Ziqqurat n°7
Sommario
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La
pratica della Forma
intervista a Gino Frogheri
di Maria Dolores Picciau
«Irriducibile sempre agli stereotipi,
aperto, senza rinunciare alle proprie origini, al divenire dell’arte,
secondo un percorso insieme coerente e vario».
Così lo storico dell’arte Luciano Caramel ha definito l’artista
nuorese Gino Frogheri che, dagli esordi legati ad una figurazione originale
e mimetica della realtà, è passato ad una formulazione astratto-sintetica
di archetipi e simboli plastici. Un itinerario suggestivo e meditato,
mai banale, che l’autore disvela in questa intervista.
M.D.P.: La sua prima personale si è tenuta
a Nuoro nel 1955. Erano anni di grande fermento, di contraddizioni, di
scelte di campo decisive. Come veniva accolta in quel momento la sua opera?
G. F.: Credo che venisse guardata con scontata e scettica
indifferenza nuorese, anche se in una precedente collettiva del 1953,
il pittore Giovanni Ciusa Romagna espresse giudizi molto positivi sul
mio modo di operare. Le scelte di campo ebbero inizio tra il 1957 ed il
1959, quando cioè cominciai ad interessarmi oltre che alle vedute
urbane e naturalistiche, alle evocazioni politico-sociali - i morti di
Buggerru, i minatori - in collaborazione con lo scrittore Romano Ruju.
Queste scelte ebbero, poi, un ulteriore e più deciso orientamento
dopo le Biennali nazionali organizzate a Nuoro intorno al 1960.
M.D.P.: Poi c’è stato il passaggio a
Milano, crocevia d’incontri e scambi con celebrati maestri. Ci racconti
di quegli anni, di quel clima che di lì a poco avrebbe rivoluzionato
l’arte italiana.
G. F.: Le mostre di quel periodo - da Milano a Genova,
da Cannes a Parigi e altre ancora - furono precedute da incontri e confronti
con artisti e critici d’arte italiani e stranieri presso la galleria
Chironi 88 di Nuoro, particolarmente attenta, in quegli anni,
ai nuovi fermenti della ricerca artistica contemporanea. Ma gli anni di
Milano li ricordo soprattutto per la grandiosità degli avvenimenti
artistici che, però, suscitavano in me un senso di apparente isolamento,
dovuto ad un periodo di riflessione che mi avrebbe portato, successivamente,
alla realizzazione dei quadri neri, opere nate dall’esigenza
di approfondire un concetto che allora mi affascinava: il rapporto tra
uno spazio pittorico opaco, otticamente non valutabile nella sua fisicità,
e la presenza di elementi astratto-geometrici che iniziavano ad acquisire
delle caratteristiche di autonoma vitalità e sopravvivenza.
M.D.P.
Dopo aver iniziato la sua ricerca con una pittura di matrice surrealista,
dalle opere di tipo naturalistico-realistico degli anni ’50-’60
approda a quello che è stato definito “un simbolismo minimale”.
Che cosa ha rappresentato per lei questa esperienza?
G. F.: In effetti, a monte della definizione di “simbolismo
minimale” c’era stata, tra il ’68 e il ’70, una
intensa ricerca formale e materica che, attraverso la frenetica impaginazione
di circa 1500 tele e supporti vari con materiali anche altamente tossici
(di cui ricordo ancora i vapori asfissianti), mi aveva portato alla scoperta
di una tecnica personale rapidissima e coinvolgente, alla creazione di
quei neri opachi con elementi astratto-geometrici. Da qui l’esigenza
di mettere a fuoco i contenuti più significativi delle opere, cercando,
attraverso la sintesi, l’essenzialità ed il filo più
diretto, spesso interrotto, con le opere in corso di esecuzione. La graduale
semplificazione di una decina di tempere, Segni in libertà
del 1968, in effetti mi portò a condensare in una forma archetipale,
pulita e silenziosa, ma anche poliallusiva e multistabile, tutti i contenuti
che si addensavano e si sovrapponevano nelle opere precedenti, in una
sorta di dare e avere, che a volte s’interrompeva per lunghi periodi,
come un dialogo tra ciechi e sordi, ma che all’improvviso riprendeva
con maggiore forza e vitalità. Quella definizione di simbolismo
minimale, quindi, in realtà condensava tutti i significati
che lo avevano preceduto fino alla scoperta dei Sopravvissuti in
chiave di “presenza” o di “assenza”.
M.D.P.: Quando ha maturato la necessità di
voler passare da una figurazione imitativa della realtà naturale
ad una formulazione aniconica?
