Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


Ziqqurat n°5
Sommario

Antropografie del lavoro in
bianco e nero Sebastião Salgado, Pesca del tonno, Trapani, Sicilia, 1991
di Antonello Zanda
La mano dell’uomo si racconta per l’occhio di Salgado

È difficile dire, quando si entra nell’universo antropografico di Sebastião Salgado, che cosa distingua l’occhio della macchina fotografica dal corpo dell’uomo e dell’artista. I due diaframmi-congegni del pensiero mordono come denti acidi il tempo, lo trasformano in superfici visibili, ne disegnano i contrasti e fanno emergere i corpi, gli individui, gli uomini, i popoli. Queste emergenze non sono pure apparizioni, ombre fuggenti, ma storie concrete di uomini concreti. Così gli eventi si imprimono sulla pellicola e viaggiano sulle immagini come puri veicoli comunicativi ed emozionali. Replicano un viaggio e lo riproducono, prendono per mano gli occhi per avvicinarli al cuore della storia quotidiana, in quel crocevia in cui tempo e spazio risultano veramente relativi (il dove e il quando dileguano nel sempre e nell’ovunque). È questo uno dei segni che contraddistingue la mostra La mano dell’uomo, realizzata da Amazonas Images (l’agenzia di Salgado) e organizzata nello spazio comunale del Ghetto di Cagliari da Apostrophe - in collaborazione con Contrasto - dal 27 aprile al 30 giugno 2001. In questo caso “la mano dell’uomo” è ad un tempo il contenuto e la forma della ricognizione visiva che l’imponente mostra squaderna, come anche una precedente esposizione organizzata presso le Scuderie Papali al Quirinale che aveva titolo In cammino. Le due denominazioni esplicitano la struttura epistemologica dello sguardo salgadiano. Quindi viaggio e partecipazione, coinvolgimento e testimonianza, informazione e denuncia. Evidentemente l’impresa narrativa del fotografo brasiliano sottrae i suoi soggetti all’impressionismo volatile che li fa apparire lontani e fugaci. Il movimento che spinge lo sguardo di chi entra dentro le immagini è doppiato dal movimento che spinge il contenuto delle fotografie ad uscire da queste per condensarsi nella testa e nel cuore di chi le guarda, ipnotizzato da quel dentro/fuori che ha trasformato l’ospitale Ghetto in un pulsante muscolo cardiografico. Non è solo una questione di esperienza: non si diventa fotografi perché si fanno fotografie, ma si fanno fotografie perché si è fotografi.
 Sebastião Salgado, Miniera di Carbone, Dhanbad, Stato di Bihar, India, 1989Figlio di un galiziano e di una ebrea russa emigrati in Brasile (dove nacque nel 1944), Salgado vive attualmente a Parigi. La sua biografia ci racconta che ha conseguito il dottorato in economia alla Sorbona e poi è stato assunto nella sede londinese dell’Organizzazione Mondiale del Caffè. Inviato in Africa per studiare i problemi della produzione del tè e del caffè, davanti all’Africa decolonizzata, Salgado fa una scelta di vita radicale e decide di raccontare in bianco e nero il continente. Così facendo il fotografo scopre il suo occhio interno, il bisogno di guardare per mostrare. Nonostante le offerte della Banca Mondiale di Washington, decide di dedicarsi completamente alla fotografia e di attraversare lo spazio vissuto degli uomini, interpretando così da nomade la voce dei popoli che abitano la terra alla ricerca della propria terra. Lo dice lo stesso Salgado: «Probabilmente ciò che mi ha spinto a iniziare questo progetto è il fatto che io stesso ho passato la vita in cammino. Sono nato in una tenuta agricola di Minas Gerais, uno Stato rurale del Brasile. Quando avevo 5 anni la mia famiglia si trasferì nella cittadina di Aimorés. A neanche vent’anni andai a Vitoria, la capitale dello Stato di Espirito Santo, per completare il liceo e frequentare l’università. Dopo aver conosciuto la mia futura moglie Lélia, ci siamo stabiliti in una metropoli, Sao Paulo, dove ho proseguito gli studi per diventare economista. Poi nel 1969, quando il Brasile era governato dai militari, siamo partiti per l’Europa e abbiamo scoperto di essere ormai un po’ rifugiati, un po’ immigrati, un po’ studenti. Trent’anni dopo, abitiamo ancora in un paese straniero. Non sorprende quindi il senso di identificazione e persino di complicità che provo per gli esuli, gli emigranti, la gente che si rifà una vita lontano dal luogo dov’è nata.»
Nel 1973 realizza un reportage sulla siccità del Sahel e poi uno sulle condizioni di vita dei lavoratori immigrati in Europa. Nel 1974 entra nell’agenzia Sygma per documentare la rivoluzione in Portogallo, la guerra in Angola e gli avvenimenti in Mozambico. Poi si trasferisce, nel 1975, all’agenzia Gamma, e successivamente, nel 1979, alla Magnum. I numerosi viaggi nei paesi dell’America Latina, più di quindici fino al 1983, saranno sintetizzati nella pubblicazione di Altre Americhe, un potente reportage sulle condizioni di esistenza e di lavoro dei contadini. Nel 1984-1985, con l’organizzazione umanitaria Medici Senza Frontiere realizza Sahel: L’uomo in miseria. I suoi viaggi in Brasile, cominciati nel 1980, daranno luogo alla mostra Terra, del 1996. Dal 1993 al 1999, in sette anni di nomadismo fotografico, dal Vietnam all’Afghanistan, dall’Albania alla Serbia, dall’Indonesia alle