Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


Ziqqurat n°4
Sommario

 

La pittura discreta
di
Gianfranco Pintus

di Raffaella Venturi

 Gianfranco Pintus, Senza titolo, 2000, acrilico su tela, ø 50 cm

«Quel mattino, si alzò di buon’ora - da poco era passata l’alba - perché aveva ricevuto la sera prima un messaggio che gli diceva di partire, ma quando aprì la porta della sua casa scorse sul prato di fronte una coppia di leoni che si azzuffavano, forse già da alcune ore, silenziosamente e tenacemente».
Inizia così La pariglia, uno dei racconti preferiti di Gianfranco Pintus, tratto da Le specie del sonno, di Ginevra Bompiani, libro ormai introvabile, editato, anni fa, in serie numerata, per i tipi della Biblioteca Blu di Franco Maria Ricci.
Due leoni che lottano in silenzio, trasformando l’araldica colluttazione in un quasi gioco, infinito e sfinente, senza posa, ovattato come l’incedere felino. Questa immagine, apparentemente incongrua e distante, prepara invece alla comprensione dell’ artista, epifanizzandolo, da subito, attraverso qualcosa di fortemente visivo e rotondo (e Gianfranco Pintus, Dipinto su vaso, 1998, terracotta ingabbiata e dipinta a freddo, h. 41 cmsottolineo “rotondo”). Nei due felini che si affrontano, danzando attorno alla possibilità di sbranarsi, c’è qualcosa di strettamente e segretamente connesso alla liturgia della creazione di questo pittore. Pittore, prima di tutto, poi incisore, ceramista, scenografo, progettista di giardini e, privatamente, collezionista. Formato all’Accademia di Firenze, sotto la guida di insegnanti come Afro Basaldella e Concetto Pozzati, di quella città Pintus ha assorbito la rarefazione, l’inossidabile spirito rinascimentale e la straniante forza di tutta quella bellezza. Ma ha anche saputo rinunciarvi scegliendo di tornare nell’isola e colmando la sua sete panica nella costante proiezione verso una natura fortemente compensativa. Che ogni giorno introduce dentro di lui una linfa diversa, una luce diversa, una diversa percezione dell’orizzonte mare. E questo procedere interiore verso scenari mitologici ha deciso bastargli.
La sua casa è, per rispecchiamento, panica; il suo studio è alla Bacon, e tutte le domeniche mattina - ma anche qualsiasi altro giorno della settimana, se capita - la destinazione è quella verso l’antico, compreso design e artigianato moderni. Mai come il suo, un messaggio di segreteria telefonica fornisce tanto fedelmente l’idea della persona che rappresenta: una voce che viene d’altrove, discreta e pacata. Come da altrove, discreta ma conturbante, arriva la sua pittura.
«Improvvisamente ciascuno si vide accanto un altro se stesso - il secondo io tremava diafano accanto al primo, ed entrambi si sorridevano per distruggersi, e si elevavano insieme - il cuore che palpitava nell’uomo era sospeso una seconda volta, palpitante, nel secondo io, e vi si vedeva morire»
Un’altra preferenza letteraria, questa poesia di Jan Paul, per accostarsi al discorso pittorico di Pintus senza rischiare di dire ciò che non sarebbe esatto. Perché l’esattezza è uno dei principi regolatori del suo procedere artistico; ne è, anzi, base. Essendo pittura concettuale, la sua, subito dopo l’idea («È l’idea la macchina che fa l’arte», afferma Sol Le Witt), viene la progettazione e in questa fase Pintus dissipa ogni potenziale scarto, ogni possibilità di imprevisto, ogni inesattezza.
Gianfranco Pintus, Senza titolo, 1998, acrilico su tela, ø 50 cmAl principio, quindi, l’idea, generale, vasta: «Concepisco la struttura del mio lavoro circolare ed ellittica», afferma al proposito.
