Ziqqurat n°5
Sommario
Un mondo definito perfetto
di Erno Vroonen
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Incontro con
Fasoli
m&m
di Antonello Fresu
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SPAZIinterattivi |
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A.
F.: Il titolo Spazio interattivo, comune a tutti
i vostri lavori, sembra voler attribuire allo spazio una dimensione dinamica,
in cui coesistono tensioni diverse: da un lato quelle relative ai binomi
uomo/natura, uomo/città, uomo/cultura, da voi rappresentati, dall’altro
il contatto profondo che vi lega, attraverso i viaggi, alle dirette sollecitazioni
dei contesti indagati.
m&m: Si, è vero, il confronto con ambienti
diversi, esperienze diverse, gente diversa, è stato da sempre una
costante della nostra ricerca. Per questo chiamiamo il nostro lavoro “spazio
interattivo”, perché nel confronto, nel dialogo, esiste comunque
uno scambio di energia che, all’interno di un dato “spazio”,
modifica e fa crescere sia noi che l’altro, a cui ci rapportiamo.
L’idea di uno spazio, quindi, come qualcosa di più di una
semplice addizione degli elementi che lo compongono.
A. F.: L’interazione di cui parlate presuppone
la possibilità di un confronto, tuttavia, nelle vostre opere, e
particolarmente in quelle più recenti dedicate ai contesti metropolitani,
si avverte distintamente e in maniera sempre più evidente una sensazione
di rarefazione, di solitudine, un’assenza di comunicazione, di interazione.
m&m: È difficile dire se siamo noi ad andare
in questa direzione: certo, è un’analisi sempre più
dura, più cruda. Il contesto metropolitano, che tu arrivi a Londra,
a New York o a Bangkok non cambia, è sempre uguale: la grande metropoli
ha una sua realtà rispetto alla quale l’uomo è solo.
Arrivando a Parigi, ad esempio, siamo stati colpiti da un uomo solo, stanco,
che, nella metropolitana, aspettava il treno. Siamo rimasti colpiti dal
suo volto - dietro il quale c’era un grande cartello pubblicitario
- e dal contrasto, tra questo e la realtà nella quale quell’uomo
era immerso, in modo, forse, non cosciente. Questa constatazione ha portato
all’inserimento virtuale, nei lavori su Parigi, di personaggi nudi:
degli uomini, una donna che allatta. Da un lato, cioè, la realtà
dell’uomo e, dall’altro, la realtà della pubblicità
che, comunque, appare come un’altra dimensione, completamente distante
dalle persone reali.
A. F.: Le persone nude sono presenti sia nella serie
della metropolitana di Parigi come anche nelle serie dei palazzi di Londra
o di New York, ma la loro nudità non ha alcuna valenza di tipo
erotico o sessuale. Come mai sono nudi?
m&m: Perché, nudo, l’uomo è più
uomo, è più se stesso. Potrebbero essere anche vestiti ma
sarebbe una finzione. Lo sguardo all’interno delle finestre di Londra
e New York è uno sguardo all’interno di ognuno di noi, della
nostra realtà, della nostra cultura, della nostra storia, della
nostra quotidianità, e ciò in contrasto con la pubblicità
o i graffiti dei muri esterni. Nel Bronx, a New York, i neri anziché
dipingere la propria pelle dipingono i palazzi. Per cui i muri, con i
graffiti ma anche con la pubblicità, registrano i segni della cultura
metropolitana, la storia della città, così come altrove,
in Africa o tra i nativi americani, altri uomini registrano gli avvenimenti
della loro vita sulla propria pelle. Ecco, è come se i muri fossero
la pelle dei palazzi, la pelle della città.
A.
