SPECCHIO
delle mie BRAME |
Intervista
a
Josephine Sassu |
|
di
Anna Rita Chiocca |
A. R. C.: Per molto
tempo Josephine Sassu è stata identificata come “quella
che cuce”, eppure il tuo lavoro appare piuttosto complesso per
l’ampiezza dei mezzi espressivi utilizzati: il disegno, le performance
e ultimamente il teatro. Come percepisci questa necessità di
etichettare in maniera così semplicistica un artista?
J. S.: Credo che ci sia una necessità, da parte
delle persone, di utilizzare definizioni stereotipate. Probabilmente
molti pensano che io “cucia” perché i lavori che
ho realizzato con questa tecnica sono stati più appariscenti.
Qui in Sardegna ho proposto delle installazioni che evidentemente hanno
lasciato un segno più forte di altri. In realtà, per me
è sempre stato il fine che ha giustificato il mezzo: per quanto
ci siano stati degli sviluppi e delle evoluzioni, il fine è sempre
lo stesso, i mezzi variano.
A. R. C.: Del resto hai sempre affermato che non
ti piace cucire.
J. S.: Sì, è vero. È anche vero
che ho cucito e molti hanno visto in questo una grande capacità,
ma, per me, realizzare quei lavori con il tessuto era, al momento, la
soluzione ideale, quindi il cucito era necessario. In realtà,
questo è vero per il cucito, ma è vero per tutte le altre
cose che ho fatto sia con la plastilina, sia con le sculture bidimensionali
in legno, sia con il disegno. Ho sempre utilizzato quelle che sono le
abilità minime indispensabili, per questo posso dire di non saper
cucire, posso dire - come spesso dico - di non saper disegnare.
A. R. C.: Pur non facendo mai riferimento alla
Sardegna, nelle tue opere si percepisce spesso un legame con un vissuto
legato al contesto locale: il cucito, il cibo, la scelta di alcuni materiali
o forme evocative. Come si inserisce, nel tuo lavoro, quest’esperienza
quotidiana del vissuto?
J. S.: Intanto ho già detto che non utilizzo
grandi capacità, nel senso che non metto in atto quelle che sono
delle grandi competenze, ma quelle minime, le stesse del vivere quotidiano.
Il mio essere e non essere sarda è legato al fatto che non sono
nata in Sardegna. Non ho entrambi i genitori sardi, ma sono nata in
un “altrove”, in un posto che sì esiste, ma non ha
sostanzialmente nessun legame con me. Rispetto ad altri, che hanno un
senso delle “radici” più rigoroso, io manifesto quest’appartenenza
sempre in punta di piedi.
Mi viene in mente il Piccolo principe che vivendo nel suo piccolo
mondo aveva giusto due o tre vulcani da custodire e una rosa da coccolare.
Probabilmente il piccolo principe, avendo lasciato la sua terra e soffrendo
di nostalgia, ha fatto di quella situazione negativa la sua forza.
Probabilmente io attingo, anche inconsapevolmente, a delle fonti che
sono a volte remotissime, a volte spente assolutamente. Ma non lo faccio
in maniera forzata, ostentata, voluta. Credo che sia naturale che le
componenti, quello che è il DNA emotivo, culturale e fisico si
esprima nei lavori.
A.
R. C.: In tutti i progetti, sin da Affettuosi bacilli,
appare centrale la sfida portata alle nozioni di molteplicità
e unicità, ripetizione e originalità, innovazione tecnica
e tradizione, giocando sull’ambiguità di queste che, in
arte, sono definizioni acquisite. I tuoi lavori sono legati al concetto
moltiplicazione/invasione e Specchio delle mie brame è
un lavoro dichiaratamente infinito. Uno sconfinamento non solo spaziale
ma anche temporale?
J. S.: Qualche anno fa, lavorando soprattutto sul tridimensionale,
pensavo: «Ma la superficie bidimensionale, come posso invaderla?»
Probabilmente un grande aiuto mi è stato dato da Tutti i
mali che vengono per nuocermi, dove una superficie minima come
il post-it era diventata supporto dei disegnini prodotti in 365 copie.
Da lì ho iniziato a trovare forse un altro varco.
Una cosa che trovo molto vicina alla tua analisi è questo fatto
della “sfida”: probabilmente io ho un atteggiamento, tutto
sommato, molto aggressivo nei confronti dei miei lavori. In Specchio
delle mie brame il mezzo è una superficie bidimensionale,
piatta, è la tela, il supporto canonico del pittore che riceve
l’autoritratto, per cui mi muovo su una superficie che è
ortodossa, ma in realtà lo spazio che io invado - in maniera
anche più violenta di quanto lo spettatore possa percepire -
è uno spazio assolutamente privato. Il soggetto sono sempre io,
il limite è quello dell’esistenza, in
questo caso della mia esistenza, perché è lo specchio
delle mie brame.
