Ziqqurat n°5
Sommario
Il linguaggio della pittura
di Gianni Murtas
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Tra
rigore e
passione
Incontro con
Rosanna Rossi
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G. D.: Il Grande
cerchio, che alcuni anni fa hai realizzato sulla facciata di un
palazzo del centro di Cagliari, mi sembra un’opera chiave, un’opera
che permette di cogliere il senso più profondo della tua poetica
e del tuo rapporto con il mondo: rigore progettuale, passionalità,
interesse per il sociale. Quella che da lontano si percepisce nella
sua valenza formale di tipo geometrico, si rivela, poi, un’opera
carica di ulteriori significati: dai frammenti colorati di vetro riciclato,
non solo motivi cromatici e decorativi, ma elementi taglienti, alla
perfezione del cerchio, dall’integrazione e sinergia dei colori
alla dolorosa frammentazione dell'elemento materico.
R. R.: Per me, questo lavoro ha soprattutto il valore
del contrasto, della contrapposizione di un materiale - il vetro colorato,
rotto, crudele, ferente - all’interno di una struttura geometrica,
pulita, ordinata. Come molte mie opere, il Grande cerchio parte
da una poesia, in questo caso I limoni di Montale, quella che
parla dei cocci di vetro, infissi nei muri come nelle stradine dei quadri
di Rosai, che io ricordo di aver vissuto, da bambina, quando vivevo
in Toscana. Mi sono spesso ispirata ai grandi poeti del ’900,
cercando nella poesia una coincidenza soprattutto con gli aspetti visivi,
quelli che riguardano, più che la parola, il colore e la forma.
G.
D.: La componente geometrica, razionale, è una costante
che ritorna in tutta la tua produzione. Come mai senti tanto urgente
la necessità di dare ordine a questo tuo mondo?
R. R.: È un qualcosa di cui ho bisogno. Odio
l’approssimazione e, per questo, sento il bisogno di studiare
nel modo più approfondito ciò che voglio raccontare e
dire, e questo, ovviamente, mi porta a razionalizzare: non può
essere che così. L’equilibrio è necessario, anche
nel fare qualcosa di negativo, non perché esso sia il valore
massimo della positività, ma perché è quell’elemento
che ti permette di conseguire il fine che volevi raggiungere.
G. D.: Parli di equilibrio, ma nei tuoi quadri
l’elemento geometrico, per quanto presente, non è mai dato
come assoluto e definitivo, al contrario, mi pare che l’uso del
colore, o della forma, sia una modalità che utilizzi per alterare
proprio quell’equilibrio, per andare oltre quella che può
essere una perfezione e una fissità iniziale.
R. R.: Io non cerco l’equilibrio come forma stabile,
cerco un equilibrio che sia instabile, dinamico. E il problema sta proprio
qui: nel trovare un peso che nella sua differenza riequilibri la situazione
dall’altra parte. Io accetto, d’altronde, ma in fondo scelgo,
che nei miei quadri possa esservi da una parte equilibrio e, dall’altra,
anche un decentramento.
G. D.: Questo che tu chiami decentramento, questa
alterazione dell’equilibrio, mi pare ancora più evidente
nel tuo percorso, quando dai quadri passi ad opere che si caratterizzano
per una forte componente materica e, più tardi, negli anni Novanta,
all’installazione. Insomma, è come se il cambiamento, la
rottura dell’equilibrio ti portasse ad uscire dai quadri e ti
spingesse verso forme espressive diverse, si direbbe, più “libere”.
R.
R.: Forse ho preso più coscienza di me e, quindi, ora
oso di più. Ma anche prima, far accettare il mio lavoro - alcuni
dei miei quadri, dei miei acquerelli - non è stato facile, anzi…
Eppure, a quel tempo, ritenevo che quella fosse la libertà. Per
quanto riguarda la materia, oltre il fatto che l’uso di materiali
diversi è presente da tanto tempo nel mio lavoro, se noti, il
valore metodologico è sempre lo stesso; cioè, anche nelle
opere che presuppongono, apparentemente, una differenza di precisione,
anche là c’è una misurazione che la sottende, anche
se poi l’aspetto di superficie sembra uscire dalla regolamentazione
di linea più linea.