F.: La pelle, come luogo della scrittura, del segno, è
un tema ricorrente nel vostro lavoro. In che modo è nata questa
attenzione per l’elemento “pelle”?
m&m: Il progetto sulla pelle è nato durante
il nostro primo viaggio in India. In quell’occasione avevamo portato
con noi, per la prima volta durante un viaggio una macchina fotografica
perché, senza altro intento oltre la “memoria”, volevamo
registrare tutto quello che si presentava davanti ai nostri occhi. Tra
le tante cose, ci avevano particolarmente colpito dei segni trovati su
una spiaggia, segni creati dal movimento delle onde che trasportavano
delle pagliuzze di mica che “scrivevano” sulla superficie
sabbiosa. La macchina ci ha permesso di focalizzare quei segni, ma questo
è accaduto anche perché, vivendo là, pian piano abbiamo
cominciato a “leggere” la natura senza i nostri filtri culturali:
ecco, questa è stata la partenza del nostro lavoro fotografico.
L’attenzione nei confronti della natura e dei segni che la natura
stessa scrive sulle varie superfici ci aveva portato, così, a pensare
al territorio, alle stratificazione del tempo, alle ere trascorse e, di
conseguenza, alla comparsa dell’uomo che quella terra ha lavorato
e sulla quale ha lasciato i segni della sua storia e della sua presenza.
Tornati in Italia ci siamo documentati in modo approfondito e siamo andati
in Kenya alla ricerca del luogo “originario”.
A. F.: Per cui, in realtà, quello dell’Africa
è stato il vostro primo vero lavoro fotografico?
m&m: Sì, è così. Tra l’altro,
in questo lavoro, non compare ancora alcuna tecnica di elaborazione digitale.
Si può dire che quello dell’Africa sia stato un progetto,
l’unico, preparato con tanta meticolosità prima della partenza.
Avevamo intuito che sul Turkana, meta del nostro viaggio, potevamo trovare
le origini dell’uomo e siamo andati là proprio per cercare
queste origini. Gli abitanti del luogo scrivono sul proprio corpo la loro
storia, gli avvenimenti più importanti: fanno dei tagli che sono
dei codici, il cui significato varia se sono
fatti sul davanti o sul dietro del corpo, poiché per tutti gli
accadimenti - il matrimonio, una morte, un figlio - tutto viene scritto
e ha un suo codice. La memoria è, quindi, non solo dentro
ma anche sulla pelle e gli accadimenti esterni vengono timbrati
sul corpo. Questi indigeni usano abbellire i loro vestiti con pizzi e
bordini colorati, e noi abbiamo fotografato proprio questi ornamenti,
sia proiettati come ombre sui loro corpi che poggiati direttamente sulla
loro pelle, perché questo creava una scrittura, non proprio occidentale,
ma quasi, per la presenza di questi manufatti.
A. F.: Quanto tempo avete trascorso in Africa?
m&m: Abbastanza. In genere questi viaggi durano un
mese o due: i primi 20 giorni servono per dimenticare chi sei, per dimenticare
la tua storia. Anche le funzioni vitali, per esempio, richiedono un periodo
di adattamento. Inoltre bisogna perdere anche le difese che puoi avere,
e poi si comincia a capire di più come avviene un’interazione.
Occorre che i tempi si preparino, ci vuole tempo, e non solo per arrivare
fisicamente sul posto, inoltre ci sono diverse difficoltà.
A. F.: Alla ricerca sulla pelle appartiene, mi pare,
anche la serie di scatti dedicata a Venezia. In questo nuovo contesto,
la pelle interagisce con degli insetti di vetro, come mai?
m&m: Quella di Venezia è una fase successiva,
è la scrittura che il mondo occidentale fa sul suo corpo. Noi eravamo
rimasti impressionati dalla pelle dell’Africa, che ci aveva fatto
riflettere sulla differenza di pelle che effettivamente esiste tra noi
e loro. Tornati a casa abbiamo pensato che, sebbene apparentemente priva
di storia, anche la nostra pelle porta i segni della cultura occidentale,
della nostra cultura. Nella serie di Venezia, abbiamo lavorato proprio
su una realtà culturale. Mentre per loro, l’ombra, la scrittura,
è storia, una storia “naturale”, noi viviamo con difficoltà
il rapporto con la natura, che abbiamo rappresentato simbolicamente con
degli insetti, quegli stessi insetti che tendiamo sempre ad allontanare
dal nostro corpo. Li abbiamo fatti realizzare in vetro in modo accurato,
da un artigiano di Venezia, e poi noi li abbiamo appoggiati sui corpi.
