Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


Ziqqurat n°6
Sommario

Pietrolio

Torbido dietro la tendaPietrolio, Bon-Bon, 2000-2001, installazione, vaselina, resina plastica, dimensione ambiente (particolare)

di Mariolina Cosseddu

Pietrolio non è uno pseudonimo, come qualcuno potrebbe credere. Non è una finzione, un gioco di parole, un mascheramento. È un dato anagrafico più vero di quello registrato nei documenti ufficiali perché, autoimposto, è consapevole espressione di una precisa identità. Che poi Pietrolio possa avere assonanze con il nome di battesimo, questo è solo un caso perché Pietrolio è, prima di tutto, una dichiarazione di poetica. Vischioso, infiammabile, composito, come il miscuglio oleoso a cui si riferisce, Pietrolio è una figura imprendibile, ambiguamente costruita sul doppio e sul moltiplicabile, sull’incerto apparire e sull’immagine di un artista senza “curriculum vitae”.
La sua data di nascita è recente, risale a qualche anno fa, quando scombinava la tranquilla, salottiera compostezza del pubblico presente alle mostre altrui. La sua presenza appena infastidiva le chiacchiere, strappava qualche sorriso, generava curiosità insoddisfatte. Il rituale era solito: pochi minuti per attraversare la solennità dello spazio con gli stessi immancabili attributi: bicicletta cromata tipo “graziella”, abbigliamento nero totale con maschera sadomaso, piccoli riquadri appesi sulle spalle. Segno di quel veloce passaggio, le stampe fotografiche su polaroid in cui erano stati trascritti i dati delle opere e le loro riproduzioni sottratte alla vista nelle apparizioni precedenti ma che acquistavano, così, un’organica quanto ironica versione di mostra itinerante. Quella serie, dedicata ai Fachiri, si componeva di figure deformi dalla testa gigantesca e ciondolante, intente a pratiche dolorose di tipo sessuale. Il linguaggio fumettistico toglieva drammaticità all’evento e trasformava gli improbabili sacerdoti della tolleranza fisica in irreali e grotteschi personaggi di dubbia moralità. La teatralità del dolore e la sacralità delle pratiche sessuali si annunciavano già da allora come i nuclei tematici prediletti dal giovane artista.
Ma un giorno le imprevedibili scorribande sono cessate: è avvenuta la metamorfosi che ha trasformato Pietrolio nell’autore di opere leggibili come tali e compostamente comparse nella saletta Tettamanzi del bar Majore a Nuoro. Bon Bon, edulcorante titolo per una cinica e perturbante sacra rappresentazione, offriva lo sconcerto di un piccolo teatro dell’assurdo. Nell’atmosfera blu cobalto prendevano vita i personaggi di un presepe scompaginato nelle certezze affettive tra madre e figlio, tra angeli osannanti, tra presenze apparentemente incongrue e illogiche. Al centro della stanza un girello-giaciglio e, su una parete, la farneticante lettera al pubblico scritta da Maria Regina, madre di  Pietrolio, Fachiro, 2000, grafite, china, acquarello su carta, 35 x 29 cmPietrolio, da una clinica psichiatrica. La follia degli accostamenti e delle relazioni si scioglieva, a ben guardare, nell’inusitato binomio sacralità-infanzia. La sacra famiglia rivelava l’angoscia dell’incomunicabilità degli sguardi e delle pose, il girello regrediva il tempo alla giocosità infantile, privata, evidentemente, della magia di un evento senza incanto, mentre il delirio di Maria Regina rimandava al più viscerale dei rapporti: quello tra madre e figlio, falsamente stucchevole nella tradizione religiosa, pieno di insidie e torbidamente attuato nell’esistenza comune. Le piccole statuine, poi, simboli di per sé di una religiosità popolare, superstiziosa e feticistica, ricoperte di viscida e gelatinosa vaselina, lasciavano invischiare, come carta moschicida, turpi inquietudini o disagi della mente.
Il registro cinico che Bon Bon metteva in scena appariva già l’autodifesa personale contro i rischi della banalità e dell’omologazione ma anche la più scoperta delle pratiche emozionali contro impronunciabili dolori. Così, a Berchidda, Pietrolio interpreta il mito di Orfeo da un’angolazione anomala e disorientante ma, ancora una volta, satura di echi che si incagliano e si fondono in una visione insidiosa del mito. L’installazione trasformava l’ambiente in una sorta di tempio dove si annidano oscuri segreti e allarmanti riti iniziatici. Alle pareti armi-giocattolo e l’immagine di fanciulli ambiguamente svestiti e sorridenti mentre da una pesante tenda fuoriusciva un paio di scarpe. Tema della rappresentazione è dunque l’enigma, vale a dire l’interpretazione del mito come enigma e la certezza del più sconcertante