La mia prima installazione, comunque, l’ho fatta nel 1982 alla
Galleria comunale di Cagliari e, in quell’occasione, avevo utilizzato
della lana, dei cordoni di lana che avevo fissato al muro con dei chiodi.
Quell’opera, inspirata a Kandinskij, presentava lo stesso rigore
degli altri miei lavori. L’uso della lana mi era stato suggerito,
oltre che da un contesto riguardante il “femminile”, da
un ricordo d’infanzia. Da piccola, infatti, aiutavo le donne del
paese dov’eravamo sfollati a fare cordoni che poi venivano utilizzati
per gli usi più disparati. Dopo questa prima installazione, però,
non sono andata avanti ed è stato solo dieci anni dopo, nel ’92,
che ne ho realizzato un’altra: le installazioni si possono realizzare
solo se esistono spazi idonei per accoglierle, e io non ne avevo ...
G. D.: Mi colpisce la tua vastissima produzione.
È come se, per te, il lavoro fosse una grande passione ma anche,
allo stesso tempo, una “sfida”: nei confronti di te stessa,
degli altri, dell’arte…
R. R.: Ho sempre invidiato gli artisti che hanno potuto
lavorare dietro commissione e ciò, forse, per la mia necessità
di sentirmi utile. Quindi, in mancanza di una commissione esterna, sono
sempre stata la committente delle mie opere. Ho i cassetti pieni di
appunti, non appunti isolati, ma serie di 50/70 lavori, come delle note
di viaggio, piccole cose che nessuno vedrà mai. Ogni lavoro è
una scalata e, però, il piacere è sempre quello del confronto
con gli altri.
Ritengo che l’arte debba suscitare meraviglia. In genere, tendo
a fare qualcosa che sconvolga la mente di un altro, anche se, certamente,
non in termini distruttivi. Insomma, il valore verso cui l’arte
tende non è certo l’acquiescenza. È evidente, che
nel momento in cui ti trovi davanti una superficie bianca, senza tracce,
e la modifichi, è perché vuoi cambiare quella superficie
e, in realtà quello che vuoi modificare è il rapporto
con il mondo. È per questo che lavoro.
In questo senso, la sfida è sempre presente nei miei lavori,
nei primi come nei più recenti, incisioni di grande formato.
Fare incisione, cimentarmi manualmente, in un certo senso, costituisce
anche questo una sfida in un mondo che vive di tecnologia.
G. D.: Prima abbiamo parlato del sentimento della
libertà, che ti ha portato, soprattutto negli ultimi anni, a
rompere gli equilibri, le griglie razionali, per far emergere l’istintività,
la passione. È possibile che l’aver espresso tutto questo
anche attraverso l’uso di un’iconografia legata al femminile
- guanti da cucina, pagliette di metallo, spazzole - sia nato da una
sempre maggiore capacità di autoriconoscimento del tuo essere
donna?
R. R.: Sono cresciuta in un’epoca in cui firmarsi
Rosanna Rossi, a Cagliari, significava dichiarare il proprio sesso,
per cui i primi quadri li firmavo R. Rossi. Mia madre, che comprava
i miei quadri per sovvenzionarmi, sentiva ciò che dicevano gli
altri: «Bravo, questo R. Rossi». Nessuno pensava che fossi
una donna e anche ciò, per me, è stato un motivo di lotta.
Forse, ora, per le giovani generazioni non è più così.
G.
D.: Però, quella componente femminile che hai negato
in te, in questi anni recenti è comparsa prepotentemente nel
tuo lavoro.
