Ziqqurat n°6
Sommario
Luoghi di confine
di Sergio Risaliti |
Storie
di periferia
incontro con Botto&Bruno
di Antonello Fresu
A.F.: Voi siete
una coppia nella vita e nell’arte. Come nascono i vostri lavori?
E quante difficoltà ci sono dietro una creatività condivisa?
B&B.: Per noi è sempre difficile spiegare
come avviene il nostro lavoro in coppia: è talmente automatico,
talmente naturale, che tentare di spiegarlo è come voler razionalizzare
qualcosa di istintivo. Tra noi non ci sono divisioni di compiti, fotografiamo
entrambi e, spesso, non riusciamo neanche a riconoscere gli scatti dell’uno
o dell’altra. Questo perché c’è sempre stato
uno scambio continuo: abbiamo condiviso da subito, anche nella vita, lo
stesso modo di percepire le cose e, comunque, vivendo la quotidianità,
vedendo gli stessi film, leggendo gli stessi libri, ovviamente, si finisce
per vedere le cose allo stesso modo. Curiamo insieme tutto ciò
che facciamo, sia la realizzazione e il montaggio delle installazioni
sia l’aspetto progettuale del lavoro. Non c’è, quindi,
una dimensione che parte esclusivamente dal privato: il lavoro nasce sempre
dalla discussione e, in un certo senso, essendo condiviso già in
partenza con l’altro, è aperto all’esterno prima ancora
di nascere.
A.F.: Dietro la tematica delle periferie, che da
sempre caratterizza il vostro lavoro, c’è anche la condivisione
di uno stesso ambiente di riferimento?
B&B.: Sì, entrambi proveniamo da due diverse
zone della periferia torinese, ma ci siamo incontrati in centro, in accademia,
e senz’altro questo è stato uno degli elementi che ci ha
permesso di sentirci in sintonia perché, comunque, le problematiche
di due ragazzi che nascono in periferia sono molto simili: tutti e due
avevamo la necessità, probabilmente, di elaborare le stesse tematiche.
A.F.: In effetti, nel vostro lavoro compaiono dei
contenuti - l’emarginazione, le periferie - che in Italia non erano
stati più affrontati, e non solo nell’arte, dagli anni del
neorealismo. È stato difficile riprendere queste tematiche?
B&B.: All’inizio è stato difficile.
In realtà, in Italia, il neorealismo è stato un fenomeno
legato più al cinema e alla letteratura che all’arte. Il
nostro lavoro, d’altronde, non ha mai avuto intenti solamente di
denuncia sociale, non è un lavoro descrittivo. Infatti, i luoghi
da noi rappresentati sono sempre ricostruiti, non c’è nulla
di reale, se non i diversi frammenti che compongono l’immagine.
Non ci interessa prendere qualcosa e metterla in galleria, come Duchamp
con i suoi ready-made. Ci interessa, invece, offrire una visione
a trecentosessanta gradi sulla realtà. In un certo senso, anche
l’idea di tappezzare i muri delle gallerie con le immagini delle
periferie, come facciamo con le nostre installazioni, è un modo
per creare delle aperture nelle pareti per guardare all’esterno.
In fondo, anche il lavoro che abbiamo presentato la scorsa estate a Venezia,
alla Biennale, aveva proprio questo significato: obbligare la gente -
che magari in periferia non c’è mai andata o che prova una
sorta di insofferenza o di paura per questi luoghi - a transitare per
qualche minuto attraverso questo spazio.
A.F.: Tra i vostri lavori, alcuni sono stati realizzati
con materiali soffici, assemblati a formare dei cuscini. C’era anche
qui lo stesso intento?
B&B.:
Erano lavori in similpelle, cuscini stampati con le nostre immagini e
messi per terra, che si potevano toccare. Ci piaceva che questa sorta
di “virus metropolitano” entrasse anche nel comfort quotidiano
e che la gente venisse sollecitata, proprio grazie a questa morbidezza,
a toccare questo materiale e quindi ad entrare in contatto con l’immagine.
