Ziqqurat n°4
Sommario
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La pittura discreta
di
Gianfranco
Pintus
di Raffaella Venturi
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«Quel mattino, si alzò di buon’ora
- da poco era passata l’alba - perché aveva ricevuto la sera
prima un messaggio che gli diceva di partire, ma quando aprì la
porta della sua casa scorse sul prato di fronte una coppia di leoni che
si azzuffavano, forse già da alcune ore, silenziosamente e tenacemente».
Inizia così La pariglia, uno dei racconti preferiti di Gianfranco
Pintus, tratto da Le specie del sonno, di Ginevra Bompiani, libro ormai
introvabile, editato, anni fa, in serie numerata, per i tipi della Biblioteca
Blu di Franco Maria Ricci.
Due leoni che lottano in silenzio, trasformando l’araldica colluttazione
in un quasi gioco, infinito e sfinente, senza posa, ovattato come l’incedere
felino. Questa immagine, apparentemente incongrua e distante, prepara
invece alla comprensione dell’ artista, epifanizzandolo, da subito,
attraverso qualcosa di fortemente visivo e rotondo (e sottolineo
“rotondo”). Nei due felini che si affrontano, danzando attorno
alla possibilità di sbranarsi, c’è qualcosa di strettamente
e segretamente connesso alla liturgia della creazione di questo pittore.
Pittore, prima di tutto, poi incisore, ceramista, scenografo, progettista
di giardini e, privatamente, collezionista. Formato all’Accademia
di Firenze, sotto la guida di insegnanti come Afro Basaldella e Concetto
Pozzati, di quella città Pintus ha assorbito la rarefazione, l’inossidabile
spirito rinascimentale e la straniante forza di tutta quella bellezza.
Ma ha anche saputo rinunciarvi scegliendo di tornare nell’isola
e colmando la sua sete panica nella costante proiezione verso una natura
fortemente compensativa. Che ogni giorno introduce dentro di lui una linfa
diversa, una luce diversa, una diversa percezione dell’orizzonte
mare. E questo procedere interiore verso scenari mitologici ha deciso
bastargli.
La sua casa è, per rispecchiamento, panica; il suo studio è
alla Bacon, e tutte le domeniche mattina - ma anche qualsiasi altro giorno
della settimana, se capita - la destinazione è quella verso l’antico,
compreso design e artigianato moderni. Mai come il suo, un messaggio di
segreteria telefonica fornisce tanto fedelmente l’idea della persona
che rappresenta: una voce che viene d’altrove, discreta e pacata.
Come da altrove, discreta ma conturbante, arriva la sua pittura.
«Improvvisamente ciascuno si vide accanto un altro se stesso - il
secondo io tremava diafano accanto al primo, ed entrambi si sorridevano
per distruggersi, e si elevavano insieme - il cuore che palpitava nell’uomo
era sospeso una seconda volta, palpitante, nel secondo io, e vi si vedeva
morire»
Un’altra preferenza letteraria, questa poesia di Jan Paul, per accostarsi
al discorso pittorico di Pintus senza rischiare di dire ciò che
non sarebbe esatto. Perché l’esattezza è uno dei principi
regolatori del suo procedere artistico; ne è, anzi, base. Essendo
pittura concettuale, la sua, subito dopo l’idea («È
l’idea la macchina che fa l’arte», afferma Sol Le Witt),
viene la progettazione e in questa fase Pintus dissipa ogni potenziale
scarto, ogni possibilità di imprevisto, ogni inesattezza.
Al
principio, quindi, l’idea, generale, vasta: «Concepisco la
struttura del mio lavoro circolare ed ellittica», afferma al proposito.
