Ziqqurat n°6
Sommario
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teoria della
percezione
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intervista a
Tonino Casula |
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di
Maria Dolores Picciau |
M.D.P.: È passato
molto tempo dai tuoi esordi. Cosa ricordi di quel periodo?
T.C.: Ricordo il mio primo disegno sul quale avevo rappresentato
una nave vista dall’alto senza la linea dell’orizzonte mentre
il mare avvolgeva completamente tutto lo spazio. Amavo guardare le immagini
che mio padre fotografo scattava e ogni tanto abbozzavo qualche schizzo
su un quaderno che conservavo gelosamente. Il primo olio l’ho realizzato
a diciassette anni nel 1948. Devo dire che è stato un vero e proprio
disastro perché non avevo saputo rapportare la quantità
di colore con le piccole dimensioni del supporto. Intanto a scuola mi
ero dedicato al fumetto e avevo già rappresentato tutti gli episodi
dell’Iliade e dell’Odissea. Purtroppo sin da allora mi trovavo
in una condizione di semicecità e per disegnare gli oggetti li
dovevo tenere sotto il naso. Anche la mia percezione del mondo era una
sorta di mosaico che mi ero costruito mentalmente attraverso immagini
viste in fotografia. Da parte mia perciò c’era il desiderio
di riprodurre le cose, gli oggetti nell’intento di governarli e
di possederli. Non c’è voluto molto poi per abbandonare la
rappresentazione referenziale, la somiglianza con la realtà.
M.D.P.: Quando è avvenuta la svolta?
T.C.: Ricordo molto bene i meccanismi di questo passaggio.
Avevo un amico nel Sulcis Iglesiente con il quale andavo a fare lunghe
nuotate in un piccolo fiume della zona e durante il tragitto discorrevo
con lui di arte. Era più grande di me di due anni e durante quelle
lunghe chiacchierate parlando delle Avanguardie e in particolare del Futurismo
avevo capito che si poteva trasferire nel quadro qualcosa di astratto
come il tempo. Mi rendevo conto che era possibile fare molto più
di quello che appariva o avevo imparato a scuola.
M.D.P.: A un certo punto una ectopia del cristallino
e della pupilla ti ha deformato la vista in entrambi gli occhi. Quanto
ha inciso questa particolare esperienza nella produzione di quegli anni?
T.C.: Quella particolare vicenda ha alimentato maggiormente
in me la voglia di sapere e di capire. Era un’esigenza servirmi
di tutti i mezzi espressivi a disposizione. La scrittura, ad esempio,
è esplosa casualmente durante le mie lezioni in una scuola elementare
di Assemini. Su quell’esperienza difficile ma significativa ho cominciato
a scrivere nelle pagine de L’Unione Sarda su invito di Alberto Rodriguez.
Così a un certo punto ho raccolto quegli scritti rivolti ai ragazzi
ed è nato il libro Impara l’arte edito da Einaudi.
Per quanto riguarda l’attività di pittore la cecità
mi ha fatto studiare con più attenzione i problemi della percezione
visiva ed approdare ad alcune esperienze significative.
M.D.P.: Che rapporto hai con l’arte in genere
e con le opere che hai realizzato?
T.C.: Verso l’arte in generale ho un rapporto di
curiosità, anche se uno come me che ha sperimentato tutto e ne
ha fatto di tutti i colori non si sorprende più di nulla. L’esperienza
fa diventare molto esigenti e ti aiuta a capire subito le problematiche
di un’opera, per cui stupirsi diventa sempre più difficile.
Nei confronti di ciò che ho fatto ho sempre mantenuto un atteggiamento
divertito. Ogni volta che inizio un nuovo lavoro, sull’onda dell’entusiasmo
penso che si tratti di un capolavoro, poi quando lo osservo con più
distacco rimango puntualmente deluso e allora inizio a lavorare su un’altra
opera. Comincia così una ricerca continua che non trova mai appagamento.
Solo dopo qualche tempo riesco a rivalutare e ad apprezzare quel lavoro
iniziale che mi aveva deluso, questo succede sia con i libri che ho scritto
sia con le opere che ho realizzato.
M.D.P.:
Nel 1966 insieme ad Ermanno Leinardi, Ugo Ugo ed Italo Utzeri, sulla
scia della optical art tedesca, firmi il documento programmatico che dà
vita al Gruppo Transazionale. Con un atteggiamento nuovo antiromantico,
portate una ventata di novità in Sardegna e conducete ad oltranza
una sperimentazione continua. Come definiresti questa esperienza?
T.C.: Portare avanti quelle idee è stato importante
per la formazione e il percorso di ciascuno di noi. È stato un
movimento lungimirante che ha precorso i tempi. Uno dei pochi se non l’unico,
che è nato in Sardegna e che ha avuto delle ripercussioni in tutta
Europa. Per la prima volta si è cercato di dare uno statuto di
scientificità all’arte. Offrire all’arte degli strumenti
logici, razionali e rigorosi allora era una grande novità, qualcosa
di estremamente dissacrante. Siamo riusciti a distinguerci nettamente
da altre correnti del periodo. Anche chi allora aderiva alla optical
art si diversificava da noi, non adottava infatti il nostro stesso
rigore perché era più eterodiretto di noi. Mentre altri
movimenti nati nella penisola come il gruppo T avevano un’impostazione
gestaltica e innatista e si riferivano ad una scuola di psicologia nata
in Germania, il nostro criterio transazionale invece era molto più
dialettico e meno metafisico. I gestaltici sostenevano che esiste un isomorfismo
tra forme fisiche e forme mentali, e quindi tutti indistintamente, uomini
e animali comprendono la realtà allo stesso modo, e se la percezione
era per loro un fatto semanticamente compiuto per noi era diverso.
