Ziqqurat n°6
Sommario
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Pietrolio
Torbido
dietro la tenda |
di
Mariolina Cosseddu |
Pietrolio
non è uno pseudonimo, come qualcuno potrebbe credere. Non è
una finzione, un gioco di parole, un mascheramento. È un dato anagrafico
più vero di quello registrato nei documenti ufficiali perché,
autoimposto, è consapevole espressione di una precisa identità.
Che poi Pietrolio possa avere assonanze con il nome di battesimo, questo
è solo un caso perché Pietrolio è, prima di tutto,
una dichiarazione di poetica. Vischioso, infiammabile, composito, come
il miscuglio oleoso a cui si riferisce, Pietrolio è una figura
imprendibile, ambiguamente costruita sul doppio e sul moltiplicabile,
sull’incerto apparire e sull’immagine di un artista senza
“curriculum vitae”.
La sua data di nascita è recente, risale a qualche anno fa, quando
scombinava la tranquilla, salottiera compostezza del pubblico presente
alle mostre altrui. La sua presenza appena infastidiva le chiacchiere,
strappava qualche sorriso, generava curiosità insoddisfatte. Il
rituale era solito: pochi minuti per attraversare la solennità
dello spazio con gli stessi immancabili attributi: bicicletta cromata
tipo “graziella”, abbigliamento nero totale con maschera sadomaso,
piccoli riquadri appesi sulle spalle. Segno di quel veloce passaggio,
le stampe fotografiche su polaroid in cui erano stati trascritti i dati
delle opere e le loro riproduzioni sottratte alla vista nelle apparizioni
precedenti ma che acquistavano, così, un’organica quanto
ironica versione di mostra itinerante. Quella serie, dedicata ai Fachiri,
si componeva di figure deformi dalla testa gigantesca e ciondolante, intente
a pratiche dolorose di tipo sessuale. Il linguaggio fumettistico toglieva
drammaticità all’evento e trasformava gli improbabili sacerdoti
della tolleranza fisica in irreali e grotteschi personaggi di dubbia moralità.
La teatralità del dolore e la sacralità delle pratiche sessuali
si annunciavano già da allora come i nuclei tematici prediletti
dal giovane artista.
Ma un giorno le imprevedibili scorribande sono cessate: è avvenuta
la metamorfosi che ha trasformato Pietrolio nell’autore di opere
leggibili come tali e compostamente comparse nella saletta Tettamanzi
del bar Majore a Nuoro. Bon Bon, edulcorante titolo per una cinica
e perturbante sacra rappresentazione, offriva lo sconcerto di un piccolo
teatro dell’assurdo. Nell’atmosfera blu cobalto prendevano
vita i personaggi di un presepe scompaginato nelle certezze affettive
tra madre e figlio, tra angeli osannanti, tra presenze apparentemente
incongrue e illogiche. Al centro della stanza un girello-giaciglio e,
su una parete, la farneticante lettera al pubblico scritta da Maria Regina,
madre di Pietrolio,
da una clinica psichiatrica. La follia degli accostamenti e delle relazioni
si scioglieva, a ben guardare, nell’inusitato binomio sacralità-infanzia.
La sacra famiglia rivelava l’angoscia dell’incomunicabilità
degli sguardi e delle pose, il girello regrediva il tempo alla giocosità
infantile, privata, evidentemente, della magia di un evento senza incanto,
mentre il delirio di Maria Regina rimandava al più viscerale dei
rapporti: quello tra madre e figlio, falsamente stucchevole nella tradizione
religiosa, pieno di insidie e torbidamente attuato nell’esistenza
comune. Le piccole statuine, poi, simboli di per sé di una religiosità
popolare, superstiziosa e feticistica, ricoperte di viscida e gelatinosa
vaselina, lasciavano invischiare, come carta moschicida, turpi inquietudini
o disagi della mente.
Il registro cinico che Bon Bon metteva in scena appariva già
l’autodifesa personale contro i rischi della banalità e dell’omologazione
ma anche la più scoperta delle pratiche emozionali contro impronunciabili
dolori. Così, a Berchidda, Pietrolio interpreta il mito di Orfeo
da un’angolazione anomala e disorientante ma, ancora una volta,
satura di echi che si incagliano e si fondono in una visione insidiosa
del mito. L’installazione trasformava l’ambiente in una sorta
di tempio dove si annidano oscuri segreti e allarmanti riti iniziatici.
