Ziqqurat n°6
Sommario
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Danilo
Sini
Vuoti a perdere
di Giannella Demuro
Chi non ricorda “Plasmon… per
crescere meglio!”, il ritornello “vitaminico ed energizzante”
che negli anni Sessanta il Carosello nazionale propinava alle
giovani mamme per persuaderle a crescere figli perfetti in un mondo perfetto,
al fianco di padri altrettanto perfetti? Erano gli anni del boom economico,
dello sviluppo industriale, delle innovazioni tecnologiche e dei mass
media, gli anni del benessere e dell’ottimismo, di stabili e sicuri
valori, di futuri mondi possibili colorati di rosa.
Allora era stata la Pop Art a leggere i messaggi molteplici e
disparati di quell’epoca, a registrarne in modo puntuale gli eventi,
ricomponendo le tessere di un puzzle non ancora completo, di una realtà
ancora troppo “presente” per essere adeguatamente decodificata
dai più.
Giganti
dai piedi d’argilla, i miti di quegli anni si sarebbero presto incrinati
negli scontri del Sessantotto e, nel decennio successivo, si sarebbero
definitivamente sgretolati e dissolti sulle barricate delle manifestazioni
di piazza, delle lotte violente e delle ideologie infrante.
La perdita delle illusioni e degli ideali, la scoperta del “tradimento”
(ideologico, politico, sociale, sentimentale, … ma si potrebbe continuare
a lungo) si sa, lascia sempre l’amaro in bocca, induce uno spiacevole
sentimento di smarrimento, di impotenza, di vuoto. Come condannare, allora,
chi, scoprendo che il re è nudo, decide di spogliarsi a sua volta,
di non voler più rispettare regole e di non più procedere
sui binari di codici precostituiti?
E' il Punk. Il rifiuto delle icone, il sovvertimento degli ordini,
la decontestualizzazione dei simboli, la perdita dei significati, l’azzeramento
del senso: Ë la destrutturazione di un reale non adeguato, sostituito
di lÏ a poco da un immaginario “contaminato”, ipertrofico
e onnivoro. Fenomeno musicale (nato verso la metà degli anni Settanta),
ma non solo. Piuttosto, una “filosofia” dell’esistere
e del fare, o meglio, del “non” esistere e del “non”
fare, destinata a “non” morire, a mutare, ad evolversi nelle
tante molteplici e spesso contraddittorie forme che caratterizzano il
paesaggio culturale e artistico del nostro presente.
Quel disagio profondo, quel sentimento di vuoto che si definiva sempre
più chiaramente come malessere esistenziale, Ë stato intuito
più che colto in modo consapevole dalla generazione di artisti
nati nel decennio del “miracolo economico”, poco più
che bambini negli anni Settanta: trattenuto fra le maglie dei ricordi
personali; condiviso nelle immagini che, attraverso la Tv e i mass-media,
diventavano parte della memoria collettiva; vissuto poi, nei primi anni
Ottanta, nell’adesione “militante” alla filosofia nichilista
del fallimento e del rifiuto.
Di quella generazione, che in Italia ha tessuto le trame dello scenario
artistico degli anni Novanta e che oggi traccia le coordinate d’orientamento
per il nuovo millennio, molti hanno, infatti, condiviso quell’esperienza
giovanile, come Marco Cingolani, Pierluigi Pusole, Andrea Chiesi, Torsten
Kirchhoff, idolo punk della scena danese prima del suo arrivo in Italia.
Tra essi anche Danilo Sini, al tempo chitarrista dei PSA, formazione punk
nata in Sardegna nei primi anni Ottanta, unica ad ottenere significativi
riconoscimenti nel circuito nazionale e internazionale.
Il processo di neutralizzazione e azzeramento dei codici e delle categorie,
innescato dal movimento punk, ha modificato radicalmente le modalità
del pensiero e dell’agire, ha dissolto i confini tra “culture”,
ha operato contaminazioni tra linguaggi e ambiti differenti, citando il
passato e accogliendo tutti gli innumerevoli stimoli mediati dal mondo
della comunicazione di massa - pubblicità, videoclip, fumetti,
moda - e ha generato estetiche ibride dove anche il concetto di arte risulta
azzerato, sostituito non da rigide teorizzazioni, ma da un pensiero fluido
e malleabile, coscientemente fragile e precario: poetico tessuto connettivo
tra pratiche differenti di differenti geografie umane.
Distante dall’Arte Povera e dai vari “concettualismi”
degli anni Settanta, cauta nei confronti della Transavanguardia,
di cui tuttavia condivide il procedere “trasversale” e da
cui, cronologicamente, deriva, l’arte di quest’ultimo decennio
si riconosce piuttosto nella Pop Art degli anni Sessanta che,
depredando i codici comunicativi, estetici e sociali di allora, mescolava
i valori della cultura “alta” con le forme della cultura popolare,
creava icone sottraendo “oggetti d’uso” alla mediocrità
del quotidiano, proponeva codici diversi e anticipava quel procedere per
contaminazione del fare artistico che oggi è divenuto pratica codificata
e condivisa.
