Ziqqurat n°7
Sommario
I video corpi di Sukran
Massimo Canevacci |
EXtranea
incontro con
Sukran Moral
di Bruno di marino
B.D.M.: Ormai sono quasi
dieci anni che vivi in Italia. Quando sei arrivata cosa speravi di trovare
nel nostro Paese?
S.M.: Sono sempre stata entusiasta dell’Italia.
La ragione principale per cui sono venuta era quella di poter arricchire
le mie conoscenze, vedere i posti e le opere d’arte che avevo studiato
sui libri, conoscere meglio il cinema, insomma respirare l’aria
di questo Paese e crescere da un punto di vista intellettuale... Però
penso che nessuno lascia la sua terra se è contento, se sta bene;
io mi sentivo straniera nel mio paese.
B.D.M.: Immagino però che non sia stata facile
per te la vita di artista extracomunitaria. Hai trovato ostacoli o diffidenza
da parte del mondo dell’arte contemporanea o ti sei adattata subito
al nuovo ambiente, ad un diverso tipo di cultura?
S.M.: Beh, non sopporto la parola extracomunitaria, mi
sento piuttosto extranea. Innanzitutto non conoscevo la lingua,
non avevo soldi, né la certezza di un lavoro per sopravvivere.
Inoltre era la prima volta che venivo a contatto con la cultura occidentale,
anche se in qualche modo ero preparata. A Istanbul, per esempio, andavo
spesso all’Opera, mentre qui - paradossalmente - ci sono stata solo
una volta. Certo, la mia preparazione non era sufficiente per adattarmi
subito all’Italia. L’inserimento nel mondo dell’arte
è stato molto duro. Non ho trovato porte aperte. Se sei di passaggio
la gente ti accetta, ma se ti stabilisci, cioè diventi un vicino
di casa, le persone entrano in competizione con te e ti vedono come un
nemico.
B.D.M.: Mi pare che il 1994 sia un anno abbastanza
decisivo per il tuo lavoro, cominci ad
esserne consapevole e a delineare una tua estetica. La cosa più
interessante è che scegli di muoverti in più direzioni:
realizzando azioni e installazioni, utilizzando la fotografia e optando
per un approccio di tipo concettuale.
S.M.: In questo periodo ho fatto tre cose importanti.
Una personale presso lo Studio Leonardi di Genova, dal titolo Artista
espulsa. Ho ricreato un cimitero in una stanza, attraverso lapidi
di gesso frantumate, su cui ho applicato il timbro “espulsa”.
Un’opera di forte impatto. La profanazione dei cimiteri ebraici
è divenuta purtroppo una pratica assai ricorrente negli ultimi
anni. Il tema dell’espulsione mi stava naturalmente molto a cuore,
poiché questa la vivevo sulla mia pelle. Il 15 giugno di quell’anno,
infatti, ho ricevuto l’avviso di espulsione dall’Italia per
scadenza del permesso di soggiorno. Per un certo periodo ho vissuto come
clandestina. Da questa mia particolare e delicata condizione nasce anche
L’artista, un lavoro fotografico in cui mi ritraevo nuda
con un perizoma, come se fossi crocefissa. Ecco mi sentivo letteralmente
“in croce”, perseguitata e incompresa. Più concettuale
era invece la performance Ambiguitas, che consisteva semplicemente
in uno sgabello posto al centro di una stanza vuota, sul quale c’erano
testi scritti in turco. L’opera era insomma il pubblico stesso che
entrava nella galleria, prendeva in mano questo foglio senza riuscire
a capire nulla.
B.D.M.: Oltre ad esprimere un tuo disagio esistenziale
e sociale, la tua perdita di identità - sia come donna che come
artista - oltre ad essere una provocazione ironica, mi sembra che Ambiguitas
vada letta anche come critica al sistema dell’arte...
S.M.: Senza dubbio. Molti però non hanno colto
questo aspetto e si sono arrabbiati.