R. R.: In Étoile, il lavoro dei guanti
gialli, ci sono diversi spunti. Intanto, sono partita da un’emozione,
le Panatenaike di Fidia, e da alcuni riferimenti all’arte
del ’900, Sironi, De Chirico, il significato del guanto vuoto.
A questo aggiungi l’altro riferimento, contemporaneo e americano:
quello delle Star che immergono le mani nel cemento e che utilizzano
la propria impronta per lasciare un segno di sé nella storia.
Così, ho fatto quest’opera pensando ai guanti di una donna
qualsiasi e che lavora in casa, che li utilizza per non sporcarsi le
mani o per non rovinarsi le unghie. Guanti gialli, perché giallo
è il colore dell’intelligenza, della luce ,e che ho chiamati
Étoile, cioè “stella” , “diva”
col termine europeo, rivendicando anche in questo una cultura non americana,
ma europea e pensando alle Panatenaike, cioè alla nostra
cultura: al susseguirsi di fanciulle che formano il corteo, che si muovono
lentamente, che vanno verso l’altare avvolte nei loro drappi.
Insomma, è un lavoro fatto con ironia nei confronti dell’America
ma anche con la coscienza che la storia ha stratificato dentro di te
immagini, suoni, che appartengono a tutto il tuo contesto. Mentre i
guanti d’artista, quelli neri, sono drammatici perché
acquisiscono altri pensieri, non certo di vitalità e gioia.
G. D.: E il lavoro con le spazzole? Anche lì
c’è un elemento femminile.
R. R.: No, non è proprio così. Mentre
il richiamo al femminile è voluto nei lavori dei guanti e delle
pagliette di ferro, in quello con le spazzole è stato casuale.
Ero in una drogheria e sono stata entusiasmata da quel giallo e, allora,
ho pensato che avrei potuto realizzare un quadro con quegli oggetti.
G. D.: Nei tuoi lavori procedi spesso attraverso
la serialità. Una volta hai detto che questo modo di procedere
ha a che vedere con i tuoi ricordi infantili del periodo della guerra.
In che modo, però, l’esperienza della guerra entra nella
tua ricerca?
R. R.: Credo che la ripetitività, la serialità
che c’è nel mio lavoro, dove una stessa immagine è
ripetuta costantemente anche se diversificata in dettagli minimi, dipende
da cose che io ricordo, da racconti, da immagini che ho visto dopo la
guerra. Da bambina stavo in un piccolo paese, Gragnola, sulla Linea
Gotica e spesso scappavo di casa per andare vicino alla ferrovia a vedere
passare i treni. Mi è capitato di vedere passare dei treni che
trasportavano ebrei, dei carri bestiame con delle facce dietro i finestrini
col filo spinato e delle mani che ne uscivano fuori. Ho sempre vivo
il ricordo di quelle mani che uscivano dalle fenditure dei vagoni, le
stesse immagini che ho visto poi nei film e nelle fotografie. Ma era
il numero quello che mi sconvolgeva, la quantità: la quantità
dei morti, ma anche la quantità dei vivi. Mi aveva colpito particolarmente
la prima immagine che avevo visto di questi uomini, i letti a castello
con le facce delle persone, da qui è nato il lavoro con le pagliette
di metallo dove ho cercato di rendere il senso della ripetizione. Il
numero è ciò che mi è rimasto sempre impresso:
le moltitudini di gente, le ossa degli uomini nelle fosse, i buchi delle
pallottole nei corpi, le facce dentro il treno. Ma l'uccisione di massa
è quello che, oggi, mi sconvolge ancora.
G. D.: La tua attività artistica è
iniziata fuori dalla Sardegna. Cosa è cambiato da allora ad oggi?
Cosa ricordi dei tuoi inizi come artista, la vita a Roma, il rientro
in Sardegna e i limiti di questa rispetto alla capitale?