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Anche la ricerca di Danilo Sini, nata a metà degli anni Ottanta,
fin dalle prime prove che ricordano Warhol e la Pop Art, appare
pervasa da quel malessere e da quel senso di smarrimento e di perdita
che attraversa la gran parte delle ricerche condotte dagli artisti di
quella generazione. Sini interveniva, allora, su vecchi elettrodomestici
degli anni Cinquanta - televisori, radio, asciugacapelli - svuotandoli
dei meccanismi interni e trasformandoli in “icone di se stessi”
mediante l’applicazione di immagini o decorazioni dipinte sulle
loro superfici. Già in questi primi lavori appare, dunque, chiaro
il senso dell’opera di questo artista, anch’egli figlio tradito
e disilluso di quei favolosi anni Sessanta, musicista prima ancora che
artista visivo, che sviluppa la sua poetica intorno ai concetti dell’assenza,
del vuoto, della perdita/privazione.
Poetica
dell’impossibilità, dell’inabilità del fare
e dell’essere, azione che nasce da una lettura del reale e delle
sue molteplici sfaccettature, condotta attraverso il filtro spiazzante,
beffardo e a volte crudele dell’ironia: come dire che solo il disturbo,
la frizione, lo scarto possono consentire un approccio “laterale”,
strategico, per quanto possibile indolore, a contenuti forti e inquietanti.
Ma quali sono questi contenuti? Perchè la realtà appare
così dura da affrontare? La risposta sta, forse, nella diffusa
attitudine individualista di questa generazione, che orienta la prassi
artistica in funzione del proprio io, obbligandosi, quasi, a
cogliere ogni aspetto del reale, esterno o interno che sia, attraverso
la dimensione soggettiva dell’io, una dimensione che la
storia stessa ha più volte “tradito”: nelle
attese, nelle illusioni, nei sogni.
La consapevolezza della caduta delle illusioni, la scoperta della categoria
esistenziale del vuoto, hanno persuaso Danilo Sini dell’inutilità
del fare artistico. Tuttavia, è proprio sul vuoto che
egli conduce la sua ricerca, compiendo incursioni nella vacuità
dei simboli e delle icone dell’immaginario collettivo, e imprigionando
le tante effimere impronte del vuoto con tecniche e linguaggi di volta
in volta differenti: dalla pittura al video, alle installazioni e al fumetto.
Il sentimento del vuoto è ansia impotente in Per andare dove?,
l’opera che Sini ha presentato nel ’96 alla Quadriennale di
Roma. Tre grandi pale centinate, ricoperte di terra, sostengono tre ruote
di sale pressato, mantenute a varie altezze da una corda. L’opera,
apparentemente solida nella sua solenne monumentalità, è,
in realtà, più volte fragile: lo è fisicamente, perchè
i materiali che la compongono sono deperibili per loro natura; lo Ë
nella metafora che incarna: la condizione dell’insularità,
che consente di muoversi e di esistere sulla terra, ma che spietatamente
annienta chi cerca di abbandonarla, come il sale che si scioglie a contatto
con l’acqua; lo è nell’aura sacrale che effonde, simbolo
di una spiritualità che mostra la sua corruttibilità. Ma,
coerentemente con lo spirito del punk, nella poetica di Sini la condizione
di insularità non definisce l’appartenenza ad un luogo specifico,
ma, piuttosto, un’universale assenza esistenziale.
Altre volte, il vuoto Ë semplicemente fisico, come un battito che
cessa per un fuggevole istante, per poi riprendere il suo ritmo usuale.
Ma è quell’assenza di tempo che mostra l’abisso del
nulla. Così, Angeli e Anime (1997) opere realizzate con
pelli di coniglio rivoltate sulle quali l’artista, a volte, innesta
ali di piccione, sono involucri vuoti, ormai inutili, obbligati a ruotare
all’infinito, in una straniante e ipnotica danza.
Le simbologie e le iconografie che ricorrono nel lavoro di Sini sono numerose
e diverse, da quelle universali, archetipi religiosi o mitologici, a altre
di derivazione ideologica o mass-mediale. E, ogni volta, Sini ne svela
il loro aspetto più materiale, evidenziandone le fragilità
intrinseche, svuotandole dei contenuti più profondi, tenendole
in bilico sul baratro dell’annullamento, per offrirle allo sguardo
di chi non può o non vuole vedere.