Filippine, dall’India alla Cina, dal Brasile al Kurdistan iracheno fino all’Egitto e al Libano, Salgado ha cercato di raccogliere la voce di masse umane ignorate dai massmedia e annientate dalla globalizzazione trasformandole in informazione plastica e storica della loro condizione esistenziale. La mostra di Cagliari, come tutta l’attività del fotografo brasiliano, ha un significato politico e sociale profondissimo, perché rappresenta in un unico sguardo le contraddizioni del disequilibrio mondiale: «C’è una cosa molto interessante e drammatica - dice Salgado - che sta accadendo oggi. Il 15% circa della popolazione mondiale ha compiuto un sorta di fuga verso il futuro e vive proiettata nel futuro, dimentica del resto dell’umanità - la gran parte - lasciata indietro: l’85% circa della popolazione mondiale è infatti costretta a vivere in un passato da cui non riesce a staccarsi, in un mondo che non ha un presente». Ritraendo l’uomo e la sua lotta per la sopravvivenza il fotogiornalista mostra il lavoro al “lavoro”, mentre consegna cioè l’uomo alla sua umanità più profonda: dalla raccolta della canna da zucchero a Cuba e in Brasile alla raccolta del tè in Ruanda, dai “formicai” delle miniere d’oro in Serra Pelada in Brasile a quelle di zolfo in Indonesia, dalle tonnare siciliane alle fabbriche automobilistiche in India, dalle acciaierie in Kazakhstan alla costruzione del canale di irrigazione del Rajasthan fino all’Eurotunnel. Uomini, donne e bambini di tutti i paesi raccontano con la geografia dei loro corpi e con il linguaggio dei gesti quotidiani il lavoro di vivere, la loro faticosa ricerca di una dimensione umana e vivibile dell’esistenza. Lo fanno con una dignità che fa a pugni con lo stato di degrado e di orrore (guerre e conflitti vari, fame, miseria, sfruttamento, malattie) globalizzato in cui sono costretti a vivere, a ritagliarsi giorno per giorno un angolo di mondo in cui lottare per respirare e per risperare ancora.
Sebastião Salgado, Piantagione di Central Augusto César Sandino, Provincia dell’Avana, Cuba, 1988I momenti ripresi sono immobili, ma mai chiusi e prigionieri della fredda superficie fotografica. Salgado riesce a farlo perché sono momenti che pulsano di un’emozione concentrata, come solo la fotografia in bianco e nero, che racconta ciò che mostra per quello che è, riesce a fare. Il bianco e nero valorizza la forza espressiva e plastica della luce, il cui movimento impastato, su una stampa spesso sgranata, dà consistenza concreta e presente ai corpi, esponendoli ai tagli morbidi e ad una grande profondità di campo che potenzia l’effetto realistico. La forza espressiva è tale che chi guarda le foto è proiettato in quei luoghi, tra quelle genti. Possiamo attraversare il Ruanda nel bel mezzo del conflitto fratricida che semina morti tra hutu e tutsi o della guerra civile nel Sudan meridionale. Poi andare in America Latina per osservare l’esodo rurale e il disordine urbano diffuso in quei paesi, tra gli indios dell’Amazzonia e gli yanomami che vivono al confine con Venezuela e Guyana; o tra i contadini ecuadoregni, le comunità zapatiste del Chiapas e il Movimento dei Senza Terra del Brasile. Possiamo voltare lo sguardo e sostare in Asia, tra gli indiani del Bihar, nell’isola di Mindanao dentro l’arcipelago delle Filippine o in Vietnam tra i suoi contadini e pescatori. Poi chiudere gli occhi e riaprirli mentre abbracciamo la sofferenza e la dignità dei kurdi perseguitati in Turchia e in Irak. Insomma cinquanta popoli in sette anni, realizzando reportage per i quali ha ricevuto numerosissimi riconoscimenti internazionali, tra cui lo Eugene Smith Award for Humanitarian Photography nel 1982, l’Erna and Victor Hasselblad Award nel 1989, il Grand Prix de la Ville de Paris nel 1991, l’Award Publication dell’ International Center of Photography Sebastião Salgado, Miniera d’oro, Serra Palada, Stato di Parà, Brasile, 1986nel 1994 per il suo libro più importante - Workers - un eccezionale documento sulle condizioni del lavoro nel mondo. Salgado fotografa per non dimenticare e per stimolare un dibattito intorno a quello che accade nel mondo: «Ho lavorato fra queste persone per sette anni. Li ho visti spaventati, disorientati, umiliati, e ho capito come l’istinto di sopravvivenza a volte si esprimesse attraverso l’odio, la violenza, l’avidità. I massacri a cui ho assistito in Africa, Asia, America Latina, e le pulizie etniche in Europa, mi hanno aiutato a capire, come non avevo capito prima, che le cose sono strettamente legate fra loro, in ogni punto della Terra. Siamo diventati un unico mondo e sopportiamo le conseguenze del divario che cresce fra ricchi e poveri: trasformazione dell’agricoltura, urbanizzazione selvaggia, distruzione ambientale...»

Sebastião Salgado è nato nel 1944 a Aimores, in Brasile. Dopo una formazione universitaria di economista e statistico decide, dopo una missione in Africa, di diventare fotografo. Nel 1984-1985, con l'organizzazione umanitaria Medici Senza Frontiere realizza Sahel: L'uomo in miseria.
Si occupa della questione della terra in Brasile a partire dal 1980.

(Foto: courtesy Agenzia fotografica Amazonas/Contrasto)

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