Ziqqurat n°6
Sommario
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Dialogo
tra uguali
di Beral Madra
L’emergere dell’arte contemporanea
in Turchia è la conseguenza di un processo di occidentalizzazione
e internazionalizzazione, chiamato generalmente modernizzazione,
che dura da 150 anni. Nonostante la sua vitalità nei confronti
della cultura moderna, prima e dopo la seconda guerra mondiale la Turchia
è rimasta sostanzialmente isolata dalla scena artistica internazionale.
Durante il periodo della guerra fredda gli istituti culturali di diversi
paesi, quali il British Council, il Goethe Institute, l’AFAA etc.,
organizzavano di tanto in tanto delle mostre che riflettevano la loro
politica culturale nei confronti dei paesi in via di sviluppo.
Gli artisti ed il pubblico turchi non entrarono realmente in contatto
con gli ultimi movimenti moderni degli anni ’60 e ’70, né
con i primi sviluppi postmoderni, sino alla metà degli anni ’80.
Questo contesto di isolamento mutò nel 1983, subito dopo l’espansione
dell’economia liberale. Privati ed aziende iniziarono ad interessarsi
al mercato dell’arte e ad aprire gallerie. E fu allora che il contatto
con la scena internazionale divenne, per gli artisti, un obiettivo da
raggiungere. Negli anni ’90, col vento forte della globalizzazione,
gli stessi paesi occidentali iniziarono ad accorgersi delle differenti
modernità dei paesi non-occidentali.
Oggi, il mondo occidentale sta prendendo coscienza della sempre più
consistente influenza degli artisti delle aree post-periferiche (prima
chiamate “paesi del terzo mondo”) sul proprio sviluppo artistico
e culturale, vedendo che a causa della vasta immigrazione (ed esilio)
dall’est all’ovest, e dal sud al nord, questi artisti, così
come le loro comunità, vivono ed operano ormai nelle città
dell’occidente. Aldilà di questo, le politiche economiche
globali hanno un considerevole effetto sulle politiche culturali, imponendo
un nuovo dialogo fra le aree centrali e quelle post-periferiche.
Il cambiamento nella natura dell’immigrazione, dalla cosiddetta
periferia ai centri della modernità, è una delle più
importanti trasformazioni degli ultimi due decenni, che ha consentito
ai cosiddetti “paesi in via di sviluppo” della guerra fredda
di dare vita ad uno scambio culturale locale e globale. Storicamente,
l’emigrazione fu per lo più un atto obbligato, poiché
si lasciava la madrepatria per ragioni di volta in volta politiche, economiche
o di religione. L’emigrato era un esule. Villem Flusser, nel suo
libro Libertà dell’emigrato,
fa alcune interessanti considerazioni sull’esule, quando dice che
“l’esule o è sradicato o è stato strappato all’ambiente
nel quale era uso vivere; niente gli è familiare; è un oceano
colmo di informazioni caotiche; il luogo di esilio è un ambiente
nel quale l’individuo esiliato si sente straniero”. Secondo
Flusser “prima di stabilizzarsi, l’esule/emigrato deve trasformare
questa confusione di dati in messaggi significanti. Questo - egli dice
- è vitale, perché se i dati non venissero elaborati, l’individuo
verrebbe inghiottito dalle onde dell’esilio”. Flusser sostiene
che “l’elaborazione dei dati equivale ad un atto creativo.
Per difendere se stesso dall’annullamento, l’individuo deve,
cioè, creare”.
Anche se, naturalmente, esistono ancora esuli per motivi politici o economici,
il viaggio e l’emigrazione sono oggi diventate scelte vitali. In
entrambi i casi la creatività bi-culturale delineata da
Flusser, risulta essere l’istanza centrale del recente innesto culturale.
Se le condizioni nel paese natale sono statiche, se falliscono nello sfidare
l’artista a evolversi in nuove direzioni, esso o essa, comunque,
trova la sua strada all’interno di un’altra cultura. Questo
non è un movimento unidirezionale; anche gli artisti occidentali
vivono questa mobilità. Oggi l’artista ha l’opportunità
di cercare altri orizzonti per alimentare il processo creativo. Per cui,
i limiti tradizionali, siano essi di natura religiosa o politica, hanno
ormai perso il proprio potere. Ciò ha mutato la creazione come
atto di difesa di Flusser in un atto di affermazione e di scoperta.
