Ziqqurat n°5
Sommario
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Antropografie del lavoro
in |
bianco e nero |
di Antonello Zanda |
La mano dell’uomo si racconta
per l’occhio di Salgado |
È difficile dire, quando si entra
nell’universo antropografico di Sebastião Salgado, che cosa
distingua l’occhio della macchina fotografica dal corpo dell’uomo
e dell’artista. I due diaframmi-congegni del pensiero mordono come
denti acidi il tempo, lo trasformano in superfici visibili, ne disegnano
i contrasti e fanno emergere i corpi, gli individui, gli uomini, i popoli.
Queste emergenze non sono pure apparizioni, ombre fuggenti, ma storie
concrete di uomini concreti. Così gli eventi si imprimono sulla
pellicola e viaggiano sulle immagini come puri veicoli comunicativi ed
emozionali. Replicano un viaggio e lo riproducono, prendono per mano gli
occhi per avvicinarli al cuore della storia quotidiana, in quel crocevia
in cui tempo e spazio risultano veramente relativi (il dove e
il quando dileguano nel sempre e nell’ovunque).
È questo uno dei segni che contraddistingue la mostra La mano dell’uomo,
realizzata da Amazonas Images (l’agenzia di Salgado) e organizzata
nello spazio comunale del Ghetto di Cagliari da Apostrophe - in collaborazione
con Contrasto - dal 27 aprile al 30 giugno 2001. In questo caso “la
mano dell’uomo” è ad un tempo il contenuto e la forma
della ricognizione visiva che l’imponente mostra squaderna, come
anche una precedente esposizione organizzata presso le Scuderie Papali
al Quirinale che aveva titolo In cammino. Le due denominazioni
esplicitano la struttura epistemologica dello sguardo salgadiano. Quindi
viaggio e partecipazione, coinvolgimento e testimonianza, informazione
e denuncia. Evidentemente l’impresa narrativa del fotografo brasiliano
sottrae i suoi soggetti all’impressionismo volatile che li fa apparire
lontani e fugaci. Il movimento che spinge lo sguardo di chi entra dentro
le immagini è doppiato dal movimento che spinge il contenuto delle
fotografie ad uscire da queste per condensarsi nella testa e nel cuore
di chi le guarda, ipnotizzato da quel dentro/fuori che ha trasformato
l’ospitale Ghetto in un pulsante muscolo cardiografico. Non è
solo una questione di esperienza: non si diventa fotografi perché
si fanno fotografie, ma si fanno fotografie perché si è
fotografi.
Figlio
di un galiziano e di una ebrea russa emigrati in Brasile (dove nacque
nel 1944), Salgado vive attualmente a Parigi. La sua biografia ci
racconta che ha conseguito il dottorato in economia alla Sorbona e poi
è stato assunto nella sede londinese dell’Organizzazione
Mondiale del Caffè. Inviato in Africa per studiare i problemi della
produzione del tè e del caffè, davanti all’Africa
decolonizzata, Salgado fa una scelta di vita radicale e decide di raccontare
in bianco e nero il continente. Così facendo il fotografo scopre
il suo occhio interno, il bisogno di guardare per mostrare. Nonostante
le offerte della Banca Mondiale di Washington, decide di dedicarsi completamente
alla fotografia e di attraversare lo spazio vissuto degli uomini, interpretando
così da nomade la voce dei popoli che abitano la terra alla ricerca
della propria terra. Lo dice lo stesso Salgado: «Probabilmente ciò
che mi ha spinto a iniziare questo progetto è il fatto che io stesso
ho passato la vita in cammino. Sono nato in una tenuta agricola di Minas
Gerais, uno Stato rurale del Brasile. Quando avevo 5 anni la mia famiglia
si trasferì nella cittadina di Aimorés. A neanche vent’anni
andai a Vitoria, la capitale dello Stato di Espirito Santo, per completare
il liceo e frequentare l’università. Dopo aver conosciuto
la mia futura moglie Lélia, ci siamo stabiliti in una metropoli,
Sao Paulo, dove ho proseguito gli studi per diventare economista. Poi
nel 1969, quando il Brasile era governato dai militari, siamo partiti
per l’Europa e abbiamo scoperto di essere ormai un po’ rifugiati,
un po’ immigrati, un po’ studenti. Trent’anni dopo,
abitiamo ancora in un paese straniero. Non sorprende quindi il senso di
identificazione e persino di complicità che provo per gli esuli,
gli emigranti, la gente che si rifà una vita lontano dal luogo
dov’è nata.»
Nel 1973 realizza un reportage sulla siccità del Sahel e poi uno
sulle condizioni di vita dei lavoratori immigrati in Europa. Nel 1974
entra nell’agenzia Sygma per documentare la rivoluzione
in Portogallo, la guerra in Angola e gli avvenimenti in Mozambico. Poi
si trasferisce, nel 1975, all’agenzia Gamma, e successivamente,
nel 1979, alla Magnum. I numerosi viaggi nei paesi dell’America
Latina, più di quindici fino al 1983, saranno sintetizzati nella
pubblicazione di Altre Americhe, un potente reportage sulle condizioni
di esistenza e di lavoro dei contadini. Nel 1984-1985, con l’organizzazione
umanitaria Medici Senza Frontiere realizza Sahel: L’uomo
in miseria. I suoi viaggi in Brasile, cominciati nel 1980, daranno
luogo alla mostra Terra, del 1996. Dal 1993 al 1999, in sette
anni di nomadismo fotografico, dal Vietnam all’Afghanistan, dall’Albania
alla Serbia, dall’Indonesia alle Filippine, dall’India alla
Cina, dal Brasile al Kurdistan iracheno fino all’Egitto e al Libano,
Salgado ha cercato di raccogliere la voce di masse umane ignorate dai
massmedia e annientate dalla globalizzazione trasformandole in informazione
plastica e storica della loro condizione esistenziale. La mostra di Cagliari,
come tutta l’attività del fotografo brasiliano, ha un significato
politico e sociale profondissimo, perché rappresenta in un unico
sguardo le contraddizioni del disequilibrio mondiale: «C’è
una cosa molto interessante e drammatica - dice Salgado - che sta accadendo
oggi. Il 15% circa della popolazione mondiale ha compiuto un sorta di
fuga verso il futuro e vive proiettata nel futuro, dimentica del resto
dell’umanità - la gran parte - lasciata indietro: l’85%
circa della popolazione mondiale è infatti costretta a vivere in
un passato da cui non riesce a staccarsi, in un mondo che non ha un presente».