R. R.: Sai, a Roma ho fatto delle esperienze straordinarie,
poi sono tornata qua e ho dovuto faticare per mettermi in rapporto con
una realtà che era totalmente diversa da quella che avevo vissuto
fino ad allora, ho dovuto ricominciare da zero perché a Cagliari
c’era una situazione totalmente diversa da quella romana. Per
questo ho legato con artisti che, come me, venivano da fuori, Primo
Pantoli, Gaetano Brundu, artisti con i quali avevo la possibilità
di discutere su quello che si faceva. Pensa che raccoglievamo dai giornali
tutte le informazioni che trovavamo su un pittore che ci interessava,
poi ci riunivamo e discutevamo, cercavamo di capire il perché
delle cose. Alla mia generazione sono mancate alcune condizioni, al
massimo potevamo avere una galleria autogestita, ancora non c’era
la galleria comunale.
G.
D.: Però, in Sardegna hai incontrato Mauro Manca.
Quanto la sua figura ha contato sulla tua formazione?
R. R.: Devo dire che in quegli anni Mauro Manca mi
è stato davvero molto vicino. Allora, erano i tempi della disputa
fra astratto e figurativo, e io lavoravo sulla figura. È stato
lui che, buttandomi allo sbaraglio, mi ha aiutato a trovare la mia dimensione
che io, allora, non avevo ancora messo a fuoco.
Quelli sono stati anche gli anni dei viaggi: sono sempre partita per
cercare compagni, per cercare padri, che so, Klee o Soto, o Vasarely
in certi periodi, oppure Giacometti. Ho fatto un giro di musei in Europa,
proprio alla ricerca di questi compagni di avventura.
G. D.: Ed oggi, come vedi la situazione dell’arte
in Sardegna, a distanza di tanti anni?
R. R.: Oggi, in Sardegna, gli operatori artistici,
i critici, non visitano gli studi degli artisti e questo limita la possibilità
di una crescita degli artisti stessi attraverso la discussione e l’incontro.
In questo modo ci vuole molta costanza, molta forza, devi realmente
credere in quello che fai, devi costantemente rinnovarti, devi sognare
costantemente. Io non penso che altrove sia così.
Nel ’58-’60, ci si riuniva tutti, ci si incontrava, si discuteva
sul lavoro che si faceva e questo era vitale: allora c’era il
Centro di cultura democratica. Il Centro era frequentato da quello che
al tempo era il fior fiore dei critici e degli intellettuali, molti
dei quali ora sono morti: Manacorda, Dorfles, Scirese, Maltese, Rosiello.
Si cercava di essere uniti nella discussione che riguardava l’arte,
il gesto dell’arte, che è sempre qualcosa di più
profondo del semplice fare artistico, riserva delle sorprese, che essenzialmente
sono le visioni del mondo, e se non discuti quelle…
G.
D.: Tanti anni dedicati alla ricerca, tanti anni di lotte
e di grandi passioni. Oggi, a distanza di tempo, come vivi il tuo rapporto
con l’arte?
R. R.: Una cosa che ho capito da non molti anni è
che l’arte è tutta un battito cardiaco: è respirare,
essere vivi. Il battito cardiaco ti dà il ritmo. Se hai un affanno,
se sei ripiegato su te stesso, se hai un battito accelerato, forse hai
corso. Se sei calmo e sereno forse stai solo guardando, pensando, dormendo.
Per me l’arte dev’essere proprio come lo scorrere del sangue
nelle vene. È un respirare diversamente anche quando uso un piccolo
pennello per fare una parete di 2 metri per 2. Faccio un lavoro grande
pur essendo il mezzo tecnico piccolo, perché il respiro diventa
un’altra cosa. Poi ci sono, naturalmente, momenti in cui mi sento
triste, depressa, penso soltanto a ciò che vivo, alle notizie
che mi arrivano dal mondo e le metto nei miei lavori. Spesso ho dedicato
delle opere agli avvenimenti del nostro tempo: ho fatto una incisione
sulle Twin Towers, ho fatto molti quadri dedicati a Borsellino, a Sarajevo,
e altri ancora.