B.D.M.: Per quel che riguarda L’artista
credo che il riferimento all’iconografia del Cristo non sia solo
allusivo e provocatorio, ma vuole anche essere un omaggio alla pittura
rinascimentale.
S.M.: Sì, al di là della mia volontà
di esprimere il dolore e la sofferenza attraverso l’immagine della
crocifissione, c’era anche il bisogno di rifarmi a un modello. Durante
gli anni dell’Accademia mi sono esercitata lungamente a fare copie
di quadri del ’500 e del ’600.
B.D.M.: In tutti e tre i lavori che hai ricordato
non ti sei esposta in prima persona, con il tuo corpo. Dovevi ancora scoprire
la tua attitudine performativa?
S.M.:
Diciamo che dovevo ancora vincere la mia timidezza, anche se sempre nel
1994 ho realizzato l’azione Matrimonio con tre, che rappresentava
una parodia della mia situazione. Per evitare l’espulsione infatti,
avrei dovuto sposarmi con un italiano. Ho dunque inscenato il mio finto
matrimonio sposandomi addirittura con tre persone, che sono i miei amici
artisti, Marco Amorini, Alfredo Baldinetti e Miriam Laplante. Per andare
oltre ho voluto una donna travestita come un uomo.
B.D.M.: Il tema del travestitismo sessuale ritornerà
in seguito nel tuo lavoro?
S.M.: Sì, infatti. Ad ogni modo non si trattava
di una semplice performance, il mio obiettivo era quello di incidere sul
sistema dei mass media, e credo di esserci in parte riuscita dal momento
che ne parlarono tutti i giornali. Quando ho avuto coscienza di essere
un’estranea, una diversa, ho compreso che non potevo avere una privacy.
Attraverso il mio lavoro volevo che tutti avvertissero questo senso di
disagio, di violazione.
B.D.M.: In questo periodo ancora non avevi iniziato
ad usare il videotape, se non sbaglio...
S.M.: Per la verità in Ambiguitas avevo
utilizzato una videocamera per riprendere il pubblico che entrava in galleria.
Ma non si trattava di una semplice ripresa, della documentazione
del vernissage, la camera nelle mie intenzioni era qualcosa in più:
un occhio critico, un voyeur ed il pubblico diveniva opera d’arte
e performer. È stato però in seguito, gradualmente, che
ho cominciato ad usare la videocamera in modo più sistematico.
B.D.M.: Esattamente quando?
S.M.: Il primo lavoro creativo l’ho fatto per la
performance Storia dell’occhio, allestita presso lo Studio
Oggetto di Caserta nel 1996. Si trattava di un montaggio di immagini riprese
dalla tv; frammenti di talk show in cui si parlava di omosessualità,
ma in modo finto, ipocrita e bigotto. Le immagini scorrevano su un monitor
posto in mezzo alle mie gambe divaricate.
B.D.M.: È la prima versione dal titolo batailliano
di una performance che hai riproposto in seguito altre volte rinominandola
Speculum. Rimanevi distesa per molto tempo su un lettino da ginecologo
con un monitor in mezzo alle gambe.
S.M.: A Caserta però ero esposta nella vetrina
della galleria, con il pubblico che si trovava all’esterno e poteva
ascoltare l’audio della televisione attraverso gli altoparlanti.
L’allestimento era piuttosto interessante poiché, ad esempio,
il vetro della galleria raddoppiava le immagini, infatti le persone si
vedevano riflesse. Ricordo i passanti che scendevano dalle automobili
e si fermavano a guardare. Anch’io vedevo riflesse sul vetro le
immagini del monitor. Tutto questo creava una sorta di distanza, di separazione.
B.D.M.: L’idea del doppio vetro - quello della
galleria e quello del monitor - mi sembra determinante
per la riuscita di questa installazione-performance. In qualche modo anche
tu diventavi un’immagine televisiva “sotto vetro”, da
guardare da un’unica prospettiva. Un oggetto audiovisivo da consumare.