Questo mutamento, da solo, ha dato agli artisti la forza di abbracciare
il proprio status bi-culturale, dando, per così dire, corpo e voce
alle intersezioni di una rete di relazioni.
L’identità bi-culturale incarna un’identità
flessibile, e questa grande flessibilità può essere una
sfida alle nozioni conservatrici. La gente è conservatrice perché
ha timore del cambiamento ma, allo stesso tempo, nutre una segreta ammirazione
per chi, invece, è capace di realizzare dei cambiamenti nella propria
vita. Se il discorso eurocentrico è una delle grandi favole del
conservatorismo, la relazione con l’emigrato diviene estremamente
ambigua, nel senso che egli è visto come un pericolo ed un canale
d’accesso della diversità. Gli emigrati, alcuni dei quali
provengono da paesi con regimi autoritari dove non hanno possibilità
di evolversi, arrivano per conoscere e fare esperienza delle democrazie
occidentali. Gli abitanti e gli emigrati giocano i propri ruoli all’interno
di questa dicotomia. Gli uni si mescolano agli altri, si nutrono l’uno
dell’altro, e noi sappiamo che solo lo sviluppo di un dialogo fra
eguali è positivo.
L’arte
in un differente contesto religioso
Qui è necessario prendere coscienza del fatto che la post-periferia
non è un’entità omogenea. All’interno di questa
post-periferia così eterogenea, i paesi islamici offrono, nelle
mostre, gli incontri artistici più interessanti. La posizione dei
paesi islamici nel dibattito contemporaneo è paradossale, ma molto
interessante, dato che, in questi paesi, gli artisti compiono grandi sforzi
per trovare il modo di distanziarsi sia dai dettami della tradizione religiosa
che, per quanto possibile, dal panorama commerciale/mediatico contemporaneo.
Allo stesso tempo, questi paesi hanno tutti un retroterra culturale molto
fertile per la creatività, anche se con le restrizioni che la stessa
tradizione impone. È come un luogo magico dove tutti gli artisti
vorrebbero andare per trovare un catalizzatore.
Questi artisti, abituati a lavorare fra restrizioni e impedimenti, possono
portare la loro speciale sensibilità fuori da quei contesti, tra
le istanze del mondo attuale. Se accettiamo questo come dato di fatto,
dovremmo anche riconoscere che i paesi non-occidentali hanno bisogno dei
loro artisti, che potrebbero offrire punti di vista alternativi e contrapposti
al pensiero fondamentalista e polarizzante dei loro governi. L’arte
può comunicare quest’apertura mentale al pubblico, senza
spingerlo a perdere la sua identità, e può mostrare la via
d’uscita dalla palude del fondamentalismo e della polarizzazione.
Le metafore, rappresentate nelle opere d’arte, colmano le distanze
fra discorsi polarizzati, creano intersezioni nella rete delle ideologie.
Così, per la Turchia, toccata solo superficialmente dal fondamentalismo
durante gli anni ’90, anche l’atteggiamento mentale progressista
profondamente radicato nelle moderne strutture statali della nazione moderna
non ha rappresentato una soluzione. Comunque, il pensiero metaforico e
la creatività manifestati nelle opere d’arte contemporanea
esposte in numerose mostre durante gli anni ’90 hanno aperto la
strada alle giovani generazioni, che rischiavano di smarrirsi.
Recentemente ho avuto l’opportunità di esplorare la scena
artistica in Egitto, Libano, Indonesia, Azerbaijan ecc. L’ovvia
distanza fra le pratiche ed i dogmi della religione e la produzione artistica
è in aumento. Gli artisti di oggi non tengono in alcun conto le
regole tradizionali della creatività artistica, come facevano invece
gli artisti delle generazioni precedenti che, sapendo che diversamente
sarebbero stati disapprovati, auto-limitavano seppure con riluttanza la
loro produzione all’interno dei canoni artistici tradizionali. Paradossalmente,
la maggior parte delle strutture burocratiche moderne (musei d’arte
moderna, istituzioni, ministeri della cultura, concorsi) continuano ad
incentivare il sistema restrittivo e fuorviante di un tempo. Il risultato
è che l’arte contemporanea costituisce uno dei pochi spazi
democratici di discussione all’interno del panorama politico e culturale.