Tra esse, l’angelo Ë una figura ricorrente, essere
ambiguo la cui identità Ë annullata nella lotta - che può
divenire, suggerisce Sini, complice intesa - tra il male e il
bene. Nella serie delle Situazioni del ’96, figure
di cavalieri, cardinali, creature fantastiche e inquietanti, demoni e
angeli ambigui su tacchi a spillo, dalle lingue guizzanti, sono dipinti
su grandi carte fatte a mano, fragili non-luoghi che svelano come il “potere”
religioso conviva con quello temporale in un mondo popolato da figure
dipinte come ombre bidimensionali, private di spessore, vale a dire, di
un proprio specifico ruolo.
Tutte le operazioni di “svelamento” di Sini, per quanto sostenute
da un cinismo più o
meno evidente, sono condotte sempre con spirito ludico e ironico, come
se l’artista volesse dimostrare, a se stesso ancor prima che agli
altri che, nonostante tutto, in fondo, non bisogna prendersi poi troppo
sul serio.
Con questo spirito, nel ’99 Sini realizza Souvenir, un
intervento di denuncia contro i poteri ideologici e di regime, per il
quale si serve dei simboli stessi di quei poteri che hanno ampiamente
mostrato i loro fallimenti. Contornati da tante piccole ghirlande e cuoricini
colorati, l’artista ha accostato gli ideogrammi della “falce
e martello” e del “fascio littorio”, realizzandoli nella
stessa pasta di mais decorata con tralci di fiori e nastrini dorati per
mostrare la loro inconsistenza, mortificarli e azzerarne il contenuto.
Un lavoro di poco successivo, CCCP, che tratta ancora il tema
della storia e dei suoi simboli, lascia intuire quale sarà l’evoluzione
del lavoro di Sini. Nell’opera, infatti, compare un orsetto in terracotta
rosso, simbolo dell’ex Unione Sovietica, che abbraccia una falce
e martello. Un altro pupazzetto Ë il protagonista di Gli hobbies:
serial killer con vittima, è un coniglietto di peluche rosa
che si prepara ad aggredire con un coltello un coniglietto più
piccolo che tiene in braccio. Anche se apparentemente, la comparsa dei
due “giocattoli” puÚ essere considerata “strumentale”
al lavoro di Sini, il Monumento all’infanzia tradita: crash
test, anch’esso del ’99 - un’automobile incidentata
coperta da un telone bianco attraverso il quale filtra la traccia luminosa
di un gruppo sanguigno - conferma la focalizzazione dell’attuale
ricerca dell’artista sul tema dell’infanzia, un’infanzia,
inutile dirlo, vuota, tradita, assente.
Questa fase della ricerca di Sini coincide con i percorsi di artisti quali
Enrica Borghi, Alex Pinna, Raffaele Piseddu, Antonio Riello, per i quali
la dimensione della soggettività, variamente elaborata, si identifica
con il mondo dell’infanzia, il luogo dove più profondo è
il legame tra immaginario e realtà, dove l’immaginario sembra,
anzi, diviene, più vero e importante della realtà stessa,
fatto, questo, che rende il tradimento delle attese ancora più
doloroso, più sofferto, più difficile da accettare.
Una
riflessione sull’esperienza del tradimento porta Sini, prima, al
ciclo dei Cattivibambinipentiti - immagini forti, germinate,
sembrerebbe, più dall’inconscio che dal pensiero, ritratti
di bambini che nessuno vorrebbe mai vedere, o nei quali nessuno vorrebbe
mai doversi rispecchiare, visi vuoti di cecità dell’anima,
che hanno perduto il sentimento dell’innocenza - poi ai bambinitopolini
di VDUMMD, opera dedicata a Mickey Mouse, icona inossidabile
del nostro tempo e compagno fedele di avventure immaginarie per intere
generazioni di ex-bambini.
Nel titolo VDUMMD- acronimo di Ve Dei Uen Michi Maus Daid, approssimativa
trascrizione fonetica dell’inglese The day when Mickey Mouse
died - sta una delle possibili chiavi di lettura di questo lavoro,
ironico e provocatorio, che celebra la morte di Topolino, evento inequivocabilmente
irreale ma metaforicamente possibile, per ogni adulto che sia stato bambino.
Solenne e al contempo dissacratoria, una teoria di corone commemorative
riporta su nastri rossi le parole che compongono l’acronimo del
titolo, titolo che compare ancora, ripetuto come in un refrain, sui fondi
vuoti dei ritratti: ritratti ad olio, inquietanti e severi, di bambinitopolini
dai lineamenti perfidamente tratteggiati col carboncino, quasi a voler
sottolineare la precarietà di un’identità facilmente
cancellabile, in contrasto con la perenne e straniante immobilità
di uno spazio assente.
Dietro il dolore del tradimento subÏto, dai ritratti di questi bambini-mostri
dallo sguardo smarrito, proiezioni alienate del vivere contemporaneo,
traspare un candore innocente: l’illusione possibile di un mondo
che forse non Ë solo un inaffidabile “vuoto a perdere”.
Danilo Sini Ë nato a Sassari nel 1961. Vive e lavora a Sassari.
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