Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


Ziqqurat n°7
Sommario

La pratica della FormaGino Frogheri, Rituale, 1969, tecnica mista su tela, 60,5 x 50,4 cm
intervista a Gino Frogheri
di Maria Dolores Picciau

«Irriducibile sempre agli stereotipi, aperto, senza rinunciare alle proprie origini, al divenire dell’arte, secondo un percorso insieme coerente e vario».
Così lo storico dell’arte Luciano Caramel ha definito l’artista nuorese Gino Frogheri che, dagli esordi legati ad una figurazione originale e mimetica della realtà, è passato ad una formulazione astratto-sintetica di archetipi e simboli plastici. Un itinerario suggestivo e meditato, mai banale, che l’autore disvela in questa intervista.

M.D.P.: La sua prima personale si è tenuta a Nuoro nel 1955. Erano anni di grande fermento, di contraddizioni, di scelte di campo decisive. Come veniva accolta in quel momento la sua opera?
G. F.: Credo che venisse guardata con scontata e scettica indifferenza nuorese, anche se in una precedente collettiva del 1953, il pittore Giovanni Ciusa Romagna espresse giudizi molto positivi sul mio modo di operare. Le scelte di campo ebbero inizio tra il 1957 ed il 1959, quando cioè cominciai ad interessarmi oltre che alle vedute urbane e naturalistiche, alle evocazioni politico-sociali - i morti di Buggerru, i minatori - in collaborazione con lo scrittore Romano Ruju. Queste scelte ebbero, poi, un ulteriore e più deciso orientamento dopo le Biennali nazionali organizzate a Nuoro intorno al 1960.

M.D.P.: Poi c’è stato il passaggio a Milano, crocevia d’incontri e scambi con celebrati maestri. Ci racconti di quegli anni, di quel clima che di lì a poco avrebbe rivoluzionato l’arte italiana.
G. F.: Le mostre di quel periodo - da Milano a Genova, da Cannes a Parigi e altre ancora - furono precedute da incontri e confronti con artisti e critici d’arte italiani e stranieri presso la galleria Chironi 88 di Nuoro, particolarmente attenta, in quegli anni, ai nuovi fermenti della ricerca artistica contemporanea. Ma gli anni di Milano li ricordo soprattutto per la grandiosità degli avvenimenti artistici che, però, suscitavano in me un senso di apparente isolamento, dovuto ad un periodo di riflessione che mi avrebbe portato, successivamente, alla realizzazione dei quadri neri, opere nate dall’esigenza di approfondire un concetto che allora mi affascinava: il rapporto tra uno spazio pittorico opaco, otticamente non valutabile nella sua fisicità, e la presenza di elementi astratto-geometrici che iniziavano ad acquisire delle caratteristiche di autonoma vitalità e sopravvivenza.

Gino Frogheri, Forma-Proiezioni, 1991, acrilici e matite su tela, 149 x 129,5 cmM.D.P. Dopo aver iniziato la sua ricerca con una pittura di matrice surrealista, dalle opere di tipo naturalistico-realistico degli anni ’50-’60 approda a quello che è stato definito “un simbolismo minimale”. Che cosa ha rappresentato per lei questa esperienza?
G. F.: In effetti, a monte della definizione di “simbolismo minimale” c’era stata, tra il ’68 e il ’70, una intensa ricerca formale e materica che, attraverso la frenetica impaginazione di circa 1500 tele e supporti vari con materiali anche altamente tossici (di cui ricordo ancora i vapori asfissianti), mi aveva portato alla scoperta di una tecnica personale rapidissima e coinvolgente, alla creazione di quei neri opachi con elementi astratto-geometrici. Da qui l’esigenza di mettere a fuoco i contenuti più significativi delle opere, cercando, attraverso la sintesi, l’essenzialità ed il filo più diretto, spesso interrotto, con le opere in corso di esecuzione. La graduale semplificazione di una decina di tempere, Segni in libertà del 1968, in effetti mi portò a condensare in una forma archetipale, pulita e silenziosa, ma anche poliallusiva e multistabile, tutti i contenuti che si addensavano e si sovrapponevano nelle opere precedenti, in una sorta di dare e avere, che a volte s’interrompeva per lunghi periodi, come un dialogo tra ciechi e sordi, ma che all’improvviso riprendeva con maggiore forza e vitalità. Quella definizione di simbolismo minimale, quindi, in realtà condensava tutti i significati che lo avevano preceduto fino alla scoperta dei Sopravvissuti in chiave di “presenza” o di “assenza”.

