Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


Ziqqurat n°4
Sommario

Corpo Gligorov
di Achille Bonito OliA

Gli del
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Incontro con
Robert
Gligorov

di Giannella Demuro

Robert Gligorov, Animanimale n. 1. Babe’s legend, 1997, video stillG. D.: I tuoi lavori suscitano spesso un sentimento di straniamento che nasce, probabilmente, dal contrasto tra i contenuti, a volte orridi, inquietanti e la perfezione tecnica e formale delle immagini.
R. G.: Ho sempre cercato la perfezione. Chi percorre le mie immagini deve trovare una fluidità, come quando scorre l’acqua. Il mio lavoro può non piacere, però non c’è incoerenza a livello formale. C’è un evidente equilibrio legato, in parte, a tanti anni di disegno, allo studio della storia dell’arte, della prospettiva, dell’anatomia, della teoria del colore e, in parte, alla mia sensibilità, al mio modo di fare, che mi porta a cercare sempre più la perfezione. Un po’ un’ossessione, in un certo modo, ma comunque un qualcosa che mi dà sicurezza, una sorta di piacere. Parto, così, dalle fotografie in sala di posa per arrivare a creare, attraverso l’elaborazione al computer, qualcosa di inattaccabile a livello tecnico, dei “gioielli” che puoi rifiutare di guardare, costruiti e trattati, però, in un modo ineccepibile a livello estetico.

G. D.: Per parlare di perfezione usi spesso il corpo umano, perché questa scelta?
R. G.: Il corpo umano è probabilmente la cosa più perfetta che ci sia in natura. Un giaguaro, un cavallo, corrono più velocemente dell’uomo, però l’uomo ha il cervello e non c’è nessun altro essere in natura che abbia le sue stesse capacità di coordinazione, con le gambe, con le mani. Nel mio lavoro la sperimentazione, la ricerca sul corpo è importante, sia perché come essere umano è una materia che conosco bene, sia perché, comunque, provoca un’attrazione instancabile: il corpo umano non sazia mai abbastanza la vista, c’è sempre un modo di trattarlo e ritrattarlo che è sempre nuovo, vedi la body art e altre esperienze sul corpo nell’arte. È per questo che la figura, il ritratto, rimarranno, comunque, l’oggetto pregnante dell’arte.

G. D.: In realtà, però, tu rappresenti dei corpi che vanno incontro a mutazioni, a trasformazioni, a ibridazioni…
R. G.: Si, ma il gioco dell’arte è proprio questo. Fondamentalmente l’arte è un gioco, è trasformismo, è trucco, è la teatralità che si può mettere in scena, con il corpo, con i costumi: qualcosa di sperimentato da anni ma sempre morbosamente affascinante. IlRobert Gligorov, Borderline, 2001, still frame dvd(courtesy galleria Pack - Milano corpo umano, d’altronde, è perfetto anche se deforme, come è perfetta l’iride, come sono perfetti i denti anche se marci, e ciò a dispetto dei canoni riconosciuti di “bello” e “brutto”. Io gioco, paradossalmente, su una cosa che a livello comune è considerata orrenda e antiestetica e che, però, se trattata sul piano cromatico e compositivo, può essere, invece, riletta come “bella”. In realtà, ciò da cui sono maggiormente attratto è sempre la bellezza o, perlomeno, quella che dovrebbe essere la bellezza, che per me è la perfezione. Da questo punto di vista, la mia è sicuramente un’indagine sulla bellezza assoluta: una ricerca del bello, il tentativo di reinventare qualche cosa di già inventato dalla natura e che abbia quella luminosità, quella luce, quella incredibile composizione che la natura fa con gli animali, con i pesci, con l’essere umano.