L’arte arbitra efficacemente fra gli argomenti dogmatici di una
falsa interpretazione dell’Islam ed il dibattito intellettuale contemporaneo.
L’arte si sforza di essere la membrana permeabile attraverso la
quale questi due aspetti possono essere mediati, filtrati. Senza dubbio,
anche in Turchia, questa appare come una delle poche aree dove la distanza
tra questi due universi linguistici estremamente polarizzati può
iniziare ad essere colmata.
Il fenomeno interessante in Turchia, e verosimilmente anche in altri paesi
post-periferici, è che l’arte può oggi esercitare
molta più influenza, sia in negativo che in positivo, dato che
la cultura moderna è stata imposta alla gente come parte del progresso
del moderno stato nazionale ed è stata accettata come uno degli
intoccabili pilastri della modernità. Comunque, questa naïveté,
apparentemente, consente agli artisti di essere ricettivi nei confronti
di qualunque cosa, inclusi i dogmi religiosi, i regimi repressivi e le
cattive politiche economiche. Proprio per questo l’arte post-moderna,
spietata per le immagini e l’indagine critica, attrae in quanto
elemento di resistenza, ma allo stesso tempo è inaccettabile.
Questa naïveté include anche il concetto di comunicazione,
riscontrabile nella sensibilità del villaggio, dove ognuno è
in relazione e responsabile per l’altro. Di conseguenza la gente
vive con la “coscienza del villaggio” persino ad Istanbul,
megalopoli del Medio Oriente. Per quanto possa apparire strano, il villaggio
globale si manifesta per le strade di Istanbul e anche gli artisti sono
coinvolti da questo fenomeno.
Questa comunicazione è importante in un contesto artistico, perché
ritengo sia strettamente intrecciata con una percezione alternativa del
tempo. Per chiarire: l’occidente misura il tempo che resta dall’oggi
alla fine del mondo, sia essa di natura religiosa (il Giorno del Giudizio),
o scientifica (l’incubo nucleare). Quest’orizzonte si presta
al ritmo frenetico ed all’alienazione così comuni nei paesi
occidentali. Il tempo, nei paesi non-occidentali, è invece ancora
in relazione con l’eterno, a sua volta legato al sublime. Il concetto
di sublime che Nietzsche ed altri filosofi occidentali hanno analizzato
è intrinseco a molti sistemi filosofici non-occidentali. Le opere
degli artisti che non hanno contatti frequenti con l’occidente e
con le tendenze internazionali, riflettono questa visione del sublime.
Bisogna tener conto del fatto che in differenti contesti religiosi
le istanze contemporanee sono esplorate con uno spirito differente, con
una diversa concezione del tempo.
L’arte
in Turchia a partire dagli anni ’90
Se il post-moderno ha aperto le porte della Turchia, la Biennale di Istanbul
del 1986 le ha spalancate. La Biennale è stata la prima opportunità
di interagire con importanti critici e curatori europei. Per la Turchia,
come per tutti i paesi in via di sviluppo, questa interazione è
essenziale per instaurare relazioni a livello interpersonale, permettendo
la de-mistificazione dell’altro. Ad un livello pratico,
questo ha lentamente portato curatori e critici in Turchia per esplorare
la risposta degli artisti al discorso post-moderno. L’impatto dell’accelerarsi
delle relazioni fra la scena artistica di Istanbul ed i centri internazionali,
ad esempio le 25 esposizioni internazionali da me curate dal 1987, è
stato fruttuoso nell’equilibrare questo scambio. Questa esplorazione,
però, per un certo periodo è stata molto simile alla ricerca
di esotismo, che spingeva gli stranieri in Turchia durante il periodo
imperiale e coloniale della storia europea. Inconsciamente, arrivavano
spinti da una sorta di nuovo-orientalismo, ma rimanevano stupiti nello
scoprire quanto Istanbul fosse una palude troppo profonda di distopia,
etero-topia e bi-topia per addentrarcisi. Soltanto adesso, forse, dopo
sette biennali ed una dozzina di esposizioni in sedi europee, lo scambio
è divenuto più professionale e razionale.