Ritraendo l’uomo e la sua lotta per la sopravvivenza il fotogiornalista
mostra il lavoro al “lavoro”, mentre consegna cioè
l’uomo alla sua umanità più profonda: dalla raccolta
della canna da zucchero a Cuba e in Brasile alla raccolta del tè
in Ruanda, dai “formicai” delle miniere d’oro in Serra
Pelada in Brasile a quelle di zolfo in Indonesia, dalle tonnare siciliane
alle fabbriche automobilistiche in India, dalle acciaierie in Kazakhstan
alla costruzione del canale di irrigazione del Rajasthan fino all’Eurotunnel.
Uomini, donne e bambini di tutti i paesi raccontano con la geografia dei
loro corpi e con il linguaggio dei gesti quotidiani il lavoro di vivere,
la loro faticosa ricerca di una dimensione umana e vivibile dell’esistenza.
Lo fanno con una dignità che fa a pugni con lo stato di degrado
e di orrore (guerre e conflitti vari, fame, miseria, sfruttamento, malattie)
globalizzato in cui sono costretti a vivere, a ritagliarsi giorno per
giorno un angolo di mondo in cui lottare per respirare e per risperare
ancora.
I
momenti ripresi sono immobili, ma mai chiusi e prigionieri della fredda
superficie fotografica. Salgado riesce a farlo perché sono momenti
che pulsano di un’emozione concentrata, come solo la fotografia
in bianco e nero, che racconta ciò che mostra per quello che è,
riesce a fare. Il bianco e nero valorizza la forza espressiva e plastica
della luce, il cui movimento impastato, su una stampa spesso sgranata,
dà consistenza concreta e presente ai corpi, esponendoli ai tagli
morbidi e ad una grande profondità di campo che potenzia l’effetto
realistico. La forza espressiva è tale che chi guarda le foto è
proiettato in quei luoghi, tra quelle genti. Possiamo attraversare il
Ruanda nel bel mezzo del conflitto fratricida che semina morti tra hutu
e tutsi o della guerra civile nel Sudan meridionale. Poi andare in
America Latina per osservare l’esodo rurale e il disordine urbano
diffuso in quei paesi, tra gli indios dell’Amazzonia e
gli yanomami che vivono al confine con Venezuela e Guyana; o
tra i contadini ecuadoregni, le comunità zapatiste del Chiapas
e il Movimento dei Senza Terra del Brasile. Possiamo voltare lo sguardo
e sostare in Asia, tra gli indiani del Bihar, nell’isola di Mindanao
dentro l’arcipelago delle Filippine o in Vietnam tra i suoi contadini
e pescatori. Poi chiudere gli occhi e riaprirli mentre abbracciamo la
sofferenza e la dignità dei kurdi perseguitati in Turchia e in
Irak. Insomma cinquanta popoli in sette anni, realizzando reportage per
i quali ha ricevuto numerosissimi riconoscimenti internazionali, tra cui
lo Eugene Smith Award for Humanitarian Photography nel 1982,
l’Erna and Victor Hasselblad Award nel 1989, il Grand
Prix de la Ville de Paris nel 1991, l’Award Publication
dell’ International Center of Photography nel
1994 per il suo libro più importante - Workers - un eccezionale
documento sulle condizioni del lavoro nel mondo. Salgado fotografa per
non dimenticare e per stimolare un dibattito intorno a quello che accade
nel mondo: «Ho lavorato fra queste persone per sette anni. Li ho
visti spaventati, disorientati, umiliati, e ho capito come l’istinto
di sopravvivenza a volte si esprimesse attraverso l’odio, la violenza,
l’avidità. I massacri a cui ho assistito in Africa, Asia,
America Latina, e le pulizie etniche in Europa, mi hanno aiutato a capire,
come non avevo capito prima, che le cose sono strettamente legate fra
loro, in ogni punto della Terra. Siamo diventati un unico mondo e sopportiamo
le conseguenze del divario che cresce fra ricchi e poveri: trasformazione
dell’agricoltura, urbanizzazione selvaggia, distruzione ambientale...»
Sebastião Salgado è nato
nel 1944 a Aimores, in Brasile. Dopo una formazione universitaria di
economista e statistico decide, dopo una missione in Africa, di diventare
fotografo. Nel 1984-1985, con l'organizzazione umanitaria Medici Senza
Frontiere realizza Sahel: L'uomo in miseria.
Si occupa della questione della terra in Brasile a partire dal 1980.
(Foto: courtesy Agenzia fotografica Amazonas/Contrasto)
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