Ci piaceva l’idea di un tessuto morbido che accoglieva, per contrasto,
immagini molto dure, o comunque, cariche di tensione. Volevamo costringere
il visitatore, senza spaventarlo, a conoscere questi spazi anche solo
per qualche attimo, a sentirsi circondato e non potersene andare, proprio
come succede a chi, abitando in periferia, non ha la possibilità
di scegliere…
A.F.: Ma com’è, veramente, la periferia?
B&B.: È un luogo difficilissimo, perché
manca tutto: mancano i servizi, non c’è un cinema o una libreria.
Però, forse, proprio per queste carenze si è portati maggiormente
a muoversi, a diventare un po’ nomadi, sviluppando, in questo modo,
una concezione più aperta dello spazio. Il fatto stesso di doverci
sempre spostare in centro anche per fare le cose più banali, ci
ha permesso di vedere in modo differente, con occhi diversi, lo spazio
urbano. Certo, ci sono voluti anni perché, comunque, anche il condizionamento
di chi è nato in questi luoghi è molto forte essendo, questi,
dei luoghi nati dal disagio e dove sembra che l’immaginazione non
possa avere spazio.
A.F.: In realtà, però, il vostro lavoro
si sviluppa sempre fra tensione e sogno, come se il clima onirico, visionario,
dei vostri lavori, lasciasse comunque aperte delle possibilità
alternative, un po’ come le pozzanghere che compaiono spesso nelle
vostre opere, che non riflettono mai quello che hanno attorno e rimandano,
invece, ad un “altrove”.
B&B.:
Infatti l’idea delle pozzanghere è proprio quella di insinuare
dei dubbi sulla
visione perché, comunque, spesso non ti accorgi che le pozzanghere
non riflettono quello che c’è nell’immagine. Solo ad
una seconda lettura questo diventa evidente. Le pozzanghere rappresentano
una sorta di apertura verso altri mondi, che non sono mai mondi diversi,
ma altre possibilità di spaziare con la mente. Sono mondi paralleli,
con il cielo di diverso colore, con architetture diverse dalle immagini
sovrastanti, per cui cammini in uno spazio e, però, nello stesso
tempo, puoi vederne anche un altro. Un po’ come camminare in una
città sentendo della musica in cuffia: tu vedi la città
ma, allo stesso tempo, hai anche altri stimoli dalla musica.
A.F.: Le vostre immagini rappresentano paesaggi
che non esistono, anche se i frammenti che le compongono provengono, però,
da immagini reali. Da cosa nasce il bisogno di creare paesaggi virtuali?
B&B.: Ci piace l’idea di ricostruire la realtà
attraverso frammenti. Il fatto di creare un paesaggio virtuale, non è
certo un modo per allontanarci dalla realtà. Al contrario, noi
pensiamo che la realtà possa essere letta solo attraverso i suoi
frammenti, perché solo mettendo insieme i “pezzi” di
realtà riusciamo a vedere le cose. Per avvicinarsi alla realtà,
insomma, bisogna passare attraverso la “bugia”. È per
questo che noi non crediamo nello scatto documentativo: riteniamo che
attraverso un solo scatto non sia possibile entrare in contatto con la
realtà vera, anche perché è possibile manipolare
le immagini e spacciarle per altro, come fosse reale. Allora, noi dichiariamo
apertamente che questi posti non sono reali: questo è anche un
modo per imparare a leggere questi spazi in modo differente.
A.F.: In realtà, il processo di scomposizione
e ricomposizione delle immagini da voi utilizzato è simile, per
certi versi, al processo creativo del sogno e, probabilmente, questo è
uno dei motivi per cui le vostre immagini suscitano empatia, perché
diventano, in tal modo, paesaggi interiori.
B&B.: Si, è vero. Abbiamo notato che, guardando
le installazioni, molta gente crede di riconoscere i luoghi degli scatti,
le architetture del luogo. Quindi, per assurdo, il fatto di fotografare
luoghi anonimi, uguali in tutto il mondo, fa scattare nel pubblico una
sorta di empatia. In ogni opera ci sono 15/20 frammenti di paesaggi diversi,
e anche gli edifici stessi vengono cambiati, modificati nella stessa architettura.
A.F.: Come avviene il passaggio dallo scatto all’opera
finita?