Effettivamente, proprio con questo lavoro, in questo momento sto rendendo
concreto, sto portando alle estreme conseguenze quello che è
il discorso dell’estremo. L’ambito è quello più
privato, legato al tipo di lettura banalizzante che si fa dell’opera
d’arte “che è espressione dell’animo”,
cioè una definizione banale. Ecco, io estremizzo anche questo!
In questo caso, porto avanti un discorso che non è finito, cioè
quello del limite, dell’invasione, del margine che c’è
tra il bello e il brutto, tra il buono e il cattivo. Il tema è
il limite dell’esistenza e il limite dell’essere, nello
specifico del mio essere, della mia esistenza.
A. R. C.: Il tuo è un lavoro “post
mortem”, infatti, nel 1999 con Ritenta sarai più fortunato
ti sei seppellita.
J. S.: Sì! Qualcuno avrebbe voluto che non fossi
uscita e qualcuno vorrebbe rimettermi nella tomba (ride).
A. R. C.: È un modo per esorcizzare?
J. S.: Quello degli esorcismi è stato uno dei
degli input principali da cui sono nati tutti Gli affettuosi bacilli
e I tumori benigni: erano sostanzialmente degli amuleti. Il
toccare inizialmente un qualcosa che può essere negativo, lavorare
sul limite, anche con la parola. Nel titolo c’è, quindi,
anche questo livello di tipo letterario.
A. R. C.: Penso ai titoli o alle definizioni narrative
che sostengono i tuoi lavori, fanno riferimento al linguaggio della
divulgazione scientifica mass mediale, alla pubblicità o alle
formule retoriche del linguaggio fiabesco. Il mondo che ne emerge è
piacevolmente giocoso, ma si annida sempre l’inquietudine del
non detto, una piccola tragedia paradossale, una quotidianità
grottesca. Qual è?
J.
S.: Un po’ si parte da quanto ho detto prima del fare
del difetto virtù. La presenza della parola non è una
cosa secondaria ma è, anzi, il punto di partenza, la chiave di
volta di tutti i miei lavori, a volte le fondamenta. Sostanzialmente
parto sempre da una suggestione. Prima che nascessero i miei autoritratti
è nato Specchio delle mie brame, una riflessione su
quella frase. Prima che nascesse La valle degli orti come installazione,
come produzione di oggetti, come produzione di sensazioni, ho riflettuto
molto sulla frase “la valle degli orti”. Effettivamente
la parola, in questo mio ultimo lavoro, ma già in precedenza,
si è solidificata nel senso che ho avuto, in questo caso, l’esigenza
di trascrivere la frase in ogni autoritratto, cioè la risposta
dello specchio.
A. R. C.: Perché questa necessità
di costruire un mondo grottesco e paradossale?
J. S.: Una cosa che è stata importante per me,
una cosa anche questa volta banale, è stata la lettura di un’intervista
di Marina Abramovic, qualche anno fa, quando era ancora in atto il conflitto
nei Balcani. Marina Abramovic parlava delle sue operazioni, delle sue
ultime performance e sottolineava il fatto che si può reagire
a delle situazioni, così come fa lei, oppure, con eguale forza
lavorare nella stessa maniera di Monet, che durante il primo conflitto
mondiale dipingeva le ninfee. Questa cosa mi ha colpito molto perché
probabilmente anch’io faccio questo. In effetti, alcune mie installazioni
sono effettivamente dei giardini, laghetti di ninfee, transgeniche,
sicuramente post atomiche. Mi piacerebbe essere ancora più estrema
e fare delle cose leziosissime ma l’orrido mi scappa di mano,
poi non so perché lo faccio! E’ una cosa che fa parte di
riflessioni intime sulla vita che avrei paura a esprimere. In realtà
non sono io che metto la ciliegina sulla torta ma sono le ciliegine
che vengono da me.
A. R. C.: Ritorniamo a Specchio delle mie
brame. Nel tempo si è evoluto, ha acquisito valenze e significati
sempre più complessi. Dalle piccole tele a queste di dimensioni
notevoli, che hanno allegramente invaso il tuo studio. Dove ti sta portando
questo viaggio?
J. S.: Questo è un progetto che porto avanti
da un anno e mezzo, che non mi sembra poco per una serie di lavori.
Io credo che nell’evoluzione il punto di partenza è stato
importante perché, anche quando lavoro sulla bidimensione lavoro
su una superficie, che non è quella fisica, ma è quella
mentale: la componente concettuale del mio lavoro è determinante.
C’è stato uno sviluppo dai primi disegnini visti da pochissimi,
ritratti con una componente fumettistica molto forte, ai successivi
su piccoli cartoncini telati 13x18 dove, piano piano, questo aspetto
più realistico - l’autoritratto con sembianze animali -
prendeva più corpo, per cui l’esigenza di passare ad una
dimensione fisica più grande è stata immediata. Dove mi
porta? Al momento a dimensioni sempre più grandi. Adesso, nei
lavori raggiungo quasi sempre 1.60 cm, che è la mia altezza massima.
Spero di crescere! Cambiano le dimensioni in larghezza ma l’altezza
rimane 1.60, a parte qualche eccezione! Ci sarà un ritorno alla
terza dimensione e non ci sarà un abbandono di questo tema dell’esistenza.