A questa circolarità corrisponde l’andamento del nostro scrutare come opercolo fra interno - anima - ed esterno - realtà -; fra questi due antagonisti dialettici si situa il supporto, umile e accettato limite al tentativo totalizzante dell’idea cartesiana di librarsi e liberarsi nello spazio. Nell’accettazione di questo limite, nel tentativo - emotivamente disarmante e tenero - di superarlo, si gioca tutta la tensione dell’opera. Tensione come sfida al limite, al suo superamento, attraverso l’utilizzo di un supporto e di un’immagine ormai logori e sfruttati; tensione che si traduce in possibilità inaspettata e creativa di sfruttare questo limite, di farlo fruttare come azzardo per un passo nell’oltre, sul vertiginoso bordo dell’incognito. Soltanto sul bordo.
Le forme, archetipiche, si espandono, tendono a tornirsi, a diventare ellittiche, con piccole mutazioni che le portano a staccarsi da una connotazione precisa, in termini di spazio, tempo e luogo. La loro tensione è unicamente legata al segno, all’unicità di un segno che ne mantenga inalterato il codice genetico. Superato il supporto, nella sua iniziale dimensione ordinata e cartesiana - esatta -, queste forme fluttuano nello spazio roteando su se stesse. Si guardano, tentano un afasico dialogo dopodiché si annullano.
l'eterno guardarsi è cifra di tutta l'opera di Pintus, perchè sua cifra principale sono "occhi divenuti vulcani, cigli slabrati dalla veglia
Resta un eterno guardarsi, attonito, melanconico.
Osserviamo le ultime opere dell’artista, precisamente quelle eseguite in occasione della sua presenza in Stanze 2000, al Centro Man Ray di Cagliari, lo scorso novembre: due grandi tele tonde, una sui toni rarefatti del giallo oro, l’altra su quelli divisionisti del blu, dove avviene una trinitaria ripartizione dello spazio attraverso tre volti, disposti in un vortice centrifugo capace di catturare lo sguardo dell’osservatore. Ma l’eterno guardarsi è cifra di tutta l’opera di Pintus, perché sua cifra principale sono «occhi divenuti vulcani, cigli slabbrati dalla veglia»: nei recenti vasi di ceramica, realizzati con tecnica raku, è la stessa, ipnotica sensazione a contrariare felicemente l’osservatore.
Ma quando cessano i riferimenti figurativi ed è il dialettico scambio forma-colore a dovere sostanziare l’opera, si corrobora ancor più l’idea, si potenzia la specialità concettuale di questo artista. Un modello esemplare è l’installazione proposta all’Orto botanico nel giugno del ‘98. Si trattava di un intervento concepito come una passeggiata - un’ascesa - lungo un sentiero che costeggia una striscia di prato nel quale si ergono alti pini. L’incedere in quello spazio, la magia del prato, lo scorrere del tempo venivano scanditi da piccoli tetraedri rivolti con due delle tre superfici allo sguardo del viandante, alternativamente, una volta in salita e una in discesa. L’affastellarsi dei tetraedri era regolato da una progressione numerica che ne ordinava, come una matematica planetaria, il graduale cambiamento di colore da un giallo verde, quasi mimetico rispetto al prato, ad un violetto azzurro. Questo viraggio cromatico avveniva gradualmente e quasi impercettibilmente, scandito com’era in 80 metri di percorso. Al termine del percorso in ascesa, voltandosi, ci si trovava di fronte ad una scansione cromatica contraria alla prima, che proponeva un tragitto uguale ma diverso, sia nel cambiamento di direzione - ora di discesa - e sia nella disposizione dei tetraedri rispetto al paesaggio cambiato.
Idea come principio, progetto come medium, esecuzione come formalità. Più volte interventi pittorici di Pintus sono durati il tempo dell’occasione che li aveva determinati per poi venire rimossi con l’imbiancatura delle pareti. Ne restano le documentazioni fotografiche e, nella mente di chi li ha osservati a fondo, l’immagine forte, precisa, la convinzione circa l’idea. La convinzione che in principio sta il principio.


Gianfranco Pintus è nato a Sassari nel 1953. Vive e lavora a Cagliari.

(foto Pietro Paolo Pinna courtesy Archivio Illisso)

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