Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


Ziqqurat n°5
Sommario

Io vi
vo in un letto a
C
astello

Intervista a Gianfranco Setzu

di Anna Rita Chiocca

Incontro Gianfranco Setzu nel caos della redazione tra il telefono che squilla, la segreteria telefonica che parte al ritmo ipnotico di un disco incantato e il campanello che suona. Un’intervista funambolica di fronte ad un artista i cui lavori tradiscono l’interesse per l’archeologia dell’immagine e per il cinema, una ricostruzione meticolosa del set, una ricerca maniacale del clima epocale nel quale inserisce i suoi attori. Setzu cuce gli abiti, realizza il set, trova gli oggetti, ripropone persino la patina della carta, i colori, le sfocature.
Da un’enorme borsa spunta un book…

Gianfranco Setzu, She is dead > he not is, 1999-2000, trittico, (particolare) stampa digitale su carta fotografica, 30 x 30 cm ciascunaG. S.: Vedi, questo è un lavoro sulla vita di coppia. Hai presente le immagini ossessive dei cataloghi anni Sessanta? Per questa foto ho costruito un completino in organza, per creare un’immagine feticista sul nuovo sesso, una visione un po’ modaiola del sesso. La scritta «she is dead», lei è morta, però, è costruita così da ricavare una lettura della frase auto ironica sull’immagine stessa, che dice: «lei è morta», e lo dice a te che guardi, ma potresti essere tu che dici: «lei è morta», per cui c’è questa dimensione di indicare e indicarsi. È lei che racconta questa specie di morte, che poi è una morte erotica un po’ come il nuovo rapporto di coppia.

A. R. C.: Tu hai una forte esigenza di raccontare, il tuo lavoro ha un intenso legame con la narrazione del fotoromanzo, ma non quello classico della Lancio, ad esempio, bensì, il fotoromanzo porno.
G. S.: Sì, perché la mia idea base non è quella di fare ricerca mettendo, come oggi avviene nell’arte, se stessi come fulcro del proprio fare, per me l’importante è raccontare, è dare. Non amo le cose troppo edonistiche in cui tu sei sempre al centro del tuo lavoro. Il mio lavoro, invece, è anche un lavoro di narrazione che lascia aperta la possibilità alle persone di poterne fruire. Nelle immagini della serie fotografica blu, c’era una narrazione, ma in un certo qual modo era scomposta, quasi una perdita del tempo, una ricostruzione meccanica, un po’ clinica. Una delle immagini, ad esempio, sembra una foto sbagliata perché si scopre il fondale fotografico, come se fosse una negazione.

A. R. C.: Parlami della serie dei suicidi.
G. S.: Questo è un lavoro fatto con delle pellicole polaroid del ’46, la prima polaroid. È una pellicola particolarissima perché serve per fare le foto-tessera, però in realtà io la tratto con una sostanza che esalta il colore.

Gianfranco Setzu, Solution > 3, 1999-2000, trittico, polaroid trattata, 10 x 7 cmA. R. C.: C’è una sorta di ricostruzione archeologica nel tuo lavoro, un aspetto feticista nel voler utilizzare la prima macchina polaroid, oggetti di plastica arancione perché arancione era la prima plastica prodotta, nel voler introdurre nel tuo lavoro quell’elemento che ti riporta all’origine, all’origine della tecnologia moderna. Non sbagliavo, dunque, nel paragonarti ad Alfred Hitchcock, il feticista.
G. S.: Sì, mi piace moltissimo! Infatti, nella prima immagine della sequenza dei Quattro suicidi, il protagonista prende il veleno e, come il veleno agisce sul corpo, così l’acido corrode la polaroid sul bordo, un po’ come se la tua identità entrasse proprio dentro la fotografia stessa e ne venisse corrosa.
Nel secondo Suicidio, era importante la marginalità del suicidio in bagno, il rasoio sul lavandino ecc. Però, la narrazione di queste quattro morti è ridotta tanto all’osso da non essere più suicidi, ma l’icona estetica di un atto finale.

A. R. C.: È un progetto vasto, il tuo. Come si concretizza quest’attenzione verso l’altro, un po’ da reporter?
G. S.: Questo progetto è un progetto per gruppi. Sono nove storie. Nel primo manca il soggetto poi ci sono le Due ancelle, nel terzo c’è il rapporto di coppia e lo spettatore è il terzo, seguono i Quattro suicidi, i Cinque paesaggi fino ad arrivare al nove che è un numero ascetico. Il sei è una storia d’amore. È uno dei miei primi tentativi narrativi di una storia d’amore perché di solito racconto dimensioni molto più tragiche.

A. R. C.: Come nasce la scelta della pratica fotografica? Mi pare che il tuo interesse non sia esclusivamente legato al risultato estetico, c’è una componente scientifica nel tuo approccio all’immagine, da chimico.
G. S.: Fotografo da quando ero piccolo. Ma, sai, è nella retorica delle persone che parlano di se stesse dire: «Ho sempre fatto quello!». Non mi vergogno di affermare che la fotografia mi ha salvato la vita e cerco di ricompensarla facendo le cose che mi piacciono.

A. R. C.: Quel bambino ha guardato molte foto, ma non le foto delle riviste patinate, se non sbaglio, le foto degli album di nozze, della prima comunione ecc. Sono le microstorie che ti affascinano, il quotidiano, come sviluppi quest’esigenza?
G. S.: Sì, è vero! Assolutamente! Per questo lavoro era per me fondamentale la narrazione della storia d’amore, quindi ho ripreso alcuni elementi che caratterizzano una storia d’amore, ad esempio l’ideale del focolare domestico. M’interessava raccontare la Storia d’Amore, quindi, ho cercato di negare l’identità dei personaggi non riprendendoli mai in pieno viso.