A.
F.: Come mai avete scelto il vetro?
m&m: È stata una scelta ponderata: dato il
nostro modo di lavorare, non potevamo permetterci di utilizzare degli
insetti morti. Abbiamo pensato di fotografare un insetto vivo ma era difficilissimo
tenerlo fermo. Utilizzando l’artigiano, d’altronde, abbiamo
voluto sottolineare l’idea dell’interazione, della cultura
di Venezia, della città.
A. F.: Il lavoro di Venezia è successivo di
molto a quello sull’Africa?
m&m: È all’incirca dello stesso anno.
Poi c’è stata la Birmania, e qui il progetto è nato
perché qualcuno ci ha raccontato di questo popolo non ancora contaminato
dal turismo, e questo ci piaceva. Inoltre, era una realtà lontana,
dove il buddismo ha una sua espressione che non è soltanto di tipo
religioso, ma è la vita del popolo, c’è la quotidianità
e il tempo che scorre, e a noi interessava confrontarci con questo. Tuttavia,
una volta lì, i giorni trascorrevano e sembrava che la Birmania
fosse vuota, insignificante. Pensavamo di tornare a casa perché
non accadeva niente. Poi, pian piano, ci siamo resi conto che il nostro
modo di camminare, di parlare, di essere, aveva assunto dei ritmi diversi,
senza che noi ce ne fossimo accorti. Il loro modo di essere era entrato
dentro di noi. C’era una dolcezza, una armonia nei rapporti, tutto
era molto equilibrato. Insomma, in Birmania si viveva questa linearità
delle cose per cui l’uomo è all’interno della natura,
è il centro stesso della natura e vive in armonia e in simbiosi
con essa. È un’esigenza dettata proprio dal territorio e
dal suo rapporto con il mondo religioso. Per questo, forse, le opere realizzate
in Birmania, una serie di trittici in cui il corpo dell’uomo è
posto in posizione centrale e la natura ai suoi lati, hanno una valenza
di tipo di religioso, pur rappresentando un uomo in rapporto con la natura.
A. F.: Anche in queste opere, mi pare, il corpo è
un corpo segnato, un corpo in cui, ancora una volta, è riconoscibile
l’interazione con l’ambiente.
m&m: Sì, anche qui ci sono i momenti della
vita, la maternità, ad esempio. Su queste
donne, su questa gente, c’è una storia di vita: una vita
difficile. Le donne portano i segni di tagli cesarei molto violenti. Gli
uomini lavorano duramente, hanno delle distorsioni nella struttura muscolare
e, a volte, la spina dorsale è distorta dalla fatica, perché
lavoravano nelle risaie. La nostra interazione con il corpo, in questo
caso, è stata il chicco di riso. In Birmania, per la verità,
non stavamo cercando un’interazione, però abbiamo notato
che un chicco di riso non è un chicco di riso, assume invece una
valenza quasi religiosa perché, oltre ad essere l’elemento
più importante, diventa quasi un simbolo: quando arrivi in una
casa ti offrono un po’ di riso bollito, il migliore che hanno.
A. F.: E l’India? Anche lì avete fatto
un’esperienza simile?
m&m: Siamo andati in India pensando ad un progetto
sui serpenti che poi non è stato possibile realizzare. Ma mentre
eravamo là siamo rimasti colpiti dai cartelloni, dipinti a mano,
di pubblicità cinematografiche. Immagina un cartellone enorme,
di bambù: il pittore, generalmente un ragazzo, si arrampica e senza
mai scendere, partendo da un angolo o da un punto centrale, riempie il
quadro senza poterlo vedere da lontano. Costruisce una scena, anche complessa,
senza il reticolo, senza una traccia in carboncino, e il lavoro non viene
ritoccato. Questo ci ha molto incuriosito e, allora, abbiamo cercato il
ragazzo giusto, la persona più adatta a fare questo lavoro con
noi. Abbiamo fotografato delle persone, dei modelli, e queste immagini
sono state tradotte in pittura. A questo punto, noi abbiamo fotografato
la pittura e, successivamente, siamo intervenuti con la solita elaborazione
al computer.