G. F.: Come ho affermato in precedenza, i primi orientamenti
per un passaggio a formulazioni più evolute nella loro astrazione,
derivarono da esigenze interiori, intellettuali e culturali, che si chiarirono
meglio durante le Biennali Nazionali di Nuoro del 1957 e del 1959, anche
se nel mio lavoro c’erano stati già dei timidi tentativi
spontanei di astrazione lirica nel 1955/56.
M.D.P.:
Come è avvenuto il graduale passaggio verso forme più
rigorosamente astratte, geometriche e archetipali?
G. F.: Non ricordo bene le fasi graduali di questo passaggio,
ma ricordo chiaramente che alcune entità, pur rigorosamente astratte,
emanavano una loro autonoma vitalità che aumentava di pari passo
con la semplificazione formale. Questa semplificazione, però, fu
talmente esasperata che mi ritrovai in un vicolo cieco forse originato
da una eccessiva seriazione, intendendo con questo termine l’aggregazione
pausata di un’immagine simbolo senza inizio o fine. Da questa fase
scaturì la violazione della superficie pittorica, quando intervenivo
sul piano geometrico con una serie di asportazioni e trasferimenti di
immagini fisiche. Ciò fu possibile aprendo un nuovo scenario percettivo,
caratterizzato dalle “presenze” fisicamente rassicuranti,
e dalle “assenze”, ex luogo della forma o vuoto che catturavano,
come una magica finestra spaziale, una serie infinita di nuove immagini,
le quali modificavano il precedente concetto di atemporalità. Tutto
questo grazie alla creazione di una “presenza” che originava
inevitabilmente anche un’“assenza”, dando vita ad un
diverso rapporto spazio-temporale, in chiave però più attuale,
come in Pittostruttura del ’94.
M.D.P.:
Le sue ultime opere sono impenetrabili come degli enigmi. Secondo lei
è importante cercare di entrare nel quadro, comprenderlo, oppure
l’opera d’arte deve continuare a mantenere il suo alone di
mistero?
G. F.: Non ho quasi mai avuto l’esigenza di entrare
in un’opera per cercare di comprenderla, perché sono convinto
di aver già vissuto le “autenticità” in essa
contenute, che il linguaggio parlato non consente di cogliere a pieno.
M’incuriosisce però l’analisi critica perché
genera in me una sorta di “controfigura” fruitrice, e ciò
in contrasto con me stesso autore dell’opera. Credo, perciò,
che un alone di mistero, dotato di un’autonoma variabilità
intrinseca all’opera stessa che dà origine a sollecitazioni
sempre nuove, sia di fondamentale importanza. Attualmente, però,
questo enigma mi affascina in modo ossessivo, ma allo stesso tempo mi
stimola, generando in me la convinzione che le vicende umane che viviamo
attimo per attimo si esauriscano in continuazione diluendosi come grandi
figure in spazi sempre maggiori, fino alla loro apparente sparizione.
Quindi in un complesso movimento geometrico le immagini lontane diventano
sempre più grandi. Quelle vicine più piccole, ma concentrate
e intense perché vissute in tempo reale.
M.D.P.: Nelle sue opere, come notava Salvatore Naitza,
prevalgono elementi analitici che «mettono in luce parti vitali
e perfettibili» in un contesto di oppressione tecnologica e di un
eccesso di razionalizzazione disumana. Come si pone nei confronti della
società attuale, caotica e contraddittoria, mercificata ed ammalata?
G. F.: La seriazione ossessiva della forma conteneva
già la denuncia nei confronti di una società massificata
e dunque mercificata.
M.D.P.: La sua opera è logica, razionale…
Ma nella vita personale, lei si lascia guidare più dall’istinto
o dalla ragione?
G. F.: Mi avvalgo della “facoltà di non
rispondere”, anche se è risaputo che sono in possesso del
“solco scimmiesco”.
M.D.P.: Per uno come lei di “un’altra
generazione”, cosa significa oggi essere artista?
G.F. Direi che ha più significato non esserlo.
Artista è una definizione oggi molto abusata, soprattutto
in campo calcistico e canzonettistico.
M.D.P. Alla luce di tanti anni di paziente attività
e di serio impegno, che cosa ripaga di più nel lungo periodo?
G. F.: Il futuro.
M.D.P.: Che cosa significa per lei oggi essere sardo?
Ritiene fondamentale rivendicare palesemente le sue radici?
G. F.: Non essendolo, avrei probabilmente orientato la
mia ricerca artistica in altre direzioni. Per il resto non credo sia necessario
rivendicare a tutti i costi la propria sardità.
Gino Frogheri è nato nel 1937 a Nuoro, città in cui
vive e lavora.
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