Ziqqurat n°4
Sommario
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Cosmogonie
sonore
Pinuccio Sciola
di Giannella Demuro |
Monoliti imponenti, basalti consumati nello scorrere infinito dei giorni,
frammenti di materia sui quali la natura ha depositato le tracce vive
di licheni colorati, rocce che mantengono le antiche scorze naturali,
pietre che l’artista lascia volutamente intatte limitandosi ad aprire
varchi minimali, a segnare passaggi filiformi per penetrarne l’essenza
più intima e farsi interprete del loro mistero.
Attraverso queste fenditure sensibili sgorgano, dalle viscere profonde
e segrete delle pietre-sculture, sussurri metallici, lamenti rochi e profondi,
brusii sordi, sonorità liquide di un tempo antico, per ricongiungersi
alla voce di un tempo presente.
Oggi, oltre la materia c’è, infatti, la voce del tempo, nelle
opere di Pinuccio Sciola.
Sedotto dai lamenti silenziosi del Tempo che lo chiama - prigioniero antico
incastonato tra i cristalli di rocce magmatiche nate agli albori del Cosmo
- Sciola cede agli incanti di “pietre-sirene” che, ammalianti,
attirano il suo sguardo e lo catturano.
Attraverso sentieri battuti da suoni muti, tracciati sul suolo avaro di
una terra di pietre, Sciola accoglie il richiamo e raggiunge quelle pietre
cui sente ormai di appartenere, ritrovando in ognuna la voce annichilita
di intimi trattenuti respiri, voce struggente che torna a vivere ancora
nelle vibrazioni litiche delle enigmatiche “sculture sonore”.
Sono,
le Pietre sonore, gli esiti intensi e affascinanti della stagione
più matura della ricerca artistica di Pinuccio Sciola, una ricerca
nata sul finire degli anni Cinquanta nell’ambito della sperimentazione
plastica e che, nel tempo, si è progressivamente orientata verso
una rigorosa essenzializzazione delle forme, in un procedere che è
sempre più colloquio attivo, confronto dialettico con la materia
che abilità tecnica. Per Sciola, infatti, la pietra non è
sostanza inerte da modellare, ma entità pulsante di vita propria,
con la quale egli sente l’urgenza di confrontarsi in un dialogo
aperto e dinamico.
Nato in un’isola di pietra, Sciola ha maturato nel tempo la convinzione
che questa materia antica, suggestivamente pensata come ‘spina dorsale
del mondo’, sia la memoria tangibile dell’origine dell’universo
e che trattenga in sé, imprigionata nelle sue concrezioni, la storia
codificata del suo dipanarsi nel tempo.
Questo modo di intendere il mondo intorno a sé, ha progressivamente
accompagnato il cammino dello scultore, dagli inizi del suo procedere,
lungo la seconda metà del secolo scorso fino e oltre le soglie
del nuovo millennio, e lo ha portato a cercare, con intuitiva sensibilità
e curiosità esigente, stimoli e conferme per la sua arte.
Già negli anni Sessanta, gli anni della formazione artistica, quando
ancora la ricerca era rivolta principalmente alla dimensione figurativa
della scultura, ma ancor più nel decennio successivo, Sciola iniziava
a confrontarsi con arti e culture differenti, in Europa ma anche nell’America
Centrale e in Africa, lì dove sentiva più forte il richiamo
”all’espressione primigenia”.
Di queste esplorazioni condotte in direzioni parallele alla sua, in un
passato più o meno remoto o recente, resta traccia, sedimentata
e consapevole, nelle opere realizzate successivamente, tra la fine degli
anni Settanta e i primi anni Ottanta, quando cioè il sistema teorico
dell’artista, assimilata ormai da tempo la lezione dei maestri della
grande tradizione scultorea italiana ed europea, si organizzava secondo
ben precise direttrici antropologiche. Così, accanto ad opere che
proponevano una rilettura volutamente non mediata di motivi appartenenti
alla cultura isolana (dalle protomi taurine alle linee centinate delle
porte tombali, ai petroglifi antropomorfi), una sottesa coerenza antropologica
lo portava a realizzare Steli in trachite dalle superfici ruvide, arabescate
con geometrismi spiraliformi echeggianti le iconografie simboliche delle
civiltà precolombiane, a lungo studiate nei viaggi in Messico e
in Perù o Sculture lignee sinteticamente sbozzate in asciutte sembianze
antropomorfe, le cui severe riduzioni formali trattenevano le atmosfere
potenti e suggestive colte nell’incontro con le culture primitive
africane.
Appare evidente come la ricerca condotta da Sciola in questi anni, sebbene
composita negli esiti, rappresenti un momento centrale allo sviluppo del
suo fare artistico. Non a caso, infatti, le opere realizzate nella prima
metà degli anni Ottanta compaiono in un importante ciclo di mostre
tenute in alcuni tra i più interessanti e musei d’arte moderna
della Germania, tra il 1983 e il 1986.
