Sipario sulla
platea
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di Harald Szeemann |
intervista al direttore della Biennale
appena conclusa |
di Giannella Demuro |
G.
D.: Soltanto pochi mesi fa, quando lei inaugurava ufficialmente
la prima Biennale del Terzo millennio, credo che nessuno, almeno in
Occidente, potesse immaginare un’intuizione tanto puntuale, da
parte degli artisti, dei segnali di una “storia” così
tragicamente incombente come i luttuosi eventi di questi giorni hanno
poi dimostrato. Adesso che la 49. Esposizione Internazionale d’Arte
si è conclusa, ritiene possibile fare un bilancio su questi mesi
così intensi, su una manifestazione che ha prodotto così
tanti eventi e che, soprattutto, è stata essa stessa “evento”,
che ha avuto tantissimi spettatori e che ha suscitato anche tante polemiche?
H. S.: Per me è sempre così. Sa, quello
che io propongo, in una mostra o in una rassegna, è un “mondo
temporaneo” e in questo caso le polemiche non servono, perché
il mondo è lì, ed ognuno può giudicarlo come crede,
bene o male. Mi è sembrato, però, che quest’anno
a Venezia ci fossero due specie di pubblico: all’inizio c’è
stato il “mondo” dell’arte, della stampa - che ha
criticato, ad esempio, la presenza di troppi video - e poi, da settembre
fino ad oggi, c’è stato un pubblico che ha veramente capito
che alla Biennale si deve andare come in chiesa, di stazione in stazione;
un pubblico che ha colto nelle opere - e soprattutto dopo l’11
settembre ho ricevuto molte lettere a questo proposito - i segni di
un rinnovato interesse per l’individuo; un pubblico che ha riconosciuto
come tutto questo, naturalmente, andasse contro la globalizzazione e
che ha anche percepito le molte premonizioni riguardo quello che è
poi effettivamente accaduto. Ho letto anche oggi un articolo
che sottolineava il fatto che Minnette Vári, Do-Ho Suh e altri,
con il loro lavoro, hanno veramente dato forma alla sofferenza di un
paese, ai problemi legati alla sovrappopolazione e al controllo delle
nascite. Nell’articolo venivano citati anche il “Papa”
(La nona Ora) di Cattelan e il fatto che, in questa mostra
veneziana, fosse circondato da serbatoi di petrolio proveniente dall’Arabia,
il collage Islam di Rotella e il lavoro di Maaria Wirkkala,
per la quale solamente gli animali possiedono il dono di “legare”
la Bibbia e il Corano. E poi, ancora, il film di Wallin che dimostrava
che non c’è modo di scappare dai grattacieli, e così
via. Ecco, mi è sembrato che nella seconda parte della Biennale
questi contenuti siano stati più chiaramente recepiti rispetto
all’inizio. Naturalmente, però, c’è da dire
che il successo della manifestazione è dovuto anche a quella
grande massa di pubblico che è venuta all’inaugurazione
e che ha reso il tutto un avvenimento. Io avevo promesso di rimettere
la Biennale in sella, di farne nuovamente un avvenimento internazionale,
e penso di aver raggiunto questo scopo.
G.
D.: In effetti, la “premonizione” di cui lei
parla è, senza dubbio, una delle cose che colpisce maggiormente
nella Biennale di quest’anno, e il collage di Rotella, che lei
ha citato, diventa un’ulteriore conferma della capacità
dell’arte di vedere le cose “oltre”. Per cui, in questo
senso, la dichiarazione di intenti che lei già aveva espresso
nel titolo Platea dell’umanità, non è stata
solo espressione di un’attitudine “umanista”, come
viene spesso definita la sua impostazione, ma, piuttosto, qualcosa di
ancora più reale e più concreto.
