Ziqqurat n°4
Sommario
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il
TeoremA |
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della
Pittura |
di Antonello Fresu |
Intervista a
Pastorello |
A. F.: Nonostante il
loro potere accattivante, le tue opere possiedono l’impenetrabilità
degli enigmi. Come è possibile, allora, “entrare” nei
tuoi quadri?
P.: Gli elementi sono sempre gli stessi, e uno di questi
è il quadro, che è lo spazio - il luogo - che io concepisco
in tre modi: la superficie (il muro), l’aldilà (la finestra)
e l’al di qua (lo specchio). Partendo da queste premesse è
facilissimo entrare nei quadri, che sono sempre lo stesso quadro, cioè,
il luogo dell’arte con il suo protagonista che è l’artista,
rappresentato a volte solamente con la testa. Può cambiare l’argomento,
e allora posso occuparmi dell’immagine di massa o delle particelle
atomiche o degli extra terrestri, dipende dal momento, da quello che gira
nel mondo in quel periodo. L’anno scorso mi interessava molto l’idea
del fantasma e infatti, nella mostra Fantasma da Carasi, continuo a rappresentare
degli artisti, però in forma di fantasma…
A. F.: Perchè i fantasmi?
P.: La parola fantasma vuol dire immagine, immagine senza
corpo: quello che io definirei “arte pura”, e la pittura è
la cosa che si avvicina di più a questa idea di “immaterialità”.
Immaterialità che, unita all’elemento staticità, colloca
la pittura in una dimensione fuori dal tempo.
A.
F.: Ritieni che la pittura possa offrire questa “staticità”
più di altre forme artistiche?
P.: Sì, perché è immobile. È
come la scultura, però è un luogo virtuale, non occupa uno
spazio reale, a meno che non sia considerata come un oggetto, come un
muro con dei segni sopra, come nel caso di un quadro informale o di un
quadro graffitista. Un quadro impressionista, invece, è un quadro
senza luogo: quel fiume non ha quella profondità… Il quadro
rappresenta, quindi, qualcos’altro. Il quadro è l’oggetto
metafisico che ha la stessa struttura logica del concetto che voglio esprimere,
o meglio, del concetto che mi interessa. Parto sempre da questa domanda:
«che cos’è questa “cosa” che ogni giorno,
quando mi sveglio, ho di fronte? Cosa sono?». A questa domanda nessuno
ha mai veramente risposto. Un terreno sempre fertile, quindi, nel quale
coltivare la creatività, la potenzialità di creare immagini.
A. F.: Questa curiosità rispetto al mondo,
il farti delle domande, l’hai sempre avuta?
P.: Penso di sì. Ma tutti ce l’hanno, anche
se ogni persona decide poi quando fermarsi. Tutti, da bambini, giocando,
sperimentando, cercano comunque di soddisfare la curiosità, poi
la maggior parte diventa adulta e si ferma. Gli artisti, di solito, continuano
invece all’infinito. Come il filosofo, lo scienziato, il poeta.
Ognuno su strade diverse che portano però, tutte, sempre alla stessa
meta: trovare una risposta. Concettualmente, nonostante la tecnologia,
non siamo lontanissimi dai greci o dagli egiziani. Nella storia dell’evoluzione
delle cose, il cervello umano è sempre l’oggetto più
evoluto, probabilmente in tutto l’universo. Lo spazio e il tempo
sono legati: più ci allontaniamo da noi stessi e più si
va indietro nel tempo. Siamo noi, affacciati nell’universo con la
punta del nostro naso, ad essere i più prossimi al futuro.
A. F.: Hai parlato di scienziati, di filosofi. Qual
è, invece, lo specifico dell’artista?
P.: L’artista si occupa, più o meno, di
“cosmetica” e di “psicofisica”, di sentire e ricreare
il mondo.
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A. F.: Beh, forse sarebbe opportuno chiarire meglio
questi concetti.
P.: Dalla storia dell’arte ho preso in considerazione
il periodo storico che va dal Neoclassicismo al quadrato nero di Malevic,
perché nelle opere di questo periodo ci sono, grosso modo, tutti
quegli elementi che io utilizzo per i miei quadri. Dalla rigorosa composizione
dei lavori di David, per esempio il Giuramento degli Orazi, si passa a
quella più movimentata di Delacroix, nelle scene di lotta tra animali.