L’aver ricercato e sperimentato, al di là dell’inevitabile
eterogeneità delle grammatiche espressive incontrate e adottate,
il filo conduttore che lega tra loro le grandi culture archetipali della
Terra, ha portato l’artista a scarnificare sempre più insistentemente
la “forma” per indagare i “principi” profondi
e impenetrabili dell’universo.
Il processo di riduzione formale che Sciola ha operato in quegli anni,
ha orientato in modo via via più definito e inequivocabile la ricerca
verso quella dimensione geometrica astrattizzante e minimalista che caratterizza
la produzione degli anni Novanta, certamente la fase più avvincente
ed originale del suo percorso.
In questa recente stagione, Sciola scopre nuove strade e nuovi esiti,
affrontando con rinnovata convinzione un tema, quello delle “pietre
legate”, già percorso anni addietro, e
portandolo alle estreme conseguenze. Se attraverso le Pietre legate
- blocchi di trachite su cui interveniva tracciando incisioni sottili
che affondavano oltre le superfici litiche come corde tese a imbrigliare
una materia ribelle, restia a dichiararsi statica e priva di vita - lo
scultore aveva intuito la vitalità pulsante di una materia apparentemente
inerte, una materia la cui esistenza era stata troppo a lungo “negata”,
ora egli percepisce distintamente l’anima, la vita che vibra sotto
la scorza dura di stratificazioni millenarie, la volontà formicolante
e l’urgenza di manifestarsi di un’entità che lotta
per affermare la propria identità.
Nel
1990 Sciola porta a termine il Cielo di pietra, un’opera
monumentale fortemente evocativa realizzata in basalto, che annuncia esiti
ancor più sorprendenti. Il Cielo di pietra, come gran
parte delle opere successive, rivela un’intrinseca ambiguità
formale: da un lato una corazza antica e impenetrabile dove le ferite
lasciate dal tempo, curate dalla pioggia, dal sole o da verdi licheni,
appaiono ormai come cicatrici sbiadite; dall’altro uno specchio
di pietra dai contorni irregolari e sfrangiati, una superficie levigata
che ha catturato la luce nera di presenze siderali, cui si sovrappongono,
discrete, le possibili rotte celesti tracciate dall’artista per
non smarrirsi nell’infinità dell’universo.
L’interrogativo cosmologico è un tratto intrinseco alla natura
umana, un anelito alla conoscenza che nei secoli ha generato miti e religioni,
nutrito dottrine di pensiero e speculazioni filosofiche, elaborato teorie
scientifiche, ispirato gli umori dell’arte e della creatività.
Attingendo alle fonti del pensiero e, particolarmente, alle teorie degli
antichi filosofi greci - all’idea pitagorica di “Cosmo”
come ordine delle cose, e più ancora, alla rigorosa e razionale
rappresentazione dell’universo fisico del Timeo platonico - Sciola
ha maturato ed elaborato, negli anni recenti della sua ricerca, una suggestiva
e visionaria teoria cosmogonica, ritrovando nel microcosmo di magmi cristallizzati
nelle viscere di neri basalti, la sconosciuta vastità del macrocosmo
e le sue infinite costellazioni. Per questo, a partire dai primi anni
Novanta, l’artista sceglie di utilizzare quasi esclusivamente pietre
basaltiche dai volumi più diversi, preferendo tra esse monoliti
monumentali o eleganti forme colonnari, perché i basalti, appunto,
più delle trachiti o dei graniti, conservano la memoria cosmica
di un tempo lontano, un tempo fatto di lave incandescenti, di magmi fluidi
e arrossati, di impasti raggrumati e raffreddati nella dolorosa genesi
di un Caos ancestrale.
Alcuni anni più tardi, un ulteriore sviluppo di questa poetica
così intensamente visionaria, porterà Sciola a dare concreta
evidenza del suo pensiero, con un gesto audace e sfrontato, nelle Pietre
fuse. Esponendo alcune pietre al calore di una potente fiamma, lo scultore
ne provoca la liquefazione e, in tal modo, insufflando simbolicamente
un caldo alito vitale nella pietra scolpita, l’artista rinnova l’arcano
rito della creazione: spezzando le catene che imprigionano il tempo, riportando
in vita il magma sopito e donando alla pietra, prima solida e inerte,
nuova ribollente linfa vitale.
Custodi, dunque, dei misteri del tempo, le sculture megalitiche di Sciola
si stagliano silenziose nel paesaggio naturale, vigili ed austere, imponenti
nella loro ieratica liticità e nella monumentale essenzialità
di forme primordiali: presenze dense di quella forza misteriosa e inquietante
che solo la sensibilità dell’artista è riuscita, seppure
parzialmente, a svelare.
Mentre i Cieli di pietra riflettono l’ordine cosmico e la presenza
pulsante dell’”altrove”, dietro i ruvidi manti segnati
dallo scorrere delle stagioni, svettanti Forme verticali e affusolate
Steli colonnari (create anch’esse nella prima metà degli
anni Novanta), celano superfici “mute”, piani straordinariamente
levigati, che invitano ad insinuarsi nelle segrete profondità della
materia per giungere a percepirne l’essenza più intima, l’anima
ancestrale, lungo i tagli netti e acuminati dalle geometrie verticali,
che lo scultore ha realizzato penetrando la pietra con violenza sensuale,
affondando in essa affilati dischi metallici, rincorrendo il ricordo di
fenditure analoghe, modellate naturalmente dallo scorrere di acque o da
repentini passaggi di stato.