B&B.: È un processo lunghissimo. Impieghiamo
tantissimo tempo a realizzare un’opera. Il progetto è un
lavoro molto piccolo. È fatto di frammenti di tante foto diverse,
tutti ritagliati a mano. Spesso, nei nostri viaggi, ma anche se giriamo
a Torino, ci perdiamo nella città, e fotografiamo tutto quello
che ci interessa. Poi stampiamo le foto con dei viraggi particolari e,
solo successivamente, in studio, inizia il montaggio vero e proprio, che
avviene tagliando dalle varie foto le parti che servono, per inserirle,
poi, in un altro contesto. A questo punto ritocchiamo tutte le giunzioni
tra i vari elementi, e tutto questo manualmente. Per anni abbiamo lavorato
nel restauro, e probabilmente c’è rimasta una passione per
la manualità. Anche se è importante saper dialogare con
la tecnologia, riteniamo che un ritocco al computer possa essere omologante.
Alla fine di questi passaggi, l’immagine viene scansita e ingrandita
per la stampa.
A.F.:
Quindi questo aspetto di sospensione, un po’ metafisico, onirico,
visionario, dei vostri lavori, nasce anche dal fatto che voi lasciate
un grande spazio alla casualità dei vari accostamenti.
B&B.: Sì, la storia si costruisce un poco
alla volta. C’è un progetto di base, certamente, ad esempio
si può decidere di utilizzare un certo tipo di architetture, però
poi, procedendo nel lavoro, possono nascere anche altre idee. Insomma,
il progetto c’è, però, può variare durante
la realizzazione. Nei video, ad esempio, c’è un lavoro lunghissimo
di montaggio, arriviamo a inserire 500/600 fotografie che disponiamo in
sequenza con dissolvenza incrociata con il computer. C’è
comunque una fase preliminare di montaggio fatta manualmente, esattamente
come nei lavori singoli.
A.F.:
E per le figure utilizzate dei modelli?
B&B.: I soggetti ritratti siamo sempre noi, anche
se spesso appare una bambina, nei nostri ultimi lavori. Queste persone
siamo noi, però potrebbero essere chiunque, mantengono l’anonimato
della non-identità.
A.F.: I personaggi non si vedono mai in volto, come
mai?
B&B.:
I nostri personaggi non si vedono mai in volto perché vogliamo
che siano inseriti perfettamente nel paesaggio. È inevitabile che,
con l’espressione, si crei distanza. Invece, in questo modo, le
figure sono importanti come i sassi, come il cielo, come le architetture.
In realtà, nell’ultimo video ci sarà l’espressione,
anche se solo per un attimo, in uno spazio chiuso. Però, nel momento
in cui il personaggio affronta la realtà esterna, diventa nuovamente
anonimo, come il luogo che percorre. I nostri personaggi comunicano sempre
attraverso una via indiretta, spesso dei fogli sparsi su cui compaiono
frasi estrapolate da testi musicali. È il nostro modo di rappresentare
le inquietudini contemporanee e, quindi, anche la solitudine. È
come se nei nostri lavori ci fosse un bambino autistico, che non ti guarda
mai in faccia, però utilizza altri modi per comunicare. I personaggi
sono chiusi nella loro solitudine, ma non ci sono mai situazioni di pericolo
o di paura verso questi luoghi. C’è un discorso molto intenso
con questi luoghi, e però, allo stesso tempo, l’incomunicabilità
tra le varie persone; la sola comunicazione possibile avviene attraverso
gli spazi, la persona singola dialoga con lo spazio, riuscendo ad entrare
in sintonia con il luogo. C’è sempre una comunicazione mediata,
anche il fatto di usare le cuffie da D.J., il giradischi, il pupazzo,
elementi sempre molto presenti nei nostri lavori, o scatoloni, fogli di
carta con i testi, sono tutti mezzi per comunicare, non c’è
nessuno che parli direttamente ad un altro, c’è sempre bisogno
di un filtro.
A.F.: Mi sembra che oltre all’innegabile senso
di solitudine, le vostre immagini mostrino molto chiaramente quanto voi
amiate questi luoghi.
B&B.: Sì, altrimenti diventerebbe insopportabile
vivere qui. Crediamo che la sopravvivenza in questi spazi sia possibile
solo se si cercano delle aperture. Noi non diamo delle soluzioni, non
è nostro compito. Forse, il fatto che noi abbiamo iniziato a lavorare
su queste tematiche nasce anche dal bisogno di trovare un appiglio per
non perderci in questi spazi vuoti, che altrimenti possono diventare un
incubo.