H. S.: Quando ho scelto questo titolo che, tra l’altro,
è stato anche molto criticato, ho spiegato che non si trattava
di un tema ma di una “dimensione”. In realtà, siamo
tutti un po’ stufi di queste mostre con venti o trenta artisti,
scelti seguendo il “gusto” del momento. Credo, invece, che
oggi, una grande mostra come la Biennale, soprattutto se si tratta della
prima nel nuovo secolo, dovrebbe essere sostenuta da un’intuizione
più grande e più profonda per quello che accade. Per questo
abbiamo esposto da un lato, la nave per l’aborto di Atelier Van
Lieshout, creata per aiutare i paesi dove l’aborto è vietato
e per sostenere l’autonomia della donna nella scelta di avere
o meno un bambino e, dall’altro lato, l’elicottero di Heli
Global Art Tour che raccoglie fondi per i bambini malati di AIDS nell’Africa
del Sud. Mi pare che, in questa mostra, si veda chiaramente come gli
artisti che si sono rivolti nuovamente verso l’individuo, siano
ora pronti ad allargare la nozione dell’arte al sociale. Inoltre,
appare evidente che tutto questo si è mosso in parallelo a quella
che è stata la ribellione contro il G8, con il popolo di Seattle,
pur nelle diversità di pensiero e di ideologie. Quello che ho
veramente cercato, in questa Biennale, è di evitare i simboli,
vale a dire che un’intenzione deve di nuovo nascondersi dietro
la forma che la rappresenta. Per raccontare questo periodo ho scelto
Beuys, che in un momento diverso, ma altrettanto critico, era riuscito,
con i suoi lavori a dirci che esiste un’altra forma possibile
di società. Intitolando la Biennale “Platea dell'umanità”
o meglio “plateau”, preferibile all’insoddisfacente
traduzione italiana, ho voluto segnalare le due possibili vie indicate
attualmente dall’arte: l’ideologia e l’interesse per
l’essere umano. Queste sono, a mio avviso, le due possibilità
che permettono, oggi, la più grande apertura verso altri temi
e altri soggetti. E questo spiega come mai dAperTutto includesse
gli artisti cinesi: mi sono reso conto, cioè, che in Occidente
non c’è più quello spirito di “sovversione”
che c’era una volta, durante l'ultima rivoluzione nell’arte
degli anni ’60, e ho pensato di introdurlo attraverso questi artisti
che vogliono cambiare qualcosa nel loro paese ma, nello stesso momento,
devono anche trovare una forma “estetica” che possa dialogare
con noi. Dallo spirito del primo Aperto dove, ad esempio, non c’era
differenza di età o di sesso tra gli artisti, volevo allargare
questo discorso alla fine del secolo e all’inizio del nuovo.
G.
D.: Si è parlato di realtà “periferiche”,
del fatto che lei abbia aperto la Biennale alle realtà artistiche
periferiche, ma nel suo progetto, i concetti di “centralità”
e “periferia”, in un certo senso, coincidono.
H. S.: Ecco, è chiaro che dietro c’è
sempre un linguaggio giornalistico. Due anni fa si è parlato
dei “cinesi” e adesso questo, in modo altrettanto ironico,
è stato definito l’anno dei “finlandesi”. Abbiamo
ospitato volentieri questi artisti, che vengono da una regione che produce
mostre interessanti e che offre infrastrutture efficientissime, ma dalla
quale gli artisti hanno, però, difficoltà ad uscire, nonostante
abbiano realizzato opere veramente straordinarie, come i video che hanno
presentato in questa Biennale. Si tratta di un paese dove la presenza
femminile è molto forte, basti pensare che è l’unico
paese al mondo governato da una donna presidente, e anche le espressioni
artistiche più interessanti vengono soprattutto da artiste donne.
Ciò che mi ha colpito è il fatto che il loro
linguaggio toccasse una sensibilità che non è stata ancora
percepita come sensibilità centrale, come ha dimostrato, invece,
il video del suicidio di Ene-Liis Semper dal titolo FF/REW.
