Ziqqurat n°6
Sommario
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Intervista
a Y Liver
di Anna Rita Chiocca |
Sans
domicilie fix
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l terreno su cui si muovono Y Liver (Rugiada Cadoni
e David Liver) è l’irrappresentabile, il sublime attraverso
la frequentazione del doppio, l’assenza, l’erranza, la circolarità,
elementi che si affiancano ai concetti opposti di privazione/protezione
e ad un’indagine sulla fragilità dell’identità.
A.R.C.: Come nasce il duo Y Liver?
D.L.: L’idea del duo nasce dal vissuto quotidiano
di coppia che per sua natura porta alla condivisione di esperienze comuni.
A furia di mettere il naso nelle idee dell’altro, non restava da
scegliere che “la firma”.
R.C.: Y Liver (che non si traduce in Y fegato) si compone
della Y, l’androgino alchemico, e da Liver, appunto, il cognome
di David…
D.L.: … un vero matrimonio anagrafico.
R.C.: Abbiamo mantenuto il suo cognome soprattutto per
sottolineare il riferimento alla cultura Yiddish.
A.R.C.:
“Il sublime è un luogo d’ambiguità, mira
a manifestare in via indiretta l’insufficienza d’ogni rappresentazione
rispetto ad ogni ideale estetico”. Mi pare una definizione perfetta
del vostro lavoro già a partire da IVRIM 1999. Cos’è
IVRIM? Come nasce?
D.L.: IVRIM è stato il nostro primo progetto
comune, una performance nella quale tutti gli elementi - cibo, festa,
polaroid, tracce dell’azione - servivano a destabilizzare l’attenzione
del pubblico. L’intera azione si reggeva semplicemente sulla chiusura
di una porta, dietro la quale non importa che rito si svolgesse, dal momento
che non era visibile. Era importante, invece, l’idea di un pubblico
in attesa, chiuso fuori, esiliato dall’evidenza dell’azione,
l’idea di portarlo all’attraversamento passando per le sue
aspettative.
IVRIM infatti significa “coloro che hanno attraversato”
e, in questo caso, non è solo la parola che significa “ebrei”
ma è la chiave di lettura del lavoro, nel quale la performance
era l’attesa stessa, comprese le delusioni.
A.R.C.: Lo scorso ottobre, a Roma, avete presentato
proprio questo lavoro. Come è stata l’accoglienza rispetto
ad una città di provincia come Sassari?
R.C.: La performance nella Galleria di Pino Casagrande,
curata da Emma Ercoli, non ha avuto differenze di accoglienza rispetto
a Sassari: chiaramente, Roma offre un pubblico più numeroso e vario.
La galleria di Pino si prestava particolarmente, perché è
ampia come un respiro ed è completamente bianca, dal soffitto al
pavimento. Praticamente perfetta per IVRIM.
D.L.: Questa volta lo spazio nel quale mi sono chiuso
era quello più grande, quindi l’impatto del pubblico con
le tracce lasciate dal rito in quella stanza così ampia e vuota
è stato molto forte. Una differenza importante è stata la
presenza di persone dell’ambiente ebraico romano, con le quali abbiamo
potuto confrontarci. L’esito è stato positivo.
A.R.C.:
Il rito e la festa sono sempre accompagnati dalla danza,
la musica e il cibo. Le vostre performance hanno preso spesso l’aspetto
di una festa o meglio di un coinvolgimento festoso ad un rito artistico.
Il cibo e la musica appaiono due presenze costanti, come rientra tutto
questo in un discorso artistico?
R.C.: Il cibo e la musica sono senza dubbio un piacevole
condensato di esperienze attorno alle quali si è aggregata la gente
ed è nata la cultura.
D.L.: Il cibo è spesso presente nel rito e nella
letteratura, anche in forma mitologica e simbolica; è un dono e
come tale implica un’aura sensuale che mitiga l’austerità
di alcuni aspetti concettuali. Ha un carattere seducente che si contrappone
alle nostre azioni, dove il pubblico è costretto all’attesa.
R.C.: È piacevole riflettere gustando qualcosa
di buono, c’è un cibo per l’anima e uno per i sensi.
In questo modo l’opera si dilata e si dissolve.
D.L.: Queste considerazioni valgono anche per la musica,
che è una forma d’espressione e comunicazione atavica, oltre
ad essere quella che più influisce sulla cultura ed il costume
giovanile.
R.C.: Anche noi ne siamo molto influenzati.
A.R.C.: La musica è un elemento formale e
narrativo in molti dei vostri lavori. Penso al ritmo e all’evocazione
che fa da fil rouge tra And I’ll dance with you in Vienna
- dove un uomo ed una donna saltano su una rete finché questa crolla
- e il video Trielegia: intermezzo Po-Lin nel quale
l’uomo salta da solo, la donna è fuori in un altro spazio
visuale. E’ solo una casualità?
R.C.: In entrambi i casi erano due elementi ad avvicinarsi,
il suono (quello della rete del letto) e l’elevazione del salto.