Alle pareti armi-giocattolo e l’immagine di fanciulli ambiguamente
svestiti e sorridenti mentre da una pesante tenda fuoriusciva un paio
di scarpe. Tema della rappresentazione è dunque l’enigma,
vale a dire l’interpretazione del mito come enigma e la certezza
del più sconcertante degli enigmi: la perdita, di cui Orfeo è
appunto simbolo. Nella visione di Pietrolio la perdita equivale al passaggio
dall’infanzia all’età matura, dove innocenza e perdizione
si sovrappongono e dove si confondono pulsioni di vita e di morte. Rimane
sempre, infatti, nella costruzione del teatro degli accadimenti di Pietrolio,
una dimensione arcana, oscura e quasi sinistra che mette in discussione
i rapporti tra gli oggetti e fa saltare i circuiti comunicativi. È
proprio questa pericolosa affascinazione del non detto o del non dicibile,
la più attraente delle tracce disseminate da Pietrolio, quella
che lascia aperta la porta ad una eventuale aggiunta di significato. In
realtà il suo lavoro mi appare, oggi, simile a quello che, nella
pratica letteraria si chiama “mise en abyme”, vale a dire
l’inserimento, in un testo, di un inserto narrativo che, celato
nel cuore della rappresentazione, condensa l’intera vicenda svelando
così le carte e le regole del gioco. Si tratta, ovviamente, di
andare a scoprire dove si annida quell’intrigante gusto dell’occultamento,
e di cui il ricorso al tema della tenda è metafora esplicita.
Figura
centrale del lavoro di Pietrolio sembra essere quella che, nelle sembianze
pittoriche di un bambino, prende il nome di “follicolo”. Poco
umani e molto inquietanti i bambini-follicolo possono essere letti come
lo specchio di una possibile autobiografia. Ammiccanti e seduttivi, angelici
e giocosi, mescolano tenerezza e sottile perversione mentre cercano un
contatto esplicito con l’osservatore. Eseguiti con sapiente e addestrata
manualità, rivelano ricercatezza cromatica e luministica e non
lasciano, neanche per un attimo, indifferenti. Le forme piene di una fanciullezza
appena sbocciata, i volti non ancora definiti da una sicura identità,
indossano sbottonati reggiseni, maliziose mascherine o contraddittori
tutù. Insistenti e pruriginosi come follicoli, appunto, rivelano
una duplice natura: incarnita sotto pelle fuoriesce in superficie solo
l’emergenza fastidiosa che può nascondere sacche di umori
e pulsioni facilmente infiammabili. Sono le rappresentazioni, in forma
allegorica, di insidiose turbolenze di cui bisogna, prima o poi, disfarsi
o le più tenaci aderenze ad uno di stato di infantile innocenza,
già corrosa dalla crudeltà del vivere?
In Nolimetangere, al Man Ray di Cagliari, Pietrolio gioca ancora
la carta della mescolanza dei generi come pratica di accumulo di significati:
pittura, installazione, figura umana vivente si coniugano in una messa
in scena satura di allusive suggestioni che aleggiano nella stanza-camera
mortuaria. Nel feretro si espone il simulacro pittorico di un bambino,
protetto da una lastra trasparente che rende l’immagine sacra e
inviolabile perché già violata nel corpo che mostra i segni
della malvagità. Si riaffaccia, ossessivo, il tema della perdita,
di quell’inconciliabilità tra lo stato di grazia dei volti
e la corruzione del corpo, che, in questo caso, celebra definitivamente
la morte di un’infanzia innocente. Ma la rappresentazione sorprende,
rimette in gioco i dolori e le sensazioni, le certezze e i dubbi e, ai
piedi della bara, un gruppo di conigli di peluche traina il feretro luminoso.
Così, il “follicolo” adagiato nella teca e vagamente
sorridente, mentre ostenta le ferite di una catena che lo teneva per la
caviglia, rivela il pretesto narrativo della favola di Pinocchio offerta
agli sguardi di un certo “voyeurismo”. E la asettica signorina
in turchino che distribuisce biglietti gratuiti agli ignari spettatori
ci introduce in una storia severamente vietata ai minori.
Questa realtà corrosa e corrosiva che si trascina dietro uno strascico
di voci sommesse e insidiose, che neppure il linguaggio barocco con cui
Pietrolio organizza la rappresentazione riesce a dissipare, è,
a guardarla bene, assimilabile a ciò che Jean Baudrillard chiama
la “scena del desiderio” o “scena dell’illusione”,
quella che trasforma la pornografia dilagante del contemporaneo in sensibilissima
operazione poetica. Perciò occorrerà stare bene attenti
a come si guarda perché il teatro di Pietrolio è, per molti
versi, vicino a quanto Gino De Dominicis diceva del proprio lavoro: “è
il pubblico che si espone all’opera, non viceversa”.
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