A questa circolarità corrisponde l’andamento del nostro scrutare
come opercolo fra interno - anima - ed esterno - realtà -; fra
questi due antagonisti dialettici si situa il supporto, umile e accettato
limite al tentativo totalizzante dell’idea cartesiana di librarsi
e liberarsi nello spazio. Nell’accettazione di questo limite, nel
tentativo - emotivamente disarmante e tenero - di superarlo, si gioca
tutta la tensione dell’opera. Tensione come sfida al limite, al
suo superamento, attraverso l’utilizzo di un supporto e di un’immagine
ormai logori e sfruttati; tensione che si traduce in possibilità
inaspettata e creativa di sfruttare questo limite, di farlo fruttare come
azzardo per un passo nell’oltre, sul vertiginoso bordo dell’incognito.
Soltanto sul bordo.
Le forme, archetipiche, si espandono, tendono a tornirsi, a diventare
ellittiche, con piccole mutazioni che le portano a staccarsi da una connotazione
precisa, in termini di spazio, tempo e luogo. La loro tensione è
unicamente legata al segno, all’unicità di un segno che ne
mantenga inalterato il codice genetico. Superato il supporto, nella sua
iniziale dimensione ordinata e cartesiana - esatta -, queste forme fluttuano
nello spazio roteando su se stesse. Si guardano, tentano un afasico dialogo
dopodiché si annullano.
l'eterno guardarsi
è cifra di tutta l'opera di Pintus, perchè sua cifra
principale sono "occhi divenuti vulcani, cigli slabrati dalla
veglia |
Resta un eterno guardarsi, attonito, melanconico.
Osserviamo le ultime opere dell’artista, precisamente quelle eseguite
in occasione della sua presenza in Stanze 2000, al Centro Man Ray di Cagliari,
lo scorso novembre: due grandi tele
tonde, una sui toni rarefatti del giallo oro, l’altra su quelli divisionisti
del blu, dove avviene una trinitaria ripartizione dello spazio attraverso
tre volti, disposti in un vortice centrifugo capace di catturare lo sguardo
dell’osservatore. Ma l’eterno guardarsi è cifra di tutta
l’opera di Pintus, perché sua cifra principale sono «occhi
divenuti vulcani, cigli slabbrati dalla veglia»: nei recenti vasi
di ceramica, realizzati con tecnica raku, è la stessa, ipnotica sensazione
a contrariare felicemente l’osservatore.
Ma quando cessano i riferimenti figurativi ed è il dialettico scambio
forma-colore a dovere sostanziare l’opera, si corrobora ancor più
l’idea, si potenzia la specialità concettuale di questo artista.
Un modello esemplare è l’installazione proposta all’Orto
botanico nel giugno del ‘98. Si trattava di un intervento concepito
come una passeggiata - un’ascesa - lungo un sentiero che costeggia
una striscia di prato nel quale si ergono alti pini. L’incedere
in quello spazio, la magia del prato, lo scorrere del tempo venivano scanditi
da piccoli tetraedri rivolti con due delle tre superfici allo sguardo
del viandante, alternativamente, una volta in salita e una in discesa.
L’affastellarsi dei tetraedri era regolato da una progressione numerica
che ne ordinava, come una matematica planetaria, il graduale cambiamento
di colore da un giallo verde, quasi mimetico rispetto al prato, ad un
violetto azzurro. Questo viraggio cromatico avveniva gradualmente e quasi
impercettibilmente, scandito com’era in 80 metri di percorso. Al
termine del percorso in ascesa, voltandosi, ci si trovava di fronte ad
una scansione cromatica contraria alla prima, che proponeva un tragitto
uguale ma diverso, sia nel cambiamento di direzione - ora di discesa -
e sia nella disposizione dei tetraedri rispetto al paesaggio cambiato.
Idea come principio, progetto come medium, esecuzione come formalità.
Più volte interventi pittorici di Pintus sono durati il tempo dell’occasione
che li aveva determinati per poi venire rimossi con l’imbiancatura
delle pareti. Ne restano le documentazioni fotografiche e, nella mente
di chi li ha osservati a fondo, l’immagine forte, precisa, la convinzione
circa l’idea. La convinzione che in principio sta il principio.
Gianfranco Pintus è nato a Sassari nel 1953. Vive e lavora
a Cagliari.
(foto Pietro Paolo Pinna courtesy Archivio
Illisso)
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