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Intervista
a Gianfranco Setzu
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Incontro Gianfranco Setzu nel caos
della redazione tra il telefono che squilla, la segreteria telefonica
che parte al ritmo ipnotico di un disco incantato e il campanello che
suona. Un’intervista funambolica di fronte ad un artista i cui
lavori tradiscono l’interesse per l’archeologia dell’immagine
e per il cinema, una ricostruzione meticolosa del set, una ricerca maniacale
del clima epocale nel quale inserisce i suoi attori. Setzu cuce gli
abiti, realizza il set, trova gli oggetti, ripropone persino la patina
della carta, i colori, le sfocature.
Da un’enorme borsa spunta un book…
G.
S.: Vedi, questo è un lavoro sulla vita di coppia. Hai
presente le immagini ossessive dei cataloghi anni Sessanta? Per questa
foto ho costruito un completino in organza, per creare un’immagine
feticista sul nuovo sesso, una visione un po’ modaiola del sesso.
La scritta «she is dead», lei è morta, però,
è costruita così da ricavare una lettura della frase auto
ironica sull’immagine stessa, che dice: «lei è morta»,
e lo dice a te che guardi, ma potresti essere tu che dici: «lei
è morta», per cui c’è questa dimensione di
indicare e indicarsi. È lei che racconta questa specie di morte,
che poi è una morte erotica un po’ come il nuovo rapporto
di coppia.
A. R. C.: Tu hai una forte esigenza di raccontare,
il tuo lavoro ha un intenso legame con la narrazione del fotoromanzo,
ma non quello classico della Lancio, ad esempio, bensì, il fotoromanzo
porno.
G. S.: Sì, perché la mia idea base non
è quella di fare ricerca mettendo, come oggi avviene nell’arte,
se stessi come fulcro del proprio fare, per me l’importante è
raccontare, è dare. Non amo le cose troppo edonistiche in cui
tu sei sempre al centro del tuo lavoro. Il mio lavoro, invece, è
anche un lavoro di narrazione che lascia aperta la possibilità
alle persone di poterne fruire. Nelle immagini della serie fotografica
blu, c’era una narrazione, ma in un certo qual modo era scomposta,
quasi una perdita del tempo, una ricostruzione meccanica, un po’
clinica. Una delle immagini, ad esempio, sembra una foto sbagliata perché
si scopre il fondale fotografico, come se fosse una negazione.
A. R. C.: Parlami della serie dei suicidi.
G. S.: Questo è un lavoro fatto con delle pellicole
polaroid del ’46, la prima polaroid. È una pellicola particolarissima
perché serve per fare le foto-tessera, però in realtà
io la tratto con una sostanza che esalta il colore.
A.
R. C.: C’è una sorta di ricostruzione archeologica
nel tuo lavoro, un aspetto feticista nel voler utilizzare la prima macchina
polaroid, oggetti di plastica arancione perché arancione era
la prima plastica prodotta, nel voler introdurre nel tuo lavoro quell’elemento
che ti riporta all’origine, all’origine della tecnologia
moderna. Non sbagliavo, dunque, nel paragonarti ad Alfred Hitchcock,
il feticista.
G. S.: Sì, mi piace moltissimo! Infatti, nella
prima immagine della sequenza dei Quattro suicidi, il protagonista
prende il veleno e, come il veleno agisce sul corpo, così l’acido
corrode la polaroid sul bordo, un po’ come se la tua identità
entrasse proprio dentro la fotografia stessa e ne venisse corrosa.
Nel secondo Suicidio, era importante la marginalità
del suicidio in bagno, il rasoio sul lavandino ecc. Però, la
narrazione di queste quattro morti è ridotta tanto all’osso
da non essere più suicidi, ma l’icona estetica di un atto
finale.
A. R. C.: È un progetto vasto, il tuo. Come
si concretizza quest’attenzione verso l’altro, un po’
da reporter?
G. S.: Questo progetto è un progetto per gruppi.
Sono nove storie. Nel primo manca il soggetto poi ci sono le Due
ancelle, nel terzo c’è il rapporto di coppia e lo
spettatore è il terzo, seguono i Quattro suicidi, i
Cinque paesaggi fino ad arrivare al nove che è un numero
ascetico. Il sei è una storia d’amore. È uno dei
miei primi tentativi narrativi di una storia d’amore perché
di solito racconto dimensioni molto più tragiche.
A. R. C.: Come nasce la scelta della pratica fotografica?
Mi pare che il tuo interesse non sia esclusivamente legato al risultato
estetico, c’è una componente scientifica nel tuo approccio
all’immagine, da chimico.
G. S.: Fotografo da quando ero piccolo. Ma, sai, è
nella retorica delle persone che parlano di se stesse dire: «Ho
sempre fatto quello!». Non mi vergogno di affermare che la fotografia
mi ha salvato la vita e cerco di ricompensarla facendo le cose che mi
piacciono.
A. R. C.: Quel bambino ha guardato molte foto,
ma non le foto delle riviste patinate, se non sbaglio, le foto degli
album di nozze, della prima comunione ecc. Sono le microstorie che ti
affascinano, il quotidiano, come sviluppi quest’esigenza?