Insomma, è chiaro che ho fatto delle scelte non con la volontà
di illustrare qualcosa, ma badando a che ci fosse un contributo centrale
a ciò che si chiama arte e, allo stesso tempo, che fosse presente,
nelle opere e negli artisti prescelti, un’“estensione”,
una volontà di andare oltre i propri limiti. Anche oggi, durante
la conferenza stampa di chiusura della Biennale, qualcuno mi ha chiesto
dove va l’arte e se l’orientamento sia verso il figurativo.
Beh, quando si tratta di mostrare un comportamento nel tempo, non si
tratta più di essere o meno figurativo, si tratta di seguire
un fenomeno nella sua evoluzione, ed è per questo, ovviamente,
che i giovani amano più il video che fare quadri. Nonostante
ciò, abbiamo anche mostrato in quale direzione si muove una pittura
possibile, una pittura figurativa, e anche in questo caso la provenienza
delle opere non era quello che potremmo definire il centro storico dell’Ovest,
ma la regione dietro il “Muro”, dove si sviluppa una figurazione,
l’unica che ho inserito come esempio, diversa da quella di Polke,
Baseliz, di Luperz e altri.
G. D.: Lei non si è limitato ad applicare
i concetti di “apertura” e di “altrove” ai paesi
e agli artisti ospiti, ma ha aperto e reso fruibili anche nuovi spazi
fisici. Non parlo solo degli edifici monumentali delle officine e dei
cantieri dell’Arsenale, anch’essi appena “ceduti”
all’arte, ma del fatto che, quest’anno, la Biennale è
uscita da Venezia, per occupare sedi espositive anche in altre città,
quali Udine e Palermo. Questa scelta rientra sempre nell’ambito
della politica da lei perseguita o ci sono state altre motivazioni?
H.
S.: Uno dei motivi per cui abbiamo esteso fuori Venezia le
manifestazioni della Biennale è il fatto che qui, durante la
mostra, ci sono talmente tanti avvenimenti, che è praticamente
impossibile aggiungerne di nuovi. Ma questo, forse, è un altro
aspetto significativo di questa Biennale.
Sono, infatti, appena rientrato da un viaggio in cui ho visitato molti
dei paesi che hanno partecipato per la prima volta alla Biennale, per
mantenere dei buoni rapporti con loro ma anche per motivarli a partecipare
ancora. Sa, quest’anno abbiamo avuto tante partecipazioni nazionali
come mai prima, e così, molti di questi paesi, attraverso la
“finestra” della Biennale, vogliono dimostrare che appartengono
all’Europa e, per questo, cercano un contatto: un contatto che
non sempre avviene attraverso forme di ricerca attuali, ma, anzi, talvolta
si esprime con linguaggi superati, ma questo, in fondo, non è
poi così importante. Sì, la presenza di nuovi paesi è,
senza dubbio, un altro aspetto di cui bisogna tener conto. Mi sembra
quindi che, in questo momento, non si debbano limitare le mostre a latere
soltanto alla regione della laguna, ma che si possa anche sostenere
un progetto di displacement straordinario come quello che Cattelan
ha voluto per Palermo, o come
quello della collezione Marzona a Villa Manin. Ecco perché non
ci siamo limitati a prendere in considerazione solamente ciò
che è stato proposto per Venezia: perché questo corrispondeva
allo spirito della Biennale. Sin dall’inizio, infatti, con l’estensione
degli spazi della Biennale - l’Arsenale e la sua apertura al mare
- abbiamo voluto dare il nostro sostegno per la realizzazione di eventi
che forse, altrimenti, non sarebbero stati realizzati. Per quanto riguarda
Palermo, ad esempio, fin dall’inizio abbiamo chiarito, come era
importante fare, che la Biennale non avrebbe potuto sostenere il progetto
economicamente, ma che si sarebbe presa la responsabilità “culturale”
dell’avvenimento. Questo mi sembra un modo di procedere naturale,
dal momento che la Biennale, sebbene sia la più “anziana”
tra le manifestazioni di questo tipo, voleva anche essere la più
attuale.
