandra Menesini
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A.M.: «Tre
colori esistono al mondo. Il verde è il secondo», scrisse
Sergio Atzeni. Per te il primo colore è il viola. Quali i significati
e le ragioni di una simile scelta?
W.N.: È vero, il viola è il colore che
predomina nel mio lavoro, insieme al bianco che comunque continua ad imporsi,
nei rilievi su carta e nella maggior parte delle opere installative, qualche
volta attraversate da un velo di scrittura o di bronzo-oro. Per quanto
concerne i significati nella preferenza del viola, penso che siano gli
stessi che mi legano al bianco. Se di fronte a un bianco ci si può
annullare, lo stesso può accadere con il viola, pur essendo, dal
punto di vista della percezione, il suo esatto contrario. Per quanto riguarda
le ragioni, in realtà non ce ne sono. È il viola, che mi
ha scelto. Il colore non è mai cercato, ti inonda, ti invade, ti
possiede, e non sai esattamente perché. Arriva un momento in cui
è necessario e allora s’impone. Credo di averlo usato da
sempre. Inizialmente la sua tonalità era molto debole, si confondeva
con gli altri colori. Poi ho iniziato a selezionare e la mia tavolozza
è diventata sempre più essenziale. Il viola, nel frattempo,
si è caricato di potenza.
A.M.: Il viola ha pervaso i tuoi lavori lignei, i
quadri, gli acquarelli, i “nidi”. Evidentemente, si trasforma
e muta, nella tua mente e nelle tue mani, per adattarsi a grandi sfondi
o a minime incursioni.
W.N.: Tutto dipende da ciò che voglio dire. Può
diventare rosa negli acquarelli o viola ruggine nei nidi e nelle grandi
tavole dove, talvolta, emergono bagliori di rosso, come se uno dei due
colori che lo compongono volesse sgorgare dalle ferite del legno. Su questa
fase del mio lavoro ho ricercato a lungo, soprattutto nelle grandi campiture,
per le quali ho usato svariate tonalità di rossi. Qui mi piace
citare quanto su questo mio colore ha scritto Maria Luisa Frongia: «sintesi
di forze contrapposte, sintesi che dà luogo a una razionalità
non fredda, ma temperata da elementi frutto di sentimento…».
A.M.:
Puoi tracciare un breve riepilogo del tuo percorso artistico? Quando
hai iniziato, e come è cambiato il tuo fare negli anni?
W.N.: È iniziato quando, a quattordici anni, frequentando
il Centro Artistico Polivalente di Cagliari cominciai ad avvicinarmi al
teatro e alla pittura. Poi il centro chiuse, morì mio padre e io
mi fermai per diversi anni. Ripresi agli inizi degli anni Settanta, con
una grande voglia di sperimentare e soprattutto di ritrovarmi, di ritrovare
con le mie sole forze quel mondo creativo che mi mancava. Dopo un periodo
figurativo, del quale purtroppo ho conservato ben poco, la figura è
andata disgregandosi, fino alla totale negazione per ritornare più
che altro, sotto forma di metafora, negli anni Novanta, nei “nidi”
e nelle “ali”. Gli anni Ottanta sono stati caratterizzati
da un lungo periodo d’astrazione lirica e dallo studio di varie
tecniche calcografiche che mi hanno suggerito nuove intui-zioni: dai rilievi
bianchi su carta eseguiti per manopressione, alla matrice xilografica
divenuta opera unica. Idea che mi ha portato, in seguito, alle grandi
ta-vole scolpite e dipinte e ai polittici che si sono impadroniti
dello spazio come spazio scenico.
I miei primi lavori su legno sono del 1984. La parte incisa presenta dei
solchi leggeri e morbidi che inglobano tinte vegetali. Poi la texture
è diventata più fitta, i solchi più profondi fino
ad assumere l’aspetto di vere e proprie lesioni. Questo è
stato anche il momento in cui la mia attenzione si è rivolta a
considerare gli effetti di rifrazione della luce su una superficie frastagliata
e sono nati il verde petrolio, il turchese, il ruggine.
Una ricerca dura, faticosa anche fisicamente. Per questo, ogni tanto,
alterno al lavoro su legno momenti che definisco “pause”,
realizzando opere bianche su carta, spesso con interventi di acquarello.
Il mio continuo cercare è stato anche un cercare dentro di me.
A.M.: Fase importante, sempre in nuce e mai scomparsi,
i “nidi”. Spiegami come questa forma si è impadronita
della tua poetica.
W.N.:
Il grande Nido ferito del presepe del 1993, che ho realizzato
a Cagliari nella galleria Capidepoche, nato come presagio di vita all’interno
della croce divelta, segna l’inizio di questa mia metafora. Ma,
in realtà esisteva già da molti anni in forma ancora inconsapevole.
Il critico Francesca Angela Zaru ne trova tracce negli anni Ottanta, nelle
grandi campiture all’acquarello dell’’87 e negli acrilici
della serie La Guerra del Golfo.
Il nido è il luogo dove si nasce, ma anche il luogo dove rifugiarsi
e convivere. Ma il nido non è soltanto un luogo: il nido è
l’uomo nel suo amore per l’uomo. Ecco perché sono legata
a questa metafora, fatta spesso d’umanità ferita ma anche
risorta, presagio di un futuro migliore. Allora il nido si tinge di rosa
o di giallo e dal suo interno il filo, scrittura di vita, racconta e cerca
altri nidi a cui legarsi. Nell’ultima opera di questa serie, i
nidi embrione, fatti d’umanità nascente, sono completamente
bianchi, protetti da un velo dipinto di bianco. La serie dei nidi nasce
alla fine del ’99 per la rassegna Stanze con Le
voci illese, in risposta ad una negazione, a un tentativo di
soppressione. Spesso le mie opere nascono da travagli reali: sono catartiche
e esprimono un bisogno di generare vita.
A.M.: Per te è più importante la ricerca,
la coerenza o la continuità?
W.N.: Se non sono sullo stesso piano, non vai avanti.
Non esiste un ordine d’importanza, tutte e tre si pongono come necessità.
Le intuizioni nascono dalla ricerca, non esiste ricerca senza continuità,
non esiste continuità senza coerenza.
A.M.:
Da sette anni, hai aggiunto al tuo lavoro d’artista quello di
gallerista e organizzatrice di eventi culturali per il Centro Man
Ray di Cagliari. Quali problemi sono nati in relazione a questa molteplice
attività?
W.N.: Problemi tanti, anche di carattere economico, per
mantenere una qualità alta in un’associazione senza fini
di lucro. Il Man Ray è aperto tutto l’anno e non
solo promuove mostre ma cura la formazione di giovani artisti. È
quasi una sfida, con momenti difficili e altri molto soddisfacenti. Per
fortuna ho ottimi collaboratori, tra cui mio figlio Stefano Grassi, cui
si deve tra l’altro una preziosa documentazione fotografica e Rita
Atzeri per il settore spettacolo.
Wanda Nazzari (Cagliari, 1935) vive e opera a Cagliari.
Dal 1995 è direttrice artistica e curatrice del Centro Culturale
Man Ray, spazio polivalente dedicato alle sperimentazioni contemporanee.
(foto Stefano Grassi courtesy Man Ray, Cagliari)
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