G. S.: Sì, è vero! Assolutamente! Per
questo lavoro era per me fondamentale la narrazione della storia d’amore,
quindi ho ripreso alcuni elementi che caratterizzano una storia d’amore,
ad esempio l’ideale del focolare domestico. M’interessava
raccontare la Storia d’Amore, quindi, ho cercato di negare
l’identità dei personaggi non riprendendoli mai in pieno
viso.
A.
R. C.: Come nascono questi lavori?
G. S.: Questo è un lavoro realizzato in un anno
e mezzo all’incirca. Si chiama Nove vite che tu hai già
visto. Lo penso in una dimensione anche filosofica, prima penso
al tema che voglio affrontare, poi materialmente faccio una ricerca
degli oggetti che mi occorrono, faccio una ricerca con tutte le persone
che ho intorno, fino a trovare ciò che mi occorre. Voglio che
quell’oggetto risponda direttamente all’idea. Ad esempio,
il manichino degli anni Sessanta che ho trovato da un parrucchiere del
nuorese. Ci sono andato due volte e ho chiesto se per piacere potevo
prenderlo, poi lui me l’ha regalato. In questo momento sto giocando
su un livello molto divertente. I fondali sembrano molto asettici e
professionali ma sono fatti con materiali proletari. Della mia effettiva
realtà sociale.
A. R. C.: Cosa nasce prima, la passione per un
oggetto, una storia, il set?
G. S.: Nasce assolutamente prima la storia. È
per l’esigenza di storia che vado alla ricerca dei materiali.
È un bisogno assoluto di raccontare e anche di dire con chiarezza
le cose con quei mezzi, ricercare quei tipi di materiali e conoscere
questo tipo di realtà che è, in fondo, quella che mi circonda.
A proposito di questo lavoro, mi piace una frase che afferma che «dietro
ogni oggetto c’è una vita» per cui gli oggetti qua
sono ripresi in una dimensione per cui li puoi quasi toccare.
A. R. C.: Hai mai pensato di fare dei video?
G. S.: Aspetterò un po’. Penso che il
video sia interessante e anche piacevole, ma sento che diventerei regista,
perché il video artistico di per sé mi annoia molto.
A.
R. C.: Finalmente la “Diva”, una splendida
Reflex 4x4. Qui c’è il tuo autoritratto?
G. S.: Il mio vero autoritratto, di tutto questo lavoro,
è l’oggetto libro. In questo momento sto lavorando al mio
autoritratto perché mi hanno chiesto dei lavori a Bologna. Ci
ho lavorato per un po’ di tempo ma effettivamente il mio autoritratto
non sono neanche io, ma le cose che mi stanno attorno. Quindi, ho fotografato
tutto questo. Io abito in camera con i miei quattro fratelli, - siamo
una famiglia numerosa - io abito in un letto a castello, nel piano inferiore
del letto a castello e attacco moltissime cose alle pareti, perché
mi piace volermi bene - perché nessuno mi vuole bene (ride).
Allora ho fotografato l’impronta del mio corpo nel letto e le
fotografie intorno. Forse questo è il mio vero autoritratto,
il mio spazio intorno.
A. R. C.: A proposito di set, vorrei sapere dove
vanno a finire gli attori-oggetti dei tuoi set. Davanti ai lavori di
Sandy Skoglund mi sono chiesta in quale paese meraviglioso vivono i
suoi animali colorati quando hanno terminato di lavorare all’opera.
In quale “Fantastico Mondo di Gianfranco Setzu” vivono i
suoi oggetti-attori?
G. S.: Sandy Skoglund crea un mondo immaginario, io
ricostruisco il reale.
A. R. C.: Appunto volevo sapere che rapporto hai
con il tuo set, se lo vivi cinematograficamente.
G. S.: Si, effettivamente dal punto di vista creativo
la fascinazione è più che altro hitchcockiana, cioè
di ricreare delle situazioni di vita, delle situazioni rispondenti ad
un bisogno effettivo, per cui, come per Hitchcock era importante questa
relazione diretta sia con l’aspetto psicologico che affettivo,
per me è, addirittura, fondamentale.
A. R. C.: La tua ricerca degli oggetti-attori è
quindi da trovarobe cinematografico e da archeologo degli affetti. Ma
dove vivono materialmente?
G. S.: Te lo dico con onestà. Il catetere l’ho
regalato ad un amico infermiere… si fanno una passeggiata e poi
ritornano nel mondo reale, ritornano a vivere (ride)… il bicchiere
lo uso, ci beviamo tutti i giorni.
A. R. C.: Però, oltre agli oggetti cercati
nell’archeologia del moderno, della plastica e della tecnologia
anni Cinquanta e Sessanta tu costruisci e ricostruisci. Mi ricordavi
che tua madre è sarta e che il tuo legame con la moda, il fare
manuale è forte. Non credi ci sia un pregiudizio in questo senso
del mondo dell’arte, oggi?
G. S.: Si, in Accademia c’è molto pregiudizio
nell’usare pratiche manuali, lo stesso cucire, costruirti tu il
set e non essere in quella specie di jet system nel quale, comunque
sia, tu scegli e gli altri realizzano, in un sistema molto elitario,
nel quale il tuo fare è sempre cautelato dal fare degli altri.
La nostra società è iper-borghese, di conseguenza l’arte
è iper-borghese, iper, iper.
Gianfranco Setzu è nato ad Oristano nel 1975. Vive e lavora
a Ruinas (OR)