Ciascuna di queste sculture, forme aniconiche dai forti contrasti materici
e dall’intensa valenza magico-sacrale, racchiude in sé un
messaggio unico, ogni volta diverso e ogni volta intimamente uguale, che
l’artista ha caparbiamente indagato per ritrovare il nucleo del
mistero della vita.
In questi stessi anni Sciola ha tracciato una linea di ricerca parallela,
approfondendo la tematica del binomio “natura/cultura”, oggi
drammaticamente attuale che, fin dagli inizi della militanza artistica,
lo ha portato ad operare sulle urgenze socio-ambientali della realtà
umana e naturale, attuando una strategia di ridefinizione del paesaggio
che muove da imprescindibili premesse di carattere culturale, secondo
cui si rende necessario attivare stimoli percettivi idonei che consentano
una corretta integrazione dialettica con lo spazio ambientale.
Nascono
da queste premesse i Semi di pietra, forme ambigue dense di osmotici
ordini di sensi, embrioni gravidi di fertile materia viva, schegge convesse
che affiorano fra gli orli slabbrati di scorze rocciose, vulve schiuse
nel compiersi dell’”evento”, nucleo organico di pietra
che attende di generare altre pietre.
Ancora una volta Sciola insiste su una metafora “biologica”:
i Semi di basalto diventano così, attraverso un coerente slittamento
di senso, organismi vegetali viventi, come già, anni addietro,
similmente lo erano state le Spighe in trachite, in un procedere spiraliforme
che è un andare avanti regolare ed incessante, ma anche, via via,
un irreversibile processo di azzeramento, un’immersione nel nucleo
originario dell’universo per consentire, con il compimento del sacro
rito della fecondazione, il rinnovamento della Materia, della Vita stessa.
Nel 1996, nel corso di un intervento ambientale - la Semina delle pietre
- a Niederlausitz, in Germania, Pinuccio Sciola tracciò un solco
nei pressi di una miniera in disuso, su una terra lungamente violata e
resa sterile da saccheggiamenti rapaci e indifferenti, e vi seminò
alcuni dei suoi semi di pietra: gesto antico di un uomo nato
contadino che rinnova il rito ancestrale della fecondazione, gesto pregnante
e attuale di un artista che spargendo i ‘semi’ della sua arte
nel grembo della Terra, la feconda e la rigenera, riconciliandosi con
essa nella promessa di nuova armonia e nuova vita.
Ma in questi recentissimi anni, ancora una volta, Sciola ha attraversato
nuove regioni, ha cercato altre possibili direzioni, ha ritrovato alieni
alfabeti sonori, là dove già aveva scavato, frugato, sondato,
tra le pieghe segrete di impasti sopiti. Inconsapevolmente, negli anni
in cui teorizzava le origini siderali del basalto, lo scultore non indagava
solamente il mistero muto dell’anima della pietra. Dopo essere penetrato
nei blocchi rocciosi con la cruda verticalità di tagli e spaccature
profonde, che lasciavano intravedere, a tratti, la rappresa matrice primordiale,
Sciola ha spinto ancora oltre la sua indagine, convinto che, se la pietra
è materia viva, deve poter comunicare la sua storia e, sebbene,
per definizione, la pietra sia considerata ”muta”, egli ne
ha caparbiamente ricercato la voce e, ascoltando oltre gli apparenti silenzi,
ha saputo percepirne e riconoscerne il suono struggente, il lamento lontano
di respiri imprigionati.
Così,
Sciola, tra il ’95 e il ‘96, realizza le prime Pietre
sonore, blocchi di basalto attraversati da incisioni regolari e profonde,
che creano una fitta sequenza di lamine verticali, la cui vibrazione produce
onde: suoni fisici che provengono dalla materia abilmente predisposta
dallo scultore e che corrispondono inequivocabilmente alla voce della
pietra. Voce roca e affaticata che, attraversando il Tempo e gli spazi
siderali, è emersa dalle viscere segrete della materia, scivolando
faticosamente in superficie lungo le membrane litiche delle “arpe
di pietra”, veri e propri varchi temporali che rendono uniche le
Sculture sonore.
Oggi, la ricerca sulle pietre sonore è diventata un fulcro
nodale nel lavoro di Pinuccio Sciola, non soltanto perché queste
opere sono indiscutibilmente tra gli esiti più alti del suo percorso
d’artista, ma anche perché i materiali sonori prodotti dalle
pietre, così nuovi e “altri”, hanno stimolato esiti
originali nell’ambito della sperimentazione musicale contemporanea,
una conferma della grande attualità dell’arte di Sciola,
“suono di pietra” che esiste nell’immaterialità
di uno spazio estetico assolutamente contemporaneo.
Pinuccio Sciola è nato nel 1942 a San Sperate (CA), dove vive
e lavora.
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