A.F.: Nelle vostre opere ci sono sempre delle atmosfere
sospese, come una sorta di energia che sta per esplodere…
B&B.: Nelle periferie c’è molta energia
creativa, un’energia che si esprime a livello underground,
che non riesce ad uscire, basti pensare, ad esempio, anche solo ai gruppi
musicali che sono nati nella periferia di Torino, gruppi che sono poi
emersi all’esterno. Torino è un esempio, ma tutte le periferie
del mondo sono molto vitali. Spesso, però, questa forza è
difficile farla emergere. Anche nei nostri lavori, probabilmente, c’è
tanta energia che cerca di venire fuori, e però, c’è
sempre qualcosa che la ostacola. La carica di questi luoghi sta anche
nel fatto che questi luoghi sono dismessi, hanno perso la loro funzione
pratica e acquistano una funzione che per noi ha molto a che fare con
l’immaginario, ed è importante per la città. Una città,
secondo noi, ha bisogno di spazi, anche abbandonati, mentre invece nel
modo di pensare comune uno spazio abbandonato è uno spazio inutile,
negativo. In realtà per noi è esattamente l’opposto.
A.F.: Si può dire che gli spazi che voi create
rappresentano la “zona d’ombra” della città.
Da un punto di vista junghiano, l’ombra rappresenta tutto ciò
che viene rifiutato dall’ individuo e dalla società. L’idea
è che tutto ciò che viene rifiutato, e che è rappresentato
come indefinito, scuro, buio, rappresenta un enorme potenziale energetico.
B&B.: Siamo convinti che una città abbia bisogno
anche di questi luoghi “oscuri”, luoghi di cui si ignora la
destinazione d’uso, luoghi che proprio per questo lasciano aperte
delle possibilità, lasciano anche più libertà di
poterli rendere degli spazi creativi. Così sono nati, ad esempio,
molti centri sociali. Sono tutte situazioni molto creative che sono necessarie
alla città, per le persone che ci vivono, ma anche per l’immaginario
di ciascuno di noi. Se tutti questi spazi venissero rasi al suolo, come
sta, purtroppo, realmente succedendo, se ci fossero solo spazi utilizzati,
destinati alla produzione, centri commerciali o parcheggi, allora, senz’altro,
si perderebbe quell’aspetto di libertà che solo la periferia
sembra, ancora, essere in grado di proporre.
Gianfranco Botto è nato a Torino nel 1963. Roberta Bruno è
nata a Torino nel 1966. Vivono e lavorano a Torino.
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Luoghi di confine
di
Sergio Risaliti
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Un cielo livido, minaccioso,
carico di nubi sulfuree, sovrasta edifici ammutoliti, vuoti ospedali,
magazzini, fabbriche, scuole deserte, prefabbricati, stanzoni in
disuso. L’asfalto è bagnato, come dopo un diluvio e
dalle pozzanghere si affacciano frammenti di periferia e pezzi di
cielo. Fra un edificio e un altro sfilano prospettive cariche di
silenzio, scorci e fughe che partono e arrivano lontano. Su tutto,
dappertutto, sembra dominare il vuoto: un vuoto che però
è saturo e informe. Lo spazio sembra un universo chiuso,
il tempo scivola lentamente senza vie di fuga.
Parafrasando un noto filosofo potremmo descrivere questa periferia
una radura, un’apertura nei cui confini l’uomo è
esposto al rischio del vuoto. Oltre il confine sembra non esserci
altra civiltà possibile: quello che appare è un mondo
finito sebbene possa essere sconfinato. Per dirla con Hegel questi
deserti metropolitani sono l’immagine di un autoannientantesi
nulla. Sono e non sono allo stesso tempo immagini della fine della
storia. Sono e non sono squarci crepuscolari, scenari funebri, visioni
apocalittiche. Le gigantografie di Botto e Bruno, coppia di artisti
torinesi, rappresentano una meditazione sulla questione dell’arte
e dell’architettura, cioè dell’io e del noi.