Nella performance fatta al Borderline di Sassari, And I’ll dance
with you in Vienna, al suono prodotto dai salti sulla rete si era
aggiunto il ticchettio di un metronomo in tre tempi.
D.L.: Era la struttura, lo spettro di un sogno viennese.
L’immagine è chiara.
R.C.: Come al solito ci si sveglia con il crollo del
letto.
D.L.: Volevamo ballare sul Danubio blu, per
quanto oramai misero e ridotto all’osso; almeno fin quando fosse
possibile. Raggiungere qualcosa di “altro”, anche se può
provocare dolore. Questa è un po’ la trama dei due lavori,
nei quali la grevità del salto/volo produce quel rumore pesante
e stridente della rete finché anch’essa non desiste.
A.R.C.:
Anche lo schermo è un elemento che ritorna e non solo per la
scelta di lavorare con il video. In Sukkoth 2000 mi è
sembrato interessante l’utilizzo dello schermo come metafora e come
elemento formale. Lo “schermo” come rivelazione di una visione
obliqua della realtà, la traccia di una visione indiretta delle
cose. Da cosa nasce questa necessità di separazione, d’esilio
reciproco artista/pubblico?
D.L.: L’idea di separazione o esilio artista/pubblico,
nasce dalla necessità di creare un’aspettativa e dei percorsi
mentali. Lo schermo è comunque la condizione con cui viviamo la
realtà, indirettamente, così come i ricordi e la cultura:
tutto in modo filtrato. La costruzione di un’identità è
quindi frutto dell’esperienza mediata dell’Io con il mondo.
La stessa cultura Yiddish io la vivo da lontano, ma probabilmente grazie
a questo si crea quella tensione che arriva in profondità disegnando
un percorso creativo e libero. Questo è il valore dell’esilio
e dell’attesa.
A.R.C.: Addirittura in S.D.F. Il vestito della
festa la performance è l’esilio. Ricordo che invitaste
un ipotetico pubblico, attraverso un annuncio sul quotidiano La Nuova
Sardegna, a partecipare alla vostra partenza. Il porto è un non-luogo,
un transito e il viaggio è una componente importante del vostro
percorso artistico: in che misura incide sui risultati artistici, ora
che non vivete più in Sardegna?
R.C.: Dai nostri continui spostamenti, non sempre dovuti
a scelte, prendiamo lo spunto per il lavoro. Ad esempio, ora abbiamo ricevuto
lo sfratto e dobbiamo quindi riorganizzare tutto.
D.L.: Non è forse una buona opera concettuale?
A.R.C.: Direi che è un'ottima opera concettuale!
I titoli dei vostri lavori sono spesso fuorvianti, allontanano lo spettatore
dalla reale percezione del significato. Penso a Ghefillte fisch
o Intermezzo Po-Lin. Quanto è importante conoscere il
senso del titolo dato alle vostre opere? Ha a che fare con le origini
Yiddish?
D.L.:
E’ questa, per noi, la caratteristica più vicina ad un’attitudine
yiddish sia dell’arte sia della vita: esercitarsi nel muovere il
pensiero sui terreni scivolosi dell’incertezza e della precarietà.
E’ una linea continua che parte da Abramo che decide di lasciare
la terra del padre, fino ai tempi più recenti, un filo che intreccia
la dimensione pragmatica della necessità ad una dimensione più
astratta. Si può cercare il significato delle cose anche attraverso
il loro nome. L’anima delle parole ha una forma dinamica, prospettica
e non se ne conoscono mai gli sviluppi che avranno nei percorsi mentali
che le veicolano.
R.C.: Spesso i nostri lavori prendono forma dal titolo,
che se è stato scelto è perché indica la strada sulla
quale muoversi per dire quello che ci interessa: ghefillte fisch,
ivrim, zahav, ma anche je t’aime … moi
non plus. Questi non rimangono solo titoli, infatti nelle nostre
fotografie e nei video, sono presenti come scritte, diventando parte dell’immagine.
D.L.: Il fine è sempre quello di coltivare il
dubbio come un capitale d’investimento.
A.R.C.: Tra le pratiche da voi adottate la performance
e il video sono quelle prevalenti. Cosa pensate della critica fatta alla
49a Biennale di Venezia di avere esposto troppi video e opere fotografiche?
R.C.: Il problema non è l’utilizzo del video
o la fotografia, ma il fatto che questi servano sempre più a legittimare
lavori che in realtà esistono solo perché “trendy”,
grazie proprio al mezzo utilizzato.
D.L.: È vero che nella scelta dei mezzi c’è
in buona parte l’idea di un’opera: ma il video non può
essere solo il mezzo che giustifica l’unico fine di esserci. Alla
base di tutto sta un fraintendimento dell’idea di abbassamento qualitativo
e innalzamento quantitativo.
D.L. e R.C.: Comunque questa è la scena artistica
odierna ed è giusto che sia così presente in manifestazioni
come la Biennale di Venezia.
Rugiada Cadoni è nata a Lecco nel 1977. David Liver è
nato a Le Havre (F) nel 1977. Vivono e lavorano a Milano. |