G. D.: Però, è evidente che un lavoro
come Gerusalemme, la “porta” di filo spinato, segna un passaggio
importante nella tua ricerca, anche se vi compaiono elementi presenti
in altre opere, un passaggio che, magari, non è avvenuto per
altri della tua generazione.
R. R.: Ma l’arte cresce, non puoi non metterti
in discussione. Io sono così innamorata di quello che faccio
che qualsiasi cosa diventa per me pretesto per continuare ad essere
innamorata.
G. D.: Non tutti accettano, però, di mettersi
in discussione. Nel tuo caso, invece, sembra che il rimetterti continuamente
in gioco sia come un prolungamento naturale di uno stato giocoso, infantile.
R. R.: Credo che l’infanzia sia il momento della
vita che ti lega a te stessa, per sempre. C’era una frase che
avevo scritto molto tempo fa per una prima mostra a Roma. Avevo scritto
che, da bambina, quando i miei genitori mi lasciavano da qualche parte,
andavo a cercare dei sassolini bianchi, piccoli piccoli. Li prendevo
e li mangiavo, così mi sembrava di prendere il sole, e ce
n’erano tanti, piccolissimi e luminosi. Anche allora, insomma,
era la luce ciò che maggiormente mi affascinava. Una volta ero
malata e mio padre mi aveva portato dei colori. Ricordo ancora il primo
disegno, avevo tre anni. In fondo, io passo il tempo ancora così,
come allora…
Rosanna Rossi è nata a Cagliari dove vive e lavora.
Il
linguaggio della
pittura
di Gianni Murtas
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La presenza di una
componente vitalistica che si affianca e si contrappone ad un’altra
più analitica e razionale è una costante della pittura
di Rosanna Rossi. La tensione tra sentimento e ragione non è
infatti prerogativa di un particolare momento, ma attraversa tutta
la sua produzione segnandone in profondità il lungo e articolato
percorso.
Dalle prime prove figurative sul finire degli anni Cinquanta fino
alla composita astrazione dell'ultimo periodo, la sua ricerca si
definisce sempre più chiaramente come un inseparabile connubio
di volontà espressiva e rigore progettuale.
Questa spiccata ambivalenza, che negli esordi si traduceva in istintivi
cambi di registro stilistico, o in un inquieto vagare fra le connotazioni
esistenziali della figura e le declinazioni materico-gestuali del
segno, col tempo è diventata una strategia complessa, arricchendo
il linguaggio pittorico di infinite sfumature poetiche. Così
l’abbandono della figurazione ha assunto per Rossi una
dimensione tendenzialmente sincretistica, espandendosi tra il polo
astratto-informale e quello neoconcreto in un misuratissimo lavoro
di sintesi formale. Senza mai uscire dai confini di una raffinata
manualità, la pittura si è fatta di volta in volta
strumento di analisi e di racconto, di costruzione e di espressione;
tanto che il muoversi su crinali metodologici storicamente in contrasto,
l’oscillare tra versanti opposti della sintassi pittorica
alla ricerca di un equilibrio fra il dato mentale e quello oggettuale
dell’opera hanno finito per avere un ruolo decisivo nella
sua ricerca.
Il processo di interpolazione dei due universi semantici avviene
gradualmente, ma già i lavori degli anni Sessanta, caratterizzati
da sperimentazioni aniconiche di matrice astratto-concreta, rivelano
una precisa intenzionalità nel fondere le suggestioni naturalistiche
del colore con l’artificiosità spaziale del segno e
della superficie. È però nei primi anni Settanta,
con le “modulazioni cromatiche”, che la pittura di Rossi
definisce i suoi connotati più peculiari. Sospesa tra l’ordine
progettuale di una geometria morbida che limita l’interpretazione
simbolica del gesto creativo riconducendo le pulsioni istintive
all’oggettività dei codici linguistici, e l’ansia
esistenziale di un segno che mantiene comunque forti connotazioni
espressive e condiziona l’esecuzione, l’astrazione assume
una dimensione insolitamente aperta, che sembra affermare e negare
nello stesso tempo il valore assoluto della forma.