A. F.: Come mai non avete fotografato i cartelloni
pubblicitari già esistenti e usato quelli?
m&m: Perché altrimenti sarebbe venuto meno
il rapporto con la realtà di quel dato contesto. Per quanto riguarda
le altre immagini che compaiono nella serie fotografica, la provenienza
è diversa: gli elefanti sono veri, le tigri sono prese da un cartellone
pubblicitario, i cavalli sono sculture vere e così via.
A.
F.: Mi colpisce molto il fatto che, nel vostro lavoro, nonostante
l’attenzione per il paesaggio, per gli animali, la natura sembra
assente. Soprattutto negli ultimi lavori, l’unico elemento naturale
è l’uomo, che però, tra l’altro, è sempre
meno “uomo”. C’è come un passaggio verso spazi
sempre più virtuali e sempre più complessi e anche, mi pare,
sempre più rarefatti.
m&m: Questo è il valore che, a nostro avviso,
il tempo di oggi attribuisce all’uomo e quindi alla natura. La natura
sta scomparendo: questa è la nostra realtà, o perlomeno,
la realtà come noi la intendiamo. La natura, per l’uomo d’oggi,
è solo un qualcosa da cui attingere energie e basta. Anche l’uomo
sta scomparendo, sta diventando qualcosa di virtuale e, nei nostri quadri,
l’inserimento del manichino non è casuale, serve a stabilire
il passaggio tra l’uomo “natura” e l’uomo “virtuale”.
A. F.: C’è da dire, però, che
voi fate una scelta dei contesti da rappresentare e mi sembra che, ultimamente,
i contesti più “primitivi” stiano stati messi un po’
da parte.
m&m: I contesti più primitivi sono stati messi
da parte non da noi, ma dalla vita che scorre.
A. F.: Il vostro, essenzialmente, è un confronto
con l’uomo e sull’uomo e la presenza umana si coglie visibilmente
in tutti i vostri lavori. Però, nonostante ciò, gli “spazi
interattivi” sono
individuati da una sequenza numerica, come se, in realtà, ci fosse
una sorta di annullamento nei titoli, come se ci fosse un intento classificatorio.
m&m: Crediamo che l’uomo sia comunque il trascorrere
del tempo, non crediamo che si possa vivere a prescindere dal tempo che
scorre, quindi la sequenza che noi creiamo con la nostra numerazione stabilisce
questo: stabilisce, cioè, che l’uomo è vissuto, che
noi siamo vissuti, che noi abbiamo fatto questa esperienza. Il solo titolo,
senza la numerazione, non sarebbe una puntualizzazione.
A. F.: Quindi questo indica una progressione piuttosto
che una classificazione?
m&m: Sì, assolutamente. È una progressione.
Quello della classificazione è un concetto contrario alla nostra
ricerca. Questa sequenza, questa scala, è il trascorrere della
nostra vita, è il trascorrere del nostro tempo.
A. F.: Se questa progressione rappresenta in qualche
modo anche una vostra trasformazione, allora mi chiedo se la vostra opera
sia, non tanto l’immagine digitale, che è in fondo l’ultimo
momento del lavoro, quanto piuttosto l’aver vissuto all’interno
di una certa esperienza, di una certa cultura. Se non sia, insomma, la
vita stessa.
m&m: Non esiste l’opera che abbiamo fatto,
siamo noi che esistiamo. C’è un po’ di presunzione
in questa affermazione, ma la nostra aspettativa, la nostra speranza,
è che il nostro trascorrere sia tutto un’opera. È
il nostro obiettivo.
Paola Piantavigna e Giancarlo Fasoli sono nati a Verona. Vivono
e lavorano a Martignano (TN).