degli enigmi: la perdita, di cui Orfeo è appunto simbolo. Nella visione di Pietrolio la perdita equivale al passaggio dall’infanzia all’età matura, dove innocenza e perdizione si sovrappongono e dove si confondono pulsioni di vita e di morte. Rimane sempre, infatti, nella costruzione del teatro degli accadimenti di Pietrolio, una dimensione arcana, oscura e quasi sinistra che mette in discussione i rapporti tra gli oggetti e fa saltare i circuiti comunicativi. È proprio questa pericolosa affascinazione del non detto o del non dicibile, la più attraente delle tracce disseminate da Pietrolio, quella che lascia aperta la porta ad una eventuale aggiunta di significato. In realtà il suo lavoro mi appare, oggi, simile a quello che, nella pratica letteraria si chiama “mise en abyme”, vale a dire l’inserimento, in un testo, di un inserto narrativo che, celato nel cuore della rappresentazione, condensa l’intera vicenda svelando così le carte e le regole del gioco. Si tratta, ovviamente, di andare a scoprire dove si annida quell’intrigante gusto dell’occultamento, e di cui il ricorso al tema della tenda è metafora esplicita.
Pietrolio, Carillon, 2001, installazione, olio e acrilico su tavola, legno, broccato, sound design, tappeto, torcia dimensione ambiente (particolare)Figura centrale del lavoro di Pietrolio sembra essere quella che, nelle sembianze pittoriche di un bambino, prende il nome di “follicolo”. Poco umani e molto inquietanti i bambini-follicolo possono essere letti come lo specchio di una possibile autobiografia. Ammiccanti e seduttivi, angelici e giocosi, mescolano tenerezza e sottile perversione mentre cercano un contatto esplicito con l’osservatore. Eseguiti con sapiente e addestrata manualità, rivelano ricercatezza cromatica e luministica e non lasciano, neanche per un attimo, indifferenti. Le forme piene di una fanciullezza appena sbocciata, i volti non ancora definiti da una sicura identità, indossano sbottonati reggiseni, maliziose mascherine o contraddittori tutù. Insistenti e pruriginosi come follicoli, appunto, rivelano una duplice natura: incarnita sotto pelle fuoriesce in superficie solo l’emergenza fastidiosa che può nascondere sacche di umori e pulsioni facilmente infiammabili. Sono le rappresentazioni, in forma allegorica, di insidiose turbolenze di cui bisogna, prima o poi, disfarsi o le più tenaci aderenze ad uno di stato di infantile innocenza, già corrosa dalla crudeltà del vivere?
Pietrolio, Nolimetangere, 2001, installazione, olio e acrilico su tavola, legno, conigli di pezza, pavimento di peluche nero, dimensione ambiente (particolare) In Nolimetangere, al Man Ray di Cagliari, Pietrolio gioca ancora la carta della mescolanza dei generi come pratica di accumulo di significati: pittura, installazione, figura umana vivente si coniugano in una messa in scena satura di allusive suggestioni che aleggiano nella stanza-camera mortuaria. Nel feretro si espone il simulacro pittorico di un bambino, protetto da una lastra trasparente che rende l’immagine sacra e inviolabile perché già violata nel corpo che mostra i segni della malvagità. Si riaffaccia, ossessivo, il tema della perdita, di quell’inconciliabilità tra lo stato di grazia dei volti e la corruzione del corpo, che, in questo caso, celebra definitivamente la morte di un’infanzia innocente. Ma la rappresentazione sorprende, rimette in gioco i dolori e le sensazioni, le certezze e i dubbi e, ai piedi della bara, un gruppo di conigli di peluche traina il feretro luminoso. Così, il “follicolo” adagiato nella teca e vagamente sorridente, mentre ostenta le ferite di una catena che lo teneva per la caviglia, rivela il pretesto narrativo della favola di Pinocchio offerta agli sguardi di un certo “voyeurismo”. E la asettica signorina in turchino che distribuisce biglietti gratuiti agli ignari spettatori ci introduce in una storia severamente vietata ai minori.
Questa realtà corrosa e corrosiva che si trascina dietro uno strascico di voci sommesse e insidiose, che neppure il linguaggio barocco con cui Pietrolio organizza la rappresentazione riesce a dissipare, è, a guardarla bene, assimilabile a ciò che Jean Baudrillard chiama la “scena del desiderio” o “scena dell’illusione”, quella che trasforma la pornografia dilagante del contemporaneo in sensibilissima operazione poetica. Perciò occorrerà stare bene attenti a come si guarda perché il teatro di Pietrolio è, per molti versi, vicino a quanto Gino De Dominicis diceva del proprio lavoro: “è il pubblico che si espone all’opera, non viceversa”.

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