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Antonio Secci, Squarcio n. 6, 2000, tecnica mista, 55 x 65 cm (foto Gallini)

Antonio Secci

di Claudio Cerritelli

A considerarla nel suo insieme, la storia di immagini che Antonio Secci ha costruito dagli anni Settanta ad oggi, sprigiona vibrazioni tattili del colore nella metafora avvincente dello “squarcio”, in quella spazialità attiva e concreta che ha dato origine al suo solitario viaggio lungo le tensioni strutturali della materia.
Questo slancio verso l’idea di un cosmo espansivo è stato un pensiero costante che si è rafforzato al di là della dimensione operativa delle singole opere, un pensiero che continua a dilatarsi nello spazio attraverso nuove vibrazioni della materia.
Ogni opera è sorretta da un rigore costruttivo che fa capire quanto sia radicato dentro la sensibilità dell’artista il senso dello spazio infinito, interminabile, uno spazio connesso ad altri spazi: visione indeterminata, sospinta verso molteplici direzioni.
Il fatto è che Secci ha inventato una struttura materica che gioca sull’opposizione dei colori per ricavare un senso plastico fatto di superfici lacerate, di tagli irregolari, di linee rette che tengono lo sguardo in apprensione, esaltandone l’intrigo percettivo.
Tra gli artisti che negli ultimi decenni hanno inventato la pelle della pittura, Secci è quello che ha trovato subito la sua originale tecnica: l’epidermide del colore è fatta da un reticolo di fili che trattengono il pigmento in se stesso e lo rendono tangibile come tessitura che filtra luce ma sa anche respingerla. La superficie è dunque realizzata come entità fisica, espressione diretta della materia, forma tangibile dotata di un respiro percepibile ad ogni istante.
Secci non ha mai giocato su sterili illusioni ottiche, sulle dinamiche, spesso retoriche, della psicologia della percezione e non ha neppure verificato le regole del suo fare attraverso l’estetica dell’opera aperta, polivalente, pluridimensionale.
Nonostante queste precauzioni l’artista ha fondato un modo di essere che apre continue relazioni con il lettore: varchi impossibili, spiragli inesplorabili, passaggi segreti, energie visive che si articolano sopra e sotto la pelle della superficie.
Se in un primo tempo la dialettica tra visibile e invisibile era espressa dalle tensioni sottese agli strappi, ai tagli e alle sovrapposizioni della superficie, oggi questo meccanismo è completamente introiettato, è diventato una condizione implicita dell’atto creativo.
Ciò che si afferma, al di là dell’inconfondibile identità tecnica dell’opera, è il senso infinito del linguaggio, il fatto che i caratteri dello spazio slittano da un’opera all’altra, passano dal territorio circoscritto di una superficie dominata dal rosso a quello di un’altra abbagliata dal bianco, senza perdere d’intensità.
La ricerca di Secci è - in questo senso - non solo una lucida variazione delle proprietà materiche dello spazio pittorico da lui inventato, ma si afferma come ricerca di sentimenti ancor più radicali che possono e, anzi, devono crescere dentro le regole del linguaggio plastico-cromatico.
Antonio Secci, Squarcio n. 10, 2000, tecnica mista, 50 x 60 cm (foto Donato Tore) Così il senso della variazione non significa mai ripetizione di un modello collaudato e appagante, non rischia mai di essere codice autosufficiente per realizzare infiniti viaggi dentro il perimetro dell’opera, di qualunque dimensione essa sia.
Si tratta di un impegno a cogliere la radice dell’immagine o, per meglio dire, l’atto di radicamento che la forma stabilisce con lo spazio, attraverso i sapori della materia, il gusto del pigmento che spinge la struttura compositiva ad uscire dai propri limiti, considerati necessari alla libertà di movimento della pittura.
Se consideriamo le opere dell’ultimo periodo non possiamo non avvertire come esse siano il frutto irripetibile di un processo che si avvale di spostamenti che avvengono dentro l’omogeneità dello spazio.
Non possiamo non vedere che, attraverso questi movimenti spezzati, trasversali, diagonali, esse possono testimoniare una durata e una ossessione creativa che è il punto di forza più visibile dell’attuale lavoro di Secci.
La pittura diventa un sistema di “squarci” che si configurano in modo sempre diverso fino a sperimentare energie e tensioni che attraversano l’architettura dell’opera: esse sono trame, tramature, tramiti, ma anche tremiti della materia, tremori di linee che inseguono aperture e spiragli, in eterna dialettica con la struttura della superficie.
Sapevamo che questo stile è inequivocabile, ma oggi questa strategia formale non è più sufficiente, non può essere una formula per guardare avanti.
Secci se ne rende conto a tal punto che i percorsi dello strappo s’appropriano dello spazio in modo totale, sprofondano sulla superficie alla ricerca della luce mentale, unica fonte di salvezza in un mondo espropriato della propria origine, ormai incapace di guardare verso l’assoluto, verso il silenzio interiore della forma.

Antonio Secci (Dorgali, NU, 1944), già collaboratore di Roberto Crippa a Milano, conduce una ricerca nell’ambito dell’astrazione geometrica. Attualmente vive e lavora a Cala Gonone (NU).

Claudio Cerritelli è storico e critico d’arte. Vive e lavora a Milano.

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