Dalla pittura frammentata dell’Impressionismo alla scomposizione
in figure geometriche del Cubismo, per arrivare agli elementi primari
in Malevic: la superficie, il colore, il disegno, la linea, il punto,
la figura, il concetto, ecc., sono gli elementi ricavati dall’analisi
delle opere nate in quest’arco di tempo, che costituiscono la sostanza
dei miei quadri. Gli elementi sono sempre gli stessi, ciò che cambia
è solamente l’ordine compositivo che li mette insieme. Questo
concetto io lo chiamo “cosmetica”, parola che comprende sia
il significato della parola “Cosmo” sia il gesto del truccarsi,
di rifarsi il viso. Il volto è, per me, il simbolo dell’universo
perché racchiude in sé tutti i sensi e, di conseguenza,
tutte le esperienze che noi possiamo avere del mondo: occhi per la forma
e il colore, orecchie per il suono, naso per gli odori, eccetera. Tutti
questi elementi si dispongono nel quadro secondo un ordine che segue,
come ho già detto, la stessa struttura logica del concetto che
voglio esprimere. Questa attività la chiamo “psicofisica”,
cioè la creazione di immagini di origine psichica. Spesso parto
dai concetti della fisica moderna e dalla simbologia della tavola periodica
degli elementi o dalla tavola pitagorica dei numeri, perché mi
interessa arrivare all’impersonalità dell’immagine.
A. F.: L’artista è quindi più
vicino a quella che sembra essere la conoscenza?
P.: Non lo so. Non posso rispondere a questa domanda
perché… c’è un conflitto di interessi. Potrei
dire di sì però… anche Mennea potrebbe dire che i
più vicini alla conoscenza sono i corridori
A. F.: Però, senz’altro l’artista
è diverso da quelli che diventano adulti e lì si fermano…
P.: Certamente, l’artista è uno che continua
a crescere.
A. F.: Ma l’artista è il pittore?
P.: Il pittore è uno che dipinge, l’artista
è quello che fa arte. Chiunque dica: «io sto facendo questo,
ed è arte» è un artista. Cioè, se io decido
che questa è arte, e decido di essere artista, questa è
arte e io sono un artista.
A. F.: Anche se gli altri non lo riconoscono
come tale?
P.: Si. Gli altri possono stabilire la qualità,
è diverso. Essere artista non è una qualità, è
una categoria. È come dire che io sono un meccanico, poi bisogna
vedere se le macchine le aggiusto bene o male.
A. F.: Il discorso teorico lo fai ogni volta che
dipingi un quadro?
P.: Sì, perché lavoro su questo.
A. F.: Quindi, questa è la parte concettuale
del tuo lavoro, mentre il resto è una semplice esecuzione?
P.:
Studio le forme e cerco diverse soluzioni. Quando trovo quella ideale
la realizzo. Io rifletto su queste cose e la domanda è sempre la
stessa: «Che cosa è il mondo? Che cosa sono io? Come percepisco?
Come funziono?». Ci sono molte cose strane, ad esempio, «Come
fa l’occhio a vedere?». Io capisco che l’immagine può
passare attraverso un foro, ma che questo foro la percepisca... E
se questo oggetto è là e il mio occhio è qua, come
fa a toccarlo? Perché se lo vedo vuol dire che c’è
un contatto. In fondo, è sempre strana la percezione delle cose,
eppure prendiamo tutto per scontato: camminiamo su una terra molto solida,
eppure questa terra è in continuo movimento... Tutte queste riflessioni
io le elaboro sulla carta a quadretti sino ad arrivare alle immagini finali.
Quando ne ho una ventina, inizio a preparare una mostra e le realizzo
tutte assieme. È un lavoro molto lungo: in pratica lavoro più
su questi quaderni che sui quadri. Per fare un quaderno di questi, a volte
impiego un anno, perché sono piccole variazioni della stessa immagine,
non ci sono grandi cambiamenti.
A. F.: Ma il fatto che tu scelga una forma piuttosto
che un’altra, il fatto che ripeta continuamente delle immagini finché
non trovi quella che maggiormente ti soddisfa, che ti corrisponde, lo
fai perché devi rispettare una sorta di regola matematica oppure
un intento di tipo estetico?