Non è una differenza trascurabile se pensiamo che nelle altre varianti
intitolate Speculum la gente poteva invece girarti attorno, scegliere
di guardare solo il tuo corpo con o senza il monitor. Possiamo però
leggere il lavoro anche in altro modo: come un contrasto tra due elementi,
la verità del tuo corpo hic et nunc e la falsità
delle immagini, per di più registrate.
S.M.: La tv è falsa, lo sappiamo tutti, soprattutto
quando guardiamo gli orribili programmi pomeridiani.
Ho fatto in modo che questo quoziente di falsità risaltasse ancora
di più, insieme alla componente di stupidità e meschinità...
Ma la mia vagina-monitor è “critica”, il pubblico non
vede più un oggetto o un soggetto passivo, ma un soggetto critico
che lo costringe a guardare ciò che non vorrebbe. Questa azione
è come un pugno nell’occhio.
B.D.M.: Non dimentichiamo infatti che il tema di
Storia dell’occhio e di Speculum è molto
serio, drammatico direi.
S.M.: La violenza sulle donne, istituzionalizzata e storicizzata.
In Speculum ho riassunto l’essenza dell’umanità:
nascita e morte, ma anche una profonda sensualità. Vorrei aggiungere
che per questo lavoro sono stata suggestionata sia da blob, un
programma televisivo che ho sempre molto apprezzato, sia dal celebre quadro
di Courbet, L’origine du monde, un quadro invisibile per
oltre un secolo poiché giudicato pornografico.
B.D.M.: Speculum si presta ad enormi possibilità
e varia a seconda del contesto, acquistando significati sempre nuovi.
S.M.: Sì, per esempio nella mia personale del
1997 allestita presso il Museo Laboratorio di Arte
Contemporanea dell’Università di Roma, ho giocato sulla mescolanza
e confusione di luoghi: le immagini trasmesse dal monitor erano un’alternanza
di spazi architettonici, le sale dell’obitorio del Policlinico e
quelle altrettanto fredde - poiché accomunate dall’elemento
marmoreo - del museo; nell’allestimento avevo sbarrato le porte
del museo con immagini di celle frigorifere della morgue. Così
il luogo espositivo somigliava ad una camera mortuaria. Tuttavia non credo
che Museo & Obitorio sia un’opera fredda, ma basata
sul contrasto tra caldo e freddo, tra erotismo e morte.
B.D.M.: L’idea di contaminare lo spazio dell’arte
contemporanea, in quanto luogo istituzionalizzato, ritorna
anche nella tua videoperformance Bordello, realizzata nel quartiere
a luci rosse di Istanbul. Era inevitabile che un’artista come te
interessata al problema dell’identità lavorasse sul tema
del “non-luogo” teorizzato da Marc Augé.
S.M.: Il 1997 è senz’altro un anno di svolta
per me. Essere invitata alla Biennale di Istanbul significava in primo
luogo ritornare dopo molto tempo in Turchia dopo le disavventure legate
all’espulsione ed alla clandestinità in quanto non potevo
uscire dall’Italia. Ritornare nel mio Paese voleva dire riallacciare
i rapporti con la mia famiglia; la mia idea era quella di dedicare un’opera
a mia madre, morta qualche anno prima. Ho lavorato così sui luoghi
dell’emarginazione di Istanbul, come il manicomio, il bordello e
il carcere (quest’ultimo progetto è purtroppo fallito perché
l’amministrazione penitenziaria non mi ha consentito di vivere come
carcerata per qualche giorno, provando sulla mia pelle la terribile condizione
della galera turca). Il risultato è stato una serie di lavori in
video che ho realizzato con molta fatica, non solo per le prevedibili
difficoltà relative all’accesso a luoghi così singolari,
ma anche per i mille problemi creati dalla Biennale: non mi hanno neppure
fornito un videoproiettore, così ho dovuto noleggiarlo io per alcuni
giorni, ma per gran parte dell’esposizione il mio lavoro non è
stato visibile al pubblico.