Non si possono rimproverare i curatori stranieri che invitano alle loro
esposizioni artisti turchi, se il più delle volte sbagliano le
loro scelte. Il portfolio della maggior parte degli artisti è colmo
di opere dalle tecniche più svariate (quando non si tratta di dipinti,
disegni, oggetti, fotografie, video e installazioni) e dai più
svariati orientamenti. L’intricata situazione politica, economica
e culturale della regione (Medio Oriente e Mediterraneo Orientale) ha
creato artisti assai frenetici, che si sentono obbligati a confrontarsi
con ogni sorta di complessità, tipica ed atipica, allo stesso tempo.
Le idee ed i temi attuali, ma anche gli approcci critici al sistema ed
al mercato dell’arte locale ed internazionale, l’osservazione
e l’indagine dei conflitti sociali, l’esplorazione della cultura
tradizionale, la rigenerazione della cultura underground, la
riproduzione di prodotti di consumo, e l’uso del corpo e dello sguardo,
sono stati articolati in una varietà di dipinti, fotografie e immagini,
video, tecniche miste ed installazioni ready-made. Artisti giovani
e della generazione di mezzo, che rappresentano oggi il meglio della scena
artistica locale, probabilmente hanno assunto posizioni un po’ contraddittorie:
anche se esiste una propensione alla responsabilità sociale, alla
coerenza, alla moralità, al coinvolgimento emotivo e politico,
le giovani generazioni tendono a nascondere tutto questo dietro una tendenza
all’autoaffermazione, al distacco e al cinismo, mentre proprio su
queste tematiche ha basato la propria identità la generazione precedente.
All’attuale ed inevitabile sentimento di vuoto e di indeterminatezza
- che colpisce tutti - le giovani generazioni rispondono con la leggerezza
e l’effimero, cosa che non succedeva affatto nelle opere degli anni
’80 e dei primi ’90, cariche di un tono grave e risoluto.
Negli anni ’90, più ancora che negli anni ’80, gli
artisti prendono coscienza del fatto che, per far procedere il cammino
delle arti, dovevano liberarle dal conformismo moderno, dalla stagnante
educazione artistica e dalle politiche culturali ufficiali. L’interesse
di alcune gallerie (BM Contemporary Art Center, Maçka Sanat Galerisi,
Gallery Nev, Urart Art Gallery ed occasionalmente le Gallerie Associate
come Aksanat, Yapi ve Kredi e Garantibank) per l’arte contemporanea
ed una serie di esposizioni collettive indipendenti, organizzate più
che curate da curatori “part-time” e dalle università
e realizzate in spazi alternativi, hanno aiutato la giovane generazione
a far conoscere le proprie posizioni e le proprie idee. L’energia
creativa si è espressa in vari aspetti della quotidianità,
nella cultura popolare, nel patrimonio d’immagini della televisione
e degli altri media, nelle installazioni e nelle performance. La rappresentazione
del quotidiano e del superficiale rende l’opera d’arte vulnerabile
all’atto della lettura, anche se si presenta sotto forma di metafora
o allegoria. Diventa difficile riconoscere al suo interno l’ideologia,
la posizione ed i capisaldi dell’artista. Lentamente ma inesorabilmente
la galleria è diventato una sorta di “campo da gioco”
o di “palcoscenico”; l’aspetto di puro intrattenimento
è stato accentuato maggiormente, mentre i lavori artistici più
delicati e discreti hanno perso la propria validità.
In un paese dominato dagli uomini esiste poi anche un movimento sotterraneo
di liberazione dalla dominazione maschile. Le artiste donne rivendicano
le proprie posizioni accentuando la loro “alterità”
attraverso una complessa investigazione su se stesse e sul mondo. Nello
spazio espositivo da loro stesse creato ad Istanbul, sin dalla metà
degli anni ’80, hanno messo in mostra ogni sorta d’immagine
riferibile all’uso ed all’abuso del corpo femminile, alla
maternità, al pregiudizio sessuale, agli stereotipi del femminile
ed alla schiavitù quotidiana della donna.