M.D.P.: Quando ha maturato la necessità di voler passare da una figurazione imitativa della realtà naturale ad una formulazione aniconica?
G. F.: Come ho affermato in precedenza, i primi orientamenti per un passaggio a formulazioni più evolute nella loro astrazione, derivarono da esigenze interiori, intellettuali e culturali, che si chiarirono meglio durante le Biennali Nazionali di Nuoro del 1957 e del 1959, anche se nel mio lavoro c’erano stati già dei timidi tentativi spontanei di astrazione lirica nel 1955/56.

Gino Frogheri, Partiture in campo scuro, 1974, acrilico su tela, 119,8 x 79,7 cmM.D.P.: Come è avvenuto il graduale passaggio verso forme più rigorosamente astratte, geometriche e archetipali?
G. F.: Non ricordo bene le fasi graduali di questo passaggio, ma ricordo chiaramente che alcune entità, pur rigorosamente astratte, emanavano una loro autonoma vitalità che aumentava di pari passo con la semplificazione formale. Questa semplificazione, però, fu talmente esasperata che mi ritrovai in un vicolo cieco forse originato da una eccessiva seriazione, intendendo con questo termine l’aggregazione pausata di un’immagine simbolo senza inizio o fine. Da questa fase scaturì la violazione della superficie pittorica, quando intervenivo sul piano geometrico con una serie di asportazioni e trasferimenti di immagini fisiche. Ciò fu possibile aprendo un nuovo scenario percettivo, caratterizzato dalle “presenze” fisicamente rassicuranti, e dalle “assenze”, ex luogo della forma o vuoto che catturavano, come una magica finestra spaziale, una serie infinita di nuove immagini, le quali modificavano il precedente concetto di atemporalità. Tutto questo grazie alla creazione di una “presenza” che originava inevitabilmente anche un’“assenza”, dando vita ad un diverso rapporto spazio-temporale, in chiave però più attuale, come in Pittostruttura del ’94.

M.D.P.: Le sue ultime opere sono impenetrabili come degli enigmi. Secondo lei è importante cercare di entrare nel quadro, comprenderlo, oppure l’opera d’arte deve continuare a mantenere il suo alone di mistero?
G. F.: Non ho quasi mai avuto l’esigenza di entrare in un’opera per cercare di comprenderla, perché sono convinto di aver già vissuto le “autenticità” in essa contenute, che il linguaggio parlato non consente di cogliere a pieno. M’incuriosisce però l’analisi critica perché genera in me una sorta di “controfigura” fruitrice, e ciò in contrasto con me stesso autore dell’opera. Credo, perciò, che un alone di mistero, dotato di un’autonoma variabilità intrinseca all’opera stessa che dà origine a sollecitazioni sempre nuove, sia di fondamentale importanza. Attualmente, però, questo enigma mi affascina in modo ossessivo, ma allo stesso tempo mi stimola, generando in me la convinzione che le vicende umane che viviamo attimo per attimo si esauriscano in continuazione diluendosi come grandi figure in spazi sempre maggiori, fino alla loro apparente sparizione. Quindi in un complesso movimento geometrico le immagini lontane diventano sempre più grandi. Quelle vicine più piccole, ma concentrate e intense perché vissute in tempo reale.

M.D.P.: Nelle sue opere, come notava Salvatore Naitza, prevalgono elementi analitici che «mettono in luce parti vitali e perfettibili» in un contesto di oppressione tecnologica e di un eccesso di razionalizzazione disumana. Come si pone nei confronti della società attuale, caotica e contraddittoria, mercificata ed ammalata?
G. F.: La seriazione ossessiva della forma conteneva già la denuncia nei confronti di una società massificata e dunque mercificata.

M.D.P.: La sua opera è logica, razionale… Ma nella vita personale, lei si lascia guidare più dall’istinto o dalla ragione?
G. F.: Mi avvalgo della “facoltà di non rispondere”, anche se è risaputo che sono in possesso del “solco scimmiesco”.

M.D.P.: Per uno come lei di “un’altra generazione”, cosa significa oggi essere artista?
G.F. Direi che ha più significato non esserlo. Artista è una definizione oggi molto abusata, soprattutto in campo calcistico e canzonettistico.

M.D.P. Alla luce di tanti anni di paziente attività e di serio impegno, che cosa ripaga di più nel lungo periodo?
G. F.: Il futuro.

M.D.P.: Che cosa significa per lei oggi essere sardo? Ritiene fondamentale rivendicare palesemente le sue radici?
G. F.: Non essendolo, avrei probabilmente orientato la mia ricerca artistica in altre direzioni. Per il resto non credo sia necessario rivendicare a tutti i costi la propria sardità.

Gino Frogheri è nato nel 1937 a Nuoro, città in cui vive e lavora.

Ultimo numero ° News ° Archivio ° Chi siamo ° Contatti ° Sponsor ° Link