B.D.M.: Com’era articolato il tuo intervento
alla Biennale?
S.M.:
La struttura di Speculum l’ho adattata a questo bellissimo
spazio della Biennale, la chiesa sconsacrata di S. Irene. Io ero distesa
come sempre sul lettino con divaricatore. Alle mie spalle sul grande schermo
veniva proiettato Hamam, un video di circa 30 minuti realizzato
per l’occasione, mentre sul monitor scorrevano le immagini riprese
negli altri tre luoghi: il bordello, il manicomio e l’obitorio.
Mi divertiva l’idea di far vedere tutta Istanbul tra le mie gambe.
Durante le riprese mi sono volutamente lasciata influenzare dal posto,
dal momento e dal caso. Per girare nella strada dove le prostitute sono
esposte in vetrina, ho dovuto chiedere autorizzazione al commissariato
che mi ha obbligato ad essere scortata da un poliziotto. Questo bordello
di Istanbul si chiama “Yuksek Kaldirim” ed è legale
e storico. Però c’è il divieto d’accesso
per le donne. Il sesso per la società turca è ancora un
problema. Gli uomini cercano ancora donne vergini da sposare quindi il
bordello è un posto importante per loro. Anch’io in quell’occasione
vidi per la prima volta un bordello turco. È il posto ideale ed
incisivo per raccontare la società turca. Il bordello è
un luogo metaforico dove il pubblico diventava opera d’arte; loro
osservavano le donne come fossero un’opera d’arte o un kebab.
B.D.M.: Con Speculum Istanbul raggiungi
anche una certa maturità nel campo del video. In questo senso
tra i vari lavori il video Hamam resta, almeno a livello visivo,
il tuo lavoro più riuscito.
S.M.: Sono d’accordo. Il video è girato
in un bagno turco maschile: ho ricreato una sorta di harem costituito
da uomini. Nel bagno turco tradizionale c’è sempre qualcuno
che ti lava e così anche in Hamam vengo lavata dall’addetto,
attorniata da altri uomini che si lavano tra loro come bambini. Vivendo
in occidente mi sono resa conto che esiste un mito del bagno turco e questo
per me è stato irritante. Le fantasie legate a questo luogo sono
omosessuali e maschiliste. Ho voluto capovolgere questa situazione. Quando
ti lasci lavare da uno sconosciuto che ha certi concetti sulle donne le
cose cambiano. Ecco perché qualche volta c’era un’atmosfera
tesa.
B.D.M.: Parliamo ora dei tuoi lavori successivi.
S.M.: Dopo il 1997 ho lavorato molto sul tema della transessualità,
un aspetto sociale che tendiamo a rimuovere, se non per divertimento o
per spettacolarizzazione mediatica. A Istanbul avevo uno studio in cui
venivano a trovarmi i transessuali, io davo appoggio a queste persone,
spesso
perseguitate dalla polizia. Per il momento gli unici lavori realizzati,
entrambi nel 1998, sono il video Transistanbul nel quale ballo
con dei trans in un locale e mi confondo con loro, nonché un’azione
con travestiti e transessuali, che consisteva in un dialogo sull’arte
contemporanea e sulla sessualità. Però ho girato anche diverse
interviste con travestiti turchi che non ho mai montato ma che riprenderò
in futuro e ho intrapreso una collaborazione con un travestito italiano
di nome Valérie, ma il lavoro si è poi fermato per alcune
divergenze.
B.D.M.: La maggior parte dei tuoi lavori nasce da
tue esperienze personali. Immagino anche per motivazioni di carattere
etico, solo se si conosce e si vive qualcosa la si può esprimere
con autenticità, tradurla in forma estetica...