L’uomo
e la città
Un mondo definito
perfetto |
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di Erno Vroonen |
C’è
qualcosa di complesso nella pittura digitale di Fasoli m&m.
Guardiamola più da vicino.
Non sono i loro paesaggi e i loro ambienti urbani affascinanti e
invitanti? I colori sono brillanti e scintillanti, il verde è
veramente verde, l'arancione è un arancione forte, potente.
Sono colori stranamente naturali. O forse fingono soltanto d'essere
reali? E che cosa pensare delle storiche architetture usate come
scene di fondo per una selettiva presenza umana? Si riconoscono
le origini delle case e del paesaggio, ma in un’ottica che
rende impossibile dare questa dignità ad un luogo definito
in uno spazio e in un tempo reali. Non ultimo si rimane affascinati
dall’elegante presenza di figure umane apparentemente integrate
nel loro ambiente: sono come Adamo ed Eva nel paradiso terrestre.
Ma proprio come in paradiso il mondo della pittura digitale presentatoci
dai due artisti esiste solamente come un sogno o una fantasia, e
nonostante lo spettatore diventi lentamente consapevole di ciò,
egli spera silenziosamente di esserne parte. Qualcosa però
lo trattiene e lo costringe a fare un passo indietro.
Sarebbe interessante sapere che cosa di preciso crei questo sentimento
di alienazione tra l’immagine e l’osservatore. Potremmo
individuare alcune possibili ragioni. Prima di tutto c’è
una mancanza d’ombre. È come se la luce provenisse
dall’interno dell’immagine stessa.
Naturalmente questo può essere spiegato tecnicamente: le
immagini sono prodotte e stampate per mezzo del computer. La collaborazione
tra i Fasoli e il computer non sarebbe così perfetta se le
tre parti non funzionassero in maniera armonica tra loro. Paola
trova le immagini originali e Giancarlo crea, con il fantastico
e le elaborazioni al computer, delle pitture digitali.
Ma poiché non sono coinvolte ombre, queste pitture diventano
senza tempo. Guardarle rende ansiosi, è come vedere il mondo
dal di dentro è come essere i padroni dell’universo
interiore. Un secondo motivo di alienazione può essere trovato
nel mosaico di differenti elementi visivi ben organizzati dai Fasoli
all’interno della cornice dello schermo del computer. Si potrebbe
creare una similitudine con il lavoro di un architetto che progettava
giardini al tempo di Luigi XIV. Ma come sappiamo i “giardini
di Versailles”, più che la loro bellezza, riflettevano
il potere del re stesso. A differenza degli architetti dei giardini,
Fasoli m&m manipolano la realtà e la natura per mostrarci,
non tanto il potere, quanto il pericolo di una società altamente
elettronica. Nei loro ultimi lavori vi è la presenza di una
donna, creata dal computer, che si può definire elettronica.
Lei serve come punto di riferimento per la manipolazione stessa.
Questo confronto forza lo spettatore a fare un passo indietro e
ad interrogare questa nuova realtà. Forse non siamo per niente
a confronto con questo mondo definito perfetto. In realtà,
la visione dei Nostri del XXI secolo è più sottile.
È accettabile assumere il ruolo di Dio e manipolare ciò
che la natura ha creato, al di fuori della Sua forza, in migliaia
d'anni. E se noi siamo in grado di creare e distruggere la vita
in un secondo, siamo anche consapevoli della responsabilità
nei confronti del nostro ambiente naturale.
Sebbene Fasoli m&m nei loro lavori s’interroghino sui
ruoli della scienza e dello sviluppo tecnologico, essi condividono
l’idea di un mondo più perfetto. Il loro pensiero è
espresso nei lavori, ma non senza porre dubbi.
Allo scopo di proteggere se stesso dall’idea megalomane di
controllare tutto ciò che lo circonda, persino il più
piccolo granello di polvere su un tavolo, qualcuno potrebbe essere
costretto a lasciarsi alle spalle questo mondo perfetto. In questo
senso la pittura digitale di Fasoli m&m è più
che un piacere, è uno scrutare. |
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