Gianfranco Setzu, Nine lives > 7, 1999-2001, dittico (particolare), stampa digitale su carta fotografica, 30 x 30 cm ciascunaA. R. C.: Come nascono questi lavori?
G. S.: Questo è un lavoro realizzato in un anno e mezzo all’incirca. Si chiama Nove vite che tu hai già visto. Lo penso in una dimensione anche filosofica, prima penso al tema che voglio affrontare, poi materialmente faccio una ricerca degli oggetti che mi occorrono, faccio una ricerca con tutte le persone che ho intorno, fino a trovare ciò che mi occorre. Voglio che quell’oggetto risponda direttamente all’idea. Ad esempio, il manichino degli anni Sessanta che ho trovato da un parrucchiere del nuorese. Ci sono andato due volte e ho chiesto se per piacere potevo prenderlo, poi lui me l’ha regalato. In questo momento sto giocando su un livello molto divertente. I fondali sembrano molto asettici e professionali ma sono fatti con materiali proletari. Della mia effettiva realtà sociale.

A. R. C.: Cosa nasce prima, la passione per un oggetto, una storia, il set?
G. S.: Nasce assolutamente prima la storia. È per l’esigenza di storia che vado alla ricerca dei materiali. È un bisogno assoluto di raccontare e anche di dire con chiarezza le cose con quei mezzi, ricercare quei tipi di materiali e conoscere questo tipo di realtà che è, in fondo, quella che mi circonda. A proposito di questo lavoro, mi piace una frase che afferma che «dietro ogni oggetto c’è una vita» per cui gli oggetti qua sono ripresi in una dimensione per cui li puoi quasi toccare.

A. R. C.: Hai mai pensato di fare dei video?
G. S.: Aspetterò un po’. Penso che il video sia interessante e anche piacevole, ma sento che diventerei regista, perché il video artistico di per sé mi annoia molto.

Gianfranco Setzu, Conversazione silenziosa, 2001, plotteraggio su carta patinata, 300 x 250 cmA. R. C.: Finalmente la “Diva”, una splendida Reflex 4x4. Qui c’è il tuo autoritratto?
G. S.: Il mio vero autoritratto, di tutto questo lavoro, è l’oggetto libro. In questo momento sto lavorando al mio autoritratto perché mi hanno chiesto dei lavori a Bologna. Ci ho lavorato per un po’ di tempo ma effettivamente il mio autoritratto non sono neanche io, ma le cose che mi stanno attorno. Quindi, ho fotografato tutto questo. Io abito in camera con i miei quattro fratelli, - siamo una famiglia numerosa - io abito in un letto a castello, nel piano inferiore del letto a castello e attacco moltissime cose alle pareti, perché mi piace volermi bene - perché nessuno mi vuole bene (ride). Allora ho fotografato l’impronta del mio corpo nel letto e le fotografie intorno. Forse questo è il mio vero autoritratto, il mio spazio intorno.

A. R. C.: A proposito di set, vorrei sapere dove vanno a finire gli attori-oggetti dei tuoi set. Davanti ai lavori di Sandy Skoglund mi sono chiesta in quale paese meraviglioso vivono i suoi animali colorati quando hanno terminato di lavorare all’opera. In quale “Fantastico Mondo di Gianfranco Setzu” vivono i suoi oggetti-attori?
G. S.: Sandy Skoglund crea un mondo immaginario, io ricostruisco il reale.

A. R. C.: Appunto volevo sapere che rapporto hai con il tuo set, se lo vivi cinematograficamente.
G. S.: Si, effettivamente dal punto di vista creativo la fascinazione è più che altro hitchcockiana, cioè di ricreare delle situazioni di vita, delle situazioni rispondenti ad un bisogno effettivo, per cui, come per Hitchcock era importante questa relazione diretta sia con l’aspetto psicologico che affettivo, per me è, addirittura, fondamentale.

A. R. C.: La tua ricerca degli oggetti-attori è quindi da trovarobe cinematografico e da archeologo degli affetti. Ma dove vivono materialmente?
G. S.: Te lo dico con onestà. Il catetere l’ho regalato ad un amico infermiere… si fanno una passeggiata e poi ritornano nel mondo reale, ritornano a vivere (ride)… il bicchiere lo uso, ci beviamo tutti i giorni.

A. R. C.: Però, oltre agli oggetti cercati nell’archeologia del moderno, della plastica e della tecnologia anni Cinquanta e Sessanta tu costruisci e ricostruisci. Mi ricordavi che tua madre è sarta e che il tuo legame con la moda, il fare manuale è forte. Non credi ci sia un pregiudizio in questo senso del mondo dell’arte, oggi?
G. S.: Si, in Accademia c’è molto pregiudizio nell’usare pratiche manuali, lo stesso cucire, costruirti tu il set e non essere in quella specie di jet system nel quale, comunque sia, tu scegli e gli altri realizzano, in un sistema molto elitario, nel quale il tuo fare è sempre cautelato dal fare degli altri. La nostra società è iper-borghese, di conseguenza l’arte è iper-borghese, iper, iper.

Gianfranco Setzu è nato ad Oristano nel 1975. Vive e lavora a Ruinas (OR)

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