G. D.: Lei ha affermato di non amare i “simboli”,
ma la Nona ora di Cattelan, che lei ha appena citato, non è,
forse, un simbolo?
H.
S.: Effettivamente Cattelan, che era già stato qui due
anni fa durante i giorni dell’inaugurazione con il “fachiro”,
quest’anno ha presentato la Nona ora, con intenzioni forse un
po’ polemiche. Ma, vede, secondo me la figura del Papa non è
un simbolo, è piuttosto la dimostrazione della solitudine di
un uomo. Una persona che prende decisioni tanto importanti come, ad
esempio, quella sull’aborto o sulla contraccezione, e da cui dipendono
i comportamenti dei tanti che credono ancora alle sue parole e alle
sue decisioni, a mio avviso, è veramente la persona più
sola del mondo. Questo senso di solitudine è stato particolarmente
avvertibile qui a Venezia, dove l’opera era circondata da serbatoi
dai quali fuoriesce ancora la puzza del petrolio che una volta veniva
usato dalla marina militare. Inoltre, anche il fatto che l’opera
risultasse in connessione con Islam di Rotella, ha contribuito
a renderla parte di una situazione mentre nell’Apocalisse,
il “Papa” era in una sala di museo, solo. E se in un primo
momento, Cattelan era un po’ esitante sull’opportunità
di esporre questo lavoro, quando ha visto l’ambiente - uno spazio
diverso da quello “estetico” di un museo - si è trovato
d'accordo, perché qui il suo intervento non era più solamente
una scultura-simbolo raffigurante un Papa colpito da un meteorite.
G. D.: L’avere aperto la Biennale a tanti
giovani, molti dei quali non proprio sconosciuti ma, forse, non conosciuti
da tutti, è un segno di attenzione nei confronti di chi è
appena all’inizio di un percorso di ricerca ma anche una grande
opportunità che lei ha offerto loro.
H. S.: Credo che i giovani, soprattutto in occasione
di avvenimenti di questo genere, possano trarre vantaggio dalla vicinanza
di artisti più conosciuti, come Twombly o Richter. Questa è
sempre stata un po’ la mia tendenza e ho sempre cercato di dare
loro questa
opportunità, come nel caso di Rachel Whiteread, che ha colto
l’occasione nella mostra di Amburgo e altri ancora. Io penso che
la “miscela” giusta debba porre l’accento sui più
giovani, come nel caso di questa Biennale dove loro hanno fatto da contrappeso
ai grandi. In fondo, stava proprio in questo la drammaturgia interna
della mostra. È chiaro che se si incontra un artista giovane
che convince, si inserisce l’artista giovane, se, invece, risulta
convincente l’artista anziano si fa lo stesso con lui, come nella
scorsa edizione della Biennale, dove Louise Bourgeois, con
le sue sculture di grandissima intensità e con i suoi tessuti,
esprimeva l’erotismo dei nostri giorni, in modo molto più
forte e convincente di un artista giovane. Non ci sono strategie che
indichino una direzione o un’altra. Si deve riflettere sul che
cosa la mostra, come “mondo temporaneo”, può dare
al massimo grado, in questo momento.
G. D.: Una battuta per concludere. Come lascia
questa Biennale?
H. S.: La lascio come sempre, in questi casi. Ho scelto di fare delle
mostre nelle quali c’è un pezzo di mondo così come
io lo vedo ma, dopo l'inaugurazione, io sto già pensando alle
nuove…..
Harald Szeemann è nato a in Svizzera nel 1933. Nel 2001 è
stato il direttore della quarantanovesima edizione della Biennale di
Venezia. Attualmente divide il suo tempo tra la KunstHaus a Zurigo e
la sua agenzia “The Factory”.
(Foto: courtesy La Biennale di Venezia
- 49. Esposizione Internazionale d’Arte)