Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


Ziqqurat n°4
Sommario

Le forme della memoria
nelle ceramiche di
Caterina Lai, Licuccos, 2000, bucchero
Caterina Lai

di Maria Dolores Picciau


Nemmeno con le parole, che scivolano quasi misurate, riesce a turbare, intaccare l’immagine radiosa e insieme malinconica che il suo sguardo diretto è capace di trasmettere all’interlocutore. Caterina Lai è un po’ come la sua arte: fuoco e acqua, quiete e tempesta, contrari che si completano e annullano, senso del gusto senza inutili orpelli e un ribollente impeto di fierezza tipicamente barbaricina. Dotata di una capacità espressiva rapida e incisiva, alla spontaneità aggiunge frammenti di ricordi, che ricompone in forme e accostamenti inediti in un linguaggio che potremmo definire minimale.
Caterina Lai, Senza titolo, 1996, bucchero, 27 x 26 x 3,8 cmDopo aver maturato varie esperienze nel campo della scultura e dell’incisione, si riappropria delle origini, cimentandosi per la prima volta nel 1993 nella ceramica artistica. Recuperare le radici significa, per lei, disvelare i contorni di un passato sedimentato nella memoria, far riemergere quella preziosa capacità di manipolare l’argilla che suo padre, Simone Lai, rinomato ceramista, conosceva molto bene, mentre a Dorgali aleggiava ancora il ricordo (nonostante la morte precoce) di uno zio materno, Salvatore Fancello, scultore, disegnatore satirico e pittore che M. Calvesi definì «uno dei più promettenti tra i giovani ceramisti italiani». È attraverso loro che Caterina Lai acquisisce una consuetudine artistica con la ceramica, scopre la fascinazione dell’argilla, saggiandone la duttilità e cogliendone immediatamente le incredibili potenzialità espressive.
Le suggestioni acquisite durante l’adolescenza e approfondite durante gli studi liceali a Cagliari, si traducono ancora oggi in una ricerca tesa al gusto per la materia “povera” della quale esalta l’essenzialità, come il bucchero, l’argilla bianca e il raku. L’impiego di questi materiali è particolarmente importante nell’esito delle prove artistiche dove la funzionalità erede di un’antica cultura artigiana si allea perfettamente con una ricerca di tipo estetico-espressiva.
Le lastre in bucchero, materiale molto noto agli Etruschi, cotte senza ossigeno in forni speciali, assumono una particolare tonalità grigio-nera con sfumature argentate. È soprattutto sulle lastre scure che i segni creano un gioco vertiginoso di lampi luminosi e il fondo si trasforma in luminosa atmosfera di spazio-luce.
È l’istinto, o forse l’impeto dell’inconscio, a muovere le superfici, i graffi, le linee, che si distendono o si corrugano, evocano paesaggi universali, modellati dalla secolare erosione del vento e del mare. Trittici, lastre e, più raramente, vasi e piatti, accolgono spontanei increspamenti della materia: sagome antropomorfe, volti, fondali marini, bestiari fiabeschi, orografie immaginarie, paesaggi visti a volo d’uccello. È forse, in questo gioco istintivo di tratti e di linee, la tendenza a guardare il mondo con gli occhi stupiti di un bambino, o forse l’emozione, a trascinare la mano di Caterina Lai sul sentiero già tracciato da Salvatore Fancello: ad accomunarli è lo stesso tentativo di ri-connotare il patrimonio simbolico-formale sardo attraverso un confronto con le istanze della “modernità”. La narrazione, aperta e liberamente articolata nello spazio, è desunta da frammenti di realtà vissuta e poggia su scorci di memoria. Dalle trame dei ricordi giovanili, da un tempo senza tempo, emergono infatti parole desuete “in limba” che incidono la materia plastica e sono funzionali a esigenze comunicative: filastrocche e antichi proverbi, ricchi di saggezza popolare, si librano istintivamente nella superficie palpitante di vita, entrano nel gioco compositivo per ri-definirsi e acquisire nuovi significati. Anche i ciottoli (licuccos) ricordano le forme “familiari” dei dolci fatti in casa, i bottoni usati dalle ricamatrici dorgalesi, i fusi delle tessitrici, ma anche fossili e pietre raccolte in riva al mare. Riappropriarsi della loro forma, del loro potere tattile-evocativo non è solo un gioco nostalgico, ma il tentativo di raggiungere l’universale attraverso il particolare della propria cultura. Nell’ultima produzione Caterina Lai, più che agli effetti plastici mira a un tratto più lieve, a delicate colorazioni evocative come ai grigi intermedi, ottenuti attraverso gli ingobbi. La modellazione è più piatta, il segno diventa più morbido, meno scavato, in alcune formelle come Gai e goi, totem piatto dove i segni e le tenui increspazioni assumono un’espressione delicata, patinata da una tensione lieve e rattenuta; così in Trittico in terra bianca i grafemi, da indicatori tridimensionali, diventano dettaglio puramente descrittivo e luminoso. Un linguaggio nuovo, che mette a confronto l’eredità culturale della tradizione con acquisizioni internazionali e che conserva, tuttavia, la stessa chiara spontaneità dei lavori precedenti.

Caterina Lai, nata a Dorgali, vive e lavora a Cagliari.

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