S.M.: In parte sì. Per esempio io ho realmente
vissuto insieme agli amici transessuali per diverso tempo, in modo da
assimilarne la psicologia, diventando poi uno di loro davanti alla videocamera.
Un’altra
azione del 1999, Dolore, realizzata ai Murazzi di Torino, era
ispirata ad una operazione subita all’orecchio: ho messo in scena
la mia sofferenza insieme ad altre 40 ragazze e ragazzi con la testa fasciata
di garza e il camice operatorio. Dondolavamo su noi stessi come automi,
come pazienti di un ospedale psichiatrico. L’arte, si sa, ha il
potere di esorcizzare e di sublimare il dolore così come la follia.
B.D.M.: Ritornando alle variazioni sul tema, hai
usato in altri contesti anche il soggetto di Hamam?
S.M.: Sì, nel 2000, invitata da Mario Martone,
ho realizzato una performance al Teatro India, uno spazio bellissimo.
Io e un’altra ragazza ci lavavamo reciprocamente in uno spazio molto
ristretto in cui potevano entrare solo due o tre persone alla volta per
pochi minuti, riprese da una camera fissa che trasmetteva le immagini
su un monitor posto all’esterno. Alle nostre spalle veniva proiettato
il video Hamam, per creare un legame tra azione reale e azione
rappresentata.
B.D.M.: A che cosa stai lavorando attualmente?
S.M.: A gennaio farò una performance a Torino
nell’ambito del festival Live Art, curato da Francesca
Alfano Miglietti, per questa occasione sto preparando un video dal titolo
Despair che dovrò girare ancora una volta a Istanbul.
Poi sto preparando un evento incentrato sulla città fredda, inospitale
e marginale. Il video sarà in futuro sempre più centrale
nel mio lavoro, anche perché ho finalmente acquistato un’attrezzatura
professionale.
B.D.M.: Spesso si mette in evidenza la componente
trasgressiva del tuo lavoro, anche se credo che per te sia scarsamente
importante. Ad ogni modo cosa vuol dire creare scandalo?
S.M.: Ho conosciuto lo scandalo fin da quando ero piccola,
nel paese di provincia dove sono nata, Terme. Dopo aver terminato le scuole
elementari non volevo fare la sarta e così mia madre mi ha iscritto
alle medie di nascosto. Mio fratello mi obbligava a coprirmi con il fazzoletto.
Quindi ho conosciuto sin da piccola la violenza. A quindici anni, quando
frequentavo il liceo, creai un altro scompiglio: avevo scritto una poesia
sul destino delle donne curde. Lo scandalo l’ho visto nella società
non nel mio lavoro.
B.D.M.: Nonostante ciò sei riuscita a diventare
un’artista e, a giudicare anche dalla forte dose di ironia insita
nelle tue opere, mi pare che tu abbia superato quel periodo doloroso della
tua infanzia, della tua formazione
S.M.: Il senso dell’ironia l’ho acquistato
quando ho toccato il fondo, è stata l’unica cosa che mi ha
aiutato ad uscire dalle situazioni difficili. Ci tengo a questa leggerezza,
ma non ritengo di essere “leggera”. Ho imparato ad elaborare
il mio dolore attraverso la creazione. Certo l’arte è stata
una terapia, però nessuna ferita del passato potrà mai rimarginarsi.
In fondo penso che tutto ciò che ho fatto nella mia vita nasca
dalla voglia di mostrare ai miei genitori quanto valevo e quanto volevo
essere amata. Il mio narcisismo non è un atteggiamento d’artista,
ma è qualcosa di forzato, che nasce proprio da questa disperata
voglia di essere amata.
Sukran Moral (Terme, Turchia) si è trasferita in Italia nel
1989. Vive e lavora tra Istanbul e Roma. Ha partecipato ad importanti
mostre internazionali, tra cui la Biennale di Istanbul.