M.D.P.: Cosa ricordi di quel periodo?
T.C.: Ci incontravamo spesso nello studio di Leinardi,
che si trovava in via Lamarmora a Castello. Spesso quegli incontri erano
un'occasione per divertirci e fare quattro chiacchiere. Un giorno su una
rivista d’arte pubblicata a Napoli Op. cit leggiamo un
articolo intitolato Gestaltismo e oltre, in cui compariva una
definizione sul criterio transazionale. Per me era stata una vera e propria
folgorazione. La mia particolare esperienza di vita, la cecità,
mi avevano da tempo avvicinato ai problemi della percezione visiva, infatti
la loro conoscenza era per me di vitale importanza. Un secondo incontro
era avvenuto oltre che con Leinardi, Ugo ed Utzeri anche con tanti altri
artisti, alcuni dei quali non solo non avevano accettato di buon grado
le nostre idee ma ci avevano sbattuto la porta inorriditi.
M.D.P.: Hai avuto la fortuna di operare in un periodo
molto stimolante e il merito di aver operato attivamente perché
le cose cambiassero. Che cosa è mutato oggi da allora?
T.C.: Questa avventura percettologica era durata un anno,
era entrata nel mercato subito per bruciarsi in un attimo. La fortuna
è che dopo quell’esperienza eravamo ancora considerati dei
giovani artisti. Un tempo non mancavano gli stimoli culturali e politici.
Mentre prima, infatti, l’impegno politico serviva a discutere e
a costruire ora non ci sono più ideali, mancano gli strumenti per
capire e confrontarsi.
M.D.P.: Nel 1988 hai realizzato un grande
murale in via Seruci, una delle zone più malfamate di Cagliari.
Credi che l’arte possa ancora avere oggi una funzione sociale?
T.C.: È la televisione oggi ad avere questo tipo
di ruolo e i sondaggi politici fanno da padroni. I leader di partito ad
esempio prima di scendere in campo cercano di sapere attraverso accurate
indagini da che parte è utile schierarsi e così scelgono
di conseguenza. La nostra è una società capitalistica dove
contano solo gli affari e i soldi. Lo dimostrano purtroppo la strage americana,
l’assalto alle torri gemelle e la guerra in Medio Oriente.
M.D.P.: Perché il mercato dell’arte
in Sardegna è in crisi secondo te?
T.C.: Questa crisi è legata al fatto che in Sardegna
c’è un numero di abitanti piuttosto limitato, che ormai le
pareti delle case sono piene di quadri e che la tecnologia ha allontanato
le persone dagli artisti, cui non si fa più riferimento per sapere
certe cose.
M.D.P.:
Che cosa ti ha spinto ad abbandonare il pennello a favore
del computer?
T.C.: Si tratta di una forma di comunicazione più
libera e in più il computer ha il vantaggio di essere uno strumento,
un esecutore molto veloce. All’inizio il computer mi ha spaventato,
poi tutto si è sviluppato col lavoro. Il dubbio nasceva dal timore
di smarrire il mio ruolo di artista di fronte a quella macchina, di perdere
di autorità. Il computer invece ti da risposte in pochi secondi,
e questo in realtà ti rende potente.
M.D.P.: Pensi che la computer art sia destinata
a durare?
T.C.: Se per durata intendiamo ciò che comunemente
riguarda le opere d’arte in senso stretto, rispondo di no. Questo
tipo di espressività artistica, infatti, è strettamente
legata alla tecnologia e perciò è soggetta a una continua
evoluzione, a mutamenti veloci. Lo prova il fatto che ho iniziato con
le animazioni bidimensionali, cosa che non mi dispiaceva visto che mi
teneva legato al mio passato pittorico dove la superficie del quadro era
piatta, poi sono passato a programmi tridimensionali e così ho
sperimentato gradualmente strumenti sempre più sofisticati sul
piano funzionale e tecnologico. È insomma una forma di espressività
strettamente conseguente ai progressi che la tecnologia compie.
M.D.P.: Ti sei dedicato a numerose tecniche artistiche
e da ultimo il computer. Cosa sperimenterà in futuro, ancora, Tonino
Casula?
T.C.: Ho smesso di piantare alberi da qualche tempo.
Credo di aver chiuso e di aver sperimentato tutto. La morte non mi spaventa
spero solo di morire dignitosamente.
Tonino Casula (Seulo, NU 1931) vive e lavora a Cagliari, opera nell’ambito
dell’astrazione geometrica occupandosi di percezione visiva e psicologia
della forma. La sua ricerca ha progressivamente assunto una dimensione
tecnologica che, negli ultimi anni, è approdata a forme di computer
art.
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