Una meditazione sull’esistenza come si dà al limite
estremo del destino occidentale «quando la storia dell’essere
sta sciogliendosi da se stessa per muoversi nel puro nulla, sospesa
in una sorta di diafano limbo fra il non-essere-più e il
suo non-essere-ancora».
La periferia di Botto e Bruno è questo limbo, una dimensione
esistenziale e una sintassi formale, un sentimento e una metafisica,
personale e collettiva, qualcosa che riguarda la propria vita personale,
la sfera sociale. Oltre che un paesaggio metropolitano, la periferia
è una forma di vita, è il mondo abitato: quella specie
di cosmopolis che si e andata formando alla fine della civiltà
moderna, di un’idea di progresso, del proletariato, del progetto
razionalistico, quando è iniziato un nuovo processo di mondializzazione
capitalistica, qualcosa di altro, una nuova era, tecnologicamente
e biologicamente diversa. Ovvero un altro inizio, una nuova aurora,
che già condiziona la vita a Suburbia. Una nuova dimensione
della storia occidentale che, superata la linea d’ombra umanistica,
ci ha gettati nell'era della globalizzazione post-tecnologica. La
modernità, ultimo disastroso evento della storia occidentale,
si sta esaurendo; come dopo un diluvio l’onda si ritira e
lascia affiorare un paesaggio desolante, l’unico paesaggio
possibile per milioni di sopravvissuti. Le città ideali del
maestro di Urbino, gli scorci pittoreschi, le piazze metafisiche,
si sono liquefatte. Il centro è una sola grande periferia,
la storia è tutta contemporanea.
L’unico mondo abitabile è quello metropolitano, l’unica
dimensione vivibile è quella della globalizzazione informatica
e tecnologica. Nel vuoto di queste periferie postmoderne avanza
un tempo confinato nei limiti della propria storia, tempo sospeso,
circolare, da cui è possibile affrancarsi solo accettando
il fatto di essere soggetti alla deriva, nomadi, internauti, cittadini
di un mondo e di una rete che se è vero che sono senza confini,
è altrettanto certo che sono chiusi al proprio interno, come
dentro un microcosmo. Dunque questo vuoto, sospeso, informe, saturo
di desolazione, dentro al quale sembrano esistere cose e persone
è tale perché è come il ripiegamento del Nulla
sul mondo Reale e su quello Virtuale.
La ricerca di Botto e Bruno, come hanno affermato in un’intervista,
ha sempre affrontato i territori borderline, i luoghi di confine
«cercando in essi possibilità di rinascita».
I personaggi che abitano le suburbie di Botto e Bruno sono giovani
malinconici, eppure sono decisi a non abbandonare i luoghi della
propria infanzia. Coloni della periferia, esponenti del periferiato,
ovvero di una classe sociale capace di rivendicare la propria autonomia
politica, la propria fuga ideologica dalle ideologie, abitano la
condizione post-modema ma rivendicano un immaginario politicamente
edificante, un’espressività in grado di ricostruire
un’arte pubblica, iconografie condivisibili. Le loro gigantografie
mettono in scena la materia di cui sono fatti i racconti e i sogni
del periferiato, e le iconologie sottese a questa nuova pittura
metafisica sono quelle dei nuovi iconauti. Lo sforzo di Botto e
Bruno sta nel ricostruire opere totali, connettere i frammenti,
i racconti, le storie, la trama del reale e virtuale, in un telos
condivisibile: la loro è un'arte pubblica, democratica, fatta
per l’agorà e non per i salotti, prodotta per la piazza
telematica e non per l’oligarchia mediatica. Come l’Angelus
Novus di Klee, vivono guardandosi indietro e inesorabilmente
devono andare avanti come nomadi in un deserto che avanza. Ma a
differenza dell’angelo della storia essi hanno la forza di
raccogliere l’infranto, di ricomporre i frammenti, le rovine,
di narrare l’odissea del periferiato.
L’asfalto è circondato da una selva di architetture
deserte. Stiamo camminando su una strada bagnata. Sotto i nostri
piedi l’asfalto sembra enunciare un sentimento informe, un
caos di affetti e sensazioni, un magma di pulsioni e visioni; allo
stesso modo ci impressionano il cielo nuvoloso e l’architettura
eclettica. La gigantografia vuol essere immagine di qualcosa, ma
anche environment, teatro, su cui sembrano galleggiare i personaggi
virtuali, le figure collocate come santi o manichini nell’immagine,
gli artisti stessi, noi spettatori, obbligati a stare dentro la
scena, a essere messi sullo stesso piano della realtà virtuale.