E poi, sai, io lavoro sull’incertezza: l’incertezza è
l’unica cosa certa della mia vita.
A. R. C.: Però questo lavoro ti ha portata ad
un’esperienza nuova, all’incontro con la moda?
J.
S.: Sì. È una cosa che ho fatto recentemente.
Devo dire che Specchio delle mie brame ha avuto diversi momenti
importanti. Ci sono diverse persone che hanno visto le varie fasi del
lavoro e alcune di queste si occupano di moda, producono una linea di
scarpe maschili. Loro mi hanno chiesto di promuovere la loro immagine
utilizzando i miei lavori, che tra l’altro sono quasi sempre esseri
privi di piedi, il che per uno che produce scarpe….
A. R. C.: Quali sono i modelli da cui parti per
questi lavori bidimensionali? Sono collocati di fronte allo spettatore
quasi come una processione. C’è un riferimento a modelli
artistici precisi?
J. S.: Sì, tanti. Una delle cose che mi ha più
emozionato è l’esercito di terracotta cinese. Un’altra
opera straordinaria è la Teoria delle Vergini a Sant’Apollinare
Nuovo e questo è stato, dal punto di vista iconografico, uno
degli input maggiori. Ci sono poi delle riflessioni di tipo antropologico.
Poi c’è da dire che Specchio delle mie brame è
un lavoro sui limiti dell’esistenza. Un’altra delle riflessioni
è l’idea che l’uomo ha spesso utilizzato l’immagine
animale per potenziare la propria forza: gli dei egizi o il soldato
nuragico.
Uno sguardo al passato remoto ma anche al futuro, penso alla manipolazione
genetica. Probabilmente fra trent’anni non soffriremo più
il caldo perché avremo geni di cammello e sputeremo come dei
lama. Questo ha fatto levitare l’idea e poi devo pagare pegno
a Pino Pascali. Mi sono occupata nella mia tesi di Pino Pascali, quindi
ho avuto la possibilità di capire meglio il suo lavoro e, per
quanto io ritenga di essere autonoma nella mia ricerca, certo mi viene
in mente che questi potrebbero essere animali creati da Pino Pascali
in tridimensionionale.
A. R. C.: Il tuo lavoro è caratterizzato,
sin dalle prime opere in cernit e in stoffa, da una meticolosa realizzazione
manuale, dal punto di vista fisico una fatica provante. Questo approccio
“hand made” viene spesso visto con pregiudizio. Molti artisti
tendono a progettare e poi far realizzare all’industria. Cosa
ne pensi?
J.
S.: Molto spesso mi sono chiesta e mi hanno chiesto perché
non uso la fotografia, il plotter. La risposta è che probabilmente
sarei “una delle tante”. Anche se io non disegno, non cucio,
non faccio niente per essere “una delle poche”. Così
come molto spesso chi vede i miei lavori rimane stupito del fatto che
faccio veramente tutto io. Mi sono chiesta se, avendo a disposizione
degli aiuti, lascerei fare ad altri, non so! C’è sicuramente
una componente di narcisismo e forse anche di auto flagellazione. Proprio
tornando al discorso dell’orrido che mi scappa, è punitivo,
facciamoci del male fino in fondo (ride).
Certamente, in una lettura sui miei lavori esclusivamente sull’oggetto
e non sul progetto emerge l’aspetto artigianale, e molti leggono
questa mia tendenza come espressione tipica dell’arte al femminile.
Ecco, questa è una cosa che non amo, perché l’artista
non è né maschio, né femmina.
A. R. C.: Che difficoltà hai a vivere in
un paesino piccolo al centro della Sardegna, piuttosto che vivere in
una grande città d’Italia?
J. S.: A questo non avevo mai pensato, però
ho pensato che vivendo in un posto come questo, che sostanzialmente
non è un posto, è un paese delizioso… vivere a Banari
o a Sassari non mi cambierebbe molto. Qui si ritorna al discorso dell’appartenenza.
Vivere a Banari mi ha dato la possibilità di fare l’artista,
cosa che, forse, avrei avuto più difficoltà a fare se
avessi vissuto in una città dove procacciarsi da vivere è
più complicato. Vivo in un’isola che non c’è.
Ecco, Banari è un’isola che non c’è. Un po’
questo voglio. Questa distanza da tutto. Vivere a Banari è vivere
in Sardegna all’ennesima potenza. Un po’ come il posto dove
sono nata, una città del nord della Germania dove io, comunque,
non tornerei. Ho un rapporto così strano con i luoghi fisici.
Oltretutto il mio studio, come tradizione vuole, è in una mansarda,
quindi, non sto neppure bene con i piedi per terra.
Josephine Sassu (Emsdetten, D, 1970),
vive e lavora a Banari (SS). Diplomata all’Accademia di Belle
Arti di Sassari, lavora sui temi della contaminazione e del contagio.
Nei lavori recenti privilegia l’uso del testo scritto e la
tecnica del disegno a matita su carta o tela.