Gli sviluppi successivi sono in gran parte compresi in queste premesse.
Dal linearismo costruttivo delle Cartesiane alla geometria
minimale delle composizioni a bande orizzontali, dalle sintesi modulari
della geometria segnica degli anni Ottanta ai ritorni informali
delle recenti sequenze circolari, è un continuo alternarsi
e sovrapporsi di istanze razionali e di emergenze espressive che
si incontrano e si scontrano generando un crogiolo di traiettorie
stilistiche. Il prevalere ora delle valenze emotive, ora di quelle
più fredde e concettuali del linguaggio astratto non comporta
però fratture e contrapposizioni frontali tra un ambito e
l’altro. I sistemi linguistici che danno origine alle sintesi
formali non nascono infatti su ipotesi teoriche alternative, ma
da un atteggiamento quanto mai empirico che filtra tanto la fredda
autoreferenzialità dei processi di costruzione pittorica
che le connotazioni esistenziale del colore e del segno.
Passata attraverso tutte le declinazioni della nuova astrazione,
l’artista sembra volerne armonizzare i confini semantici riducendo
le valenze ideologiche per far posto ad una maggiore disponibilità
al soggettivo, al contingente. Senza disperdere la sapienza linguistica
e le potenzialità simboliche progressivamente accumulate
negli anni, la pittura salda nel vissuto le sollecitazioni eterogenee
che l’alimentano, generando una ricerca sempre lucidamente
pensata ma comunque attenta alle ragioni del cuore. Abituati a pensare
la trasversalità e la dimensione soggettiva dell'operare
estetico come un prodotto della crisi del Moderno, si finisce, in
questo caso, per scoprire una multiformità stilistica e poetica
di tutt’altra natura. Che un tale modo mediato ed obliquo
di rapportarsi con la storia dell’astrazione sia per certi
versi paragonabile all’approccio del Postmoderno nei confronti
della tradizione d’avanguardia è vero, però
occorre tener conto che per Rossi il percorso di trasformazione
resta saldamente ancorato agli orizzonti del Moderno: di un Moderno
capace però di rileggersi e di ripensarsi senza aspettare
le meccaniche onde del riflusso. Semmai va sottolineato come, superata
l’ottica manichea che risolveva la contrapposizione tra soggettivo
e oggettivo, tra ordine progettuale e libertà espressiva,
in una inevitabile antinomia ideologica, sia più facile riconoscere
che le ricerche di confine si siano rivelate le più ricche
di esiti creativi. E non per una maggiore e superficiale rispondenza
ai precetti rigorosamente antideologici e antiprogressivi del Postmoderno,
ma per la qualità delle sintesi simboliche e formali, per
la capacità di approfondire maggiormente l’analisi
degli elementi intrinsecamente estetici del linguaggio visivo.
Nata sotto il segno di una irrinunciabile ambivalenza stilistica,
la ricerca di Rossi ha saputo trasformare l’apparente irresolutezza
in una qualità metodologica di grande spessore poetico,
in una avventura creativa ancora capace di arricchire gli orizzonti
dell’astrazione contemporanea. E forse in questi termini
risulterà più facile capire come il salto dal figurativo
all’astratto prima, e il continuo oscillare tra le molte
declinazione dell'esperienza astrattista poi, sia stata non solo
un passaggio maturato nel confronto col contesto esterno della
ricerca, ma un’esigenza interna del suo percorso poetico,
un progressivo tradursi degli spunti esistenziali nel linguaggio
puro della pittura. |
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