Bruno Di Marino è responsabile dell’archivio audiovisivo
del Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università
La Sapienza di Roma, fondato nel 1993.
I
video-corpi di sukran
di Massimo Canevacci |
La video-arte come genere autonomo di composizione
artistica ha favorito l’affermazione di diverse donne
che hanno sfidato linguaggi e stereotipi. Tra queste, Sukran
Moral rappresenta una figura fondamentale. Una sorta di ansia
verso la sovversione di ogni atteggiamento contemplativo tradizionale
anima questa giovane donna nata in Turchia e da qualche anno
presente in Italia. L’innesto di corpo e tecnologia,
di un corpo di donna che si espone nel suo splendore irriducibile
a una osservazione neutrale; di una tecnologia che viene sessuata
da questa invasione linguistica.
In Speculum riesce a performare la sua provocazione
su una serie complessa e intrecciata di livelli. L’azione
si svolge sul piano della strada, dove transita la gente “normale”,
abituata a paesaggi per l’appunto “normali”.
Invece si trova davanti a una vetrina dietro la quale c’è
lei, Sukran, sdraiata su un lettino ginecologico, tra le gambe
lo schermo acceso di un televisore, il viso - velato come
il celebre Cristo a Napoli - comunica in modo opaco e vivido
il senso di una esposizione-denuncia. La posizione della donna,
che ogni donna assume dal ginecologo, diventa la metafora
di una più vasta condizione femminile che deve esporre
il suo sesso per lo sguardo “medicalizzato” del
maschio. Ma non solo: ogni persona - sia uomo che donna, bambino
o anziano, europeo o asiatico - sente sfidarsi dentro. Qualcosa
di irriducibile e di eroticamente inquietante.
Forse ogni volta che guardiamo la TV stiamo cercando una evocazione
del piacere che il sesso femminile comunica. Lo stravolgimento
dell’eros in schermo diffonde questa “perversione”.
La televisione inganna uno dei principi che danno il senso
della vita: il principio del piacere. Tutto deve essere esposto,
ispezionato e osservato. Una sorta di citazione-stravolgimento
della celebre opera pittorica del 1866 di Courbet - L’origine
del mondo - che mostra in primo piano e senza volto il
sesso di una donna. Come è noto il quadro, ora esposto
al Musée d’Orsay, fu di proprietà anche
di Lacan che fissava in quel primo piano la matrice del logos
come fallo. Ovvero, lo sguardo, la tecnica e la pittura di
Courbet rappresentavano un discorso che poteva essere esposto
in pubblico perché - e solo in quanto - caratterizzato
da una supremazia genitale.
Ora tutto questo si stravolge grazie all’audacia inventiva
e linguistica di questa artista che spiazza e decompone la
centralità onnivora e onni-optica dell’uomo per
affermare orgogliosa l’irriducibilità di una
esposizione femminile anche nelle condizioni di maggiore subalternità,
come nella visita ginecologica… E allora si compone
qualcosa di singolare e straniante, la performance mette in
discussione ogni tradizionale recepimento: l’esterno
si fa interno sia nello speculum che simmetricamente nella
vetrina, altro sesso femminile aperto che espone allo sguardo
voyeuristico dei passanti non più le tradizionali merci,
ma un corpo di donna coatto nella forma della merce che si
infila e giustappone tra le gambe.
E allora i pregiudizi si rovinano o, all’estremo, cercano
di riconfermarsi come sorriso ironico o incredulo di chi pur
fissando la scena non vuol vedere né vedersi. La video-arte
che intreccia corpi desideranti o feriti o umiliati con tecnologie
e ridefinizione degli sguardi riesce a far esplodere le norme
e diffondere l’irregolarità propria di ogni invenzione
estetica.
Massimo Canevacci insegna
Antropologia presso la Facoltà di Sociologia dell’Università
La Sapienza di Roma. |
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