Proviamo a fare un salto indietro, agli inizi della storia dell’arte
contemporanea. Proviamo a pensare alla tela di Frenhofer, quella
del Capolavoro sconosciuto di Balzac. Il Mondo rappresentato dall’artista
non e più quella promessa de bonheur che si poteva
immaginare un secolo fa. «La Mia pittura - dice Frenohfer
a Porbus e Poussin - non è una pittura, un sentimento, una
passione... Vi è tanta profondità su questa tela,
la sua arte è cosi vera, che non potete distinguerla dall’aria
che vi circonda. Dov’è l’arte? Perduta, scomparsa!».
II soggetto rappresentato, l’affetto, è qualcosa come
una nebbia senza forma. Secondo il giovane Poussin sulla tela non
c’e niente, anzi, c’è il niente e qualcosa che
presentandosi sulla soglia del fondo della visibilità cerca
casa nel linguaggio. Proseguendo nella lettura del racconto si scopre
che un dettaglio, un frammento, come fosse uno scoglio o un relitto
nel pelago dell’oceano, emerge dall’informe materia
della pittura: è la punta di un piede che si stacca dal resto
della tela «come il torso di una Venere scolpita in marmo
di Paro che sorgesse tra le rovine di una città incendiata».
In questa vicenda Giorgio Agamben riconosce l’inesauribile
opposizione tra Terrore e Retorica, cioè un conflitto cruciale
nello svolgersi dell’arte moderna e contemporanea.
Se Chatwin attraversava i deserti per lasciarsi alle spalle la civiltà
metropolitana cosi Botto e Bruno esplorano le periferie abbandonate
per sperimentare quella dimensione del post-moderno che resta sospesa
in una sorta di diafano limbo tra il non-essere-più e il
suo non-essere-ancora.
Da questa esplorazione nasce un sentimento che sta tra la melanconia
e il presagio; alludono a questa tensione rovine di città
e cieli rossi, giocattoli abbandonati sull’asfalto, figure
che voltano le spalle, altre sedute in attesa, improvvise aperture
di spazi azzurri e di miraggi delle pozze cristalline, mucchi di
oggetti familiari, testimoni di qualcosa che è accaduto o
forse sta per avvenire. Coloni di un Mondo alla deriva, di una civiltà
abbandonata, eppure neonati di un Mondo a venire, Botto e Bruno
sperimentano il crepuscolo e l’aurora all'interno di un Mondo
chiuso anche se ormai virtualmente illimitato. È forse questo
l’arcipelago di cui parla Cacciari, immagine che riproduce
ecletticamente i luoghi emblematici dell’epoca moderna, epoca
delle utopie, epoca vissuta all’insegna del mito della modernità
al cui interno si stanno già prefigurando i contorni geopolitici
di una soggettività rinnovata nei miti e nell’immaginario.
L’ottimismo, il vitalismo che pervadeva le periferie industriali
di Boccioni è l’origine lontana di queste immagini,
la sponda opposta di questi paesaggi metropolitani: allora si entrava
nel nuovo secolo affacciandosi da un terrazzo per ritrarre la città
industriosa e per ritrarsi in mezzo alla folla degli operai. Alla
fine del secolo questa visione si è rivoltata. La sguardo
dell'Angelus Novus condiziona il nostro modo di vedere; convive
col nostro ottimismo telematico, biotecnologico e virtuale. Di nuovo
capaci di uno slancio speranzoso siamo contaminati da una indissolubile
melanconia, non già più quell’angoscia, quella
accidia nichilistica di chi alla fine del progresso moderno non
riconosceva che la fine della storia, ma qualcosa di luttuoso che
caratterizza la leggerezza di chi si è deciso a sperimentare
le possibilità di rinascita.
Sergio Risaliti (Prato 1962) è curatore e critico d’arte
contemporanea.
Courtesy La Biennale di Venezia
dal catalogo della 49 Esposizione Internazionale d’Arte |
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