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Non bisogna, però, lasciarsi trarre in inganno dal numero di opere
e di mostre realizzate; il pubblico sta lentamente abituandosi a queste
trasformazioni, soprattutto grazie alle sette Biennali di Istanbul tenutesi
dal 1987. Infatti, nonostante la Biennale di Istanbul sia stata istituita
con l’intento di creare nuove relazioni con la scena artistica internazionale,
essa è stata anche il solo modo di rendere il pubblico cosciente
della significatività globale della produzione artistica contemporanea.
Durante le prime due Biennali, fu presentata con opere significative una
sezione trasversale dei tre decenni trascorsi tra Arte Povera, Arte Minimale
e Nuovo Espressionismo. Le ultime quattro Biennali, curate da René
Block, Roza Martinez, Paolo Colombo e Yuko Hasegawa, hanno essenzialmente
presentato gli esiti post-moderni degli anni ’90, che hanno poi
ruotato da una grande esposizione all’altra.
Nel complesso, la Biennale è concepita per aprire un dibattito
o per creare una piattaforma di discussione a livello sia internazionale
che locale, e per spronare gli artisti locali ed internazionali a produrre
opere di rilievo. Nell’insieme, la Biennale di Istanbul è
senz’altro servita a questo scopo, ma è fallita in quello
di allargare il campo di visione anche ai paesi ad est della Turchia.
I curatori, pur avendo tempo a sufficienza per esplorare non solo la scena
artistica di Istanbul ma anche la regione attorno ad Istanbul, poiché
la megalopoli ha le sue precise responsabilità geo-politiche e
culturali anche nei confronti delle scene artistiche dei paesi vicini,
hanno tuttavia deciso di non impiegare il loro tempo in questa direzione.
Se Istanbul è un luogo di passaggio fra Oriente ed Occidente, o
fra Sud e Nord, questa sua posizione avrebbe dovuto essere valutata nella
sua totalità. È prevedibile che la Biennale di Istanbul
non avrebbe allora importato paradigmi eurocentrici datati, ma avrebbe
creato un suo modello autentico, nativo, interattivo e visionario, per
rispondere alle istanze degli artisti post-periferici. Purtroppo, invece,
siamo stati testimoni del fatto che i curatori invitati sono stati riluttanti
o troppo sofisticati per stabilire contatti ideologici e collaborativi
con la scena artistica locale. C’è una linea sottile fra
l’importanza di una biennale e la sua funzione pubblica. Una biennale
è una realtà articolata, dotata di una propria struttura
teoretico-ideologica. I modelli cui siamo legati, hanno una forte identità
ideologica e implicazioni culturali vaste e imprescindibili. D’altro
canto, una biennale deve attirare l’interesse del pubblico, che
è legato allo “svago” ed alla “cultura popolare”.
Combinare questi due aspetti diventa abbastanza problematico. È
evidente che la Biennale di Istanbul ha sacrificato le componenti più
profonde sull’altare della notorietà; questo può essere
facilmente verificato dando un’occhiata ai cataloghi, nei quali
è difficile rintracciare un singolo testo che renda conto del disordinato
ambiente di Istanbul e che preveda o spieghi le soluzioni pratiche e teoriche.
A mio giudizio, la Biennale di Istanbul potrà assumere un’importanza
all’interno del contesto delle esposizioni internazionali solo nel
momento in cui sarà capace di raccogliere idee, fatti e figure
per una “ri-scrittura della storia dell’arte”, cosa
assolutamente indispensabile per il prossimo futuro. Non ci si può
aspettare da un curatore occidentale che cambi la sua identità
ed agisca come un curatore non-occidentale, ma ci si può aspettare
che presenti una piattaforma di dibattito comune, per l’occidente
e per il non-occidente.
Beral Madra è curatore e critico d’arte. Vive e lavora
a Instanbul.
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