P.: Cerco di far combaciare le due cose. Anche nella
scienza, la teoria più accettata è la più semplice,
la più bella, la più elegante. Usano proprio questi termini,
gli scienziati, che non sono per niente scientifici, perché, in
fondo, la più bella è quella meno complessa, la più
semplice, la più chiara. In definitiva, sia nell’arte che
nella scienza, l’obiettivo finale deve corrispondere alla bellezza.
In realtà, io mi sento più vicino agli scienziati che gli
altri artisti di arte contemporanea. Oggi, sono gli scienziati, più
dei religiosi, a parlare di Dio. I religiosi parlano di morale, non di
Dio, mentre Zichichi, parla in continuazione di Dio.
A. F.: Come nasce l’ordine nei tuoi quadri?
P.: L’ordine nasce dall’osservazione delle
cose, perché nel mondo c’è una parte di ordine, c’è
uno scontro tra disordine e ordine: le cose ordinate si “disordinano”
e le cose disordinate si ritrovano a rispettare un certo ordine. Ad esempio,
se io butto un galleggiante nell’acqua, questo galleggia, e questo
vuol dire rispettare l’ordine. Succede sempre così: non può
mai accadere che un galleggiante vada a fondo, perché è
contro la legge.
A. F.: Allora, per te, il disordine è solo
apparente?
P.: No, è presente. Non può esistere ordine
senza disordine, perché sono l’uno il punto di riferimento
dell’altro. Tutte le cose si manifestano attraverso il numero, nell’ordine.
Tutta la materia è composta di particelle e ogni elemento chimico
si distingue da un altro grazie al suo numero atomico ed alla sua struttura
costitutiva.
A. F.: Ma in che modo rappresenti quest’ordine?
P.: Non lo rappresento, lo utilizzo per disporre quegli
elementi di cui parlavo prima. Ad esempio, il piombo e l’oro si
distinguono di un solo numero atomico, eppure sappiamo quanto siano differenti
le loro proprietà. Un altro esempio si può fare mettendo
a confronto un gatto e una giraffa. Questi due animali sono fatti
degli stessi elementi - sangue, peli, ossa - ma la loro diversa disposizione
crea due esseri molto differenti tra loro.
A.
F.: Tu tenti di ricostruire il mondo, ma non ti sembra, il
tuo, un tentativo utopistico? Quanto, in fondo, i numeri e l’ordine
a cui questi rimandano possono permettere di circoscrivere, di dare forma,
a qualcosa che invece è indefinito, che non è chiaro?
P.: È vero che certe cose non le puoi circoscrivere,
ma è anche vero che questo può essere considerato un inizio,
la base di ciò che per me è l’unico metodo conoscitivo.
Ci sono i numeri che mi vengono in soccorso: i numeri transfiniti, quelli
che i matematici utilizzano per calcolare l’infinito. Sono piccole
porzioni di questo infinito. Per conoscere il sapore di una torta basta
una piccola fetta.
A. F.: Non trovi che tutto questo sia eccessivamente
razionale?
P.: No, non del tutto. La prima fase è irrazionale.
Io mi baso sempre sulla visione, nei confronti della quale mi metto a
disposizione come uno strumento, la razionalità viene dopo: i numeri
non sono uno strumento di analisi, ma uno strumento per costruire, per
dare uno scheletro all’immagine, che non mi appartiene ma che subisco,
e il tutto diventa un gioco che ha l’illusione di realtà.
A. F.: Qual è, per te, la funzione politica
e sociale dell’arte?
P.: Non sono certo che ne abbia una, ma se dovesse averla,
sarebbe quella di cambiare il mondo. Studiando Cezanne mi sono reso conto
del potere rivoluzionario dell’arte. Chiuso nella sua casa in campagna,
isolato con la moglie, a dipingere cipolle e mele, ha cambiato completamente
la visione del mondo e la percezione degli oggetti, al contrario di Guttuso
che, volendo fare la rivoluzione, non ha cambiato nulla nel mondo. Considero
l’arte rivoluzionaria in questo senso: è come il Cavallo
di Troia, un bell’oggetto che viene accettato dalla società
e che porta al suo interno l’elemento rivoluzionario.
Ciò che a me interessa, è l’apparizione, la visione
verticale che ferma il tempo, un attimo di lucidità in cui uno
vede veramente le cose. Questo non accade sempre, non si può vivere
sempre con questa intensità. La maggior parte della vita è
sonno e distrazione, per fortuna.
Pastorello, nato a Sassari nel 1967, vive e lavora a Sassari.
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