G. D.: Non credi che il ribaltamento dei canoni estetici e lo stravolgimento delle leggi naturali che suggeriscono i tuoi lavori, possano rimandare, però, ad altri e più estesi stravolgimenti del sentire?
R. G.: Non credo, come artista, di poter dare indicazioni, ad esempio, su come bisogna vivere per essere felici. Non è la mia strada e neanche il mio lavoro, credo però che la libertà che c’è in queste immagini potrebbe aiutare a capire che c’è un’altra possibilità, un altro mondo, più libero rispetto ai meccanismi in cui siamo incastrati. Quindi, probabilmente, l’arte potrebbe avere il compito di rimettere insieme quella trasversalità, in modo tale da poter proporre, a livello sociale, ai giovani, alle persone attive, che c’è un modo diverso, che c’è una strada diversa per interagire con le cose, che la scoperta non finisce mai e che ha un senso cercare di scoprirla.

G. D.: Dagli autoritratti con la pelle di pollo o la buccia d’arancio alle scarpe di pelle umana, Questo dell’invenzione, o meglio ancora, dell’ibridazione è un tema ricorrente nel tuo lavoro.
 Robert Gligorov, King Fish. 1998, cibachrome 120 x 120 cmR. G.: Sì, è un tema che ho trattato spesso. Per quanto riguarda la pelle, sono sempre stato attratto dalla dermatologia, dalle mutazioni cutanee, dalle sue caratteristiche - l’elasticità, la capacità di modificarsi negli anni, la resistenza e l’adattabilità - che ne fanno una materia unica, inimitabile, sebbene l’uomo cerchi ormai da tempo di riprodurla. Giocando su questi aspetti, io deformo la pelle, combinando elementi umani con altri, vegetali o animali. La pelle è sempre stata un territorio di indagine vicino alla mia sensibilità, anche se, in questo momento, l’ho un po’ abbandonato. Da piccolo ero molto attratto dai Super Eroi, dai fumetti - l'Uomo Ragno, i Fantastici Quattro, l'incredibile Hulk - e c’era sempre l’idea della mutazione: l’essere che veniva colpito dai raggi o quello morso dal ragno e, alla fine, anche la pelle mutava, mutava anche il corpo, anticipando già quelle che potevano essere le evoluzioni della medicina. In qualche modo, nel mio lavoro ci sono queste cose, riprendo un po’ il concetto del Super Eroe, non quello di Nietzsche, ma il SuperRobert Gligorov, If i, 2001, 120 x 120 cm, edizione di 3 ciba su alluminio Eroe legato ad un fumetto, ad un concetto popolare. È questo, in realtà, che mi ha sempre affascinato: considerare la pelle come una sorta di superficie rapportabile alla superficie della tela, che può rappresentare un possibile territorio pittorico. Infatti, poi, molti hanno fatto della propria pelle una specie di tela come i body artisti, con i tatuaggi….

G. D.: Anche tu?
Robert Gligorov, Endo, 2000, 120 x 130 cm, edizione di 9 ciba su alluminioR. G.: No, io ho non ho sfruttato la mia pelle come un’opera d’arte. Non ho mai usato il tatuaggio, ho usato, piuttosto, quello che sulla pelle può crescere: ho sempre tentato di capire se fosse possibile modificare biologicamente un seme per metterlo sotto la pelle, praticamente come se un fiore o una pianta potesse crescere sulla pelle. Probabilmente è fattibile, è certo che se oggi metti il seme di una rosa o di qualche altra pianta sotto la pelle, o questa si infiamma o il corpo espelle quell’organismo. Però, secondo me, si riuscirà sicuramente a fare un trattamento per cui il corpo, come nel mio video Borderline, possa diventare un territorio, un campo adatto a coltivare delle “cose”: una sorta di peluria, o anche dei fiori, fiori ovviamente compatibili, come compatibile è il cibo che mangiamo e che ci da energia. Sicuramente, un domani ci sarà anche qualcosa di biologico, che vivendo ed evolvendosi, potrebbe diventare compatibile con la pelle. Ecco, è fantastica questa cosa: che l’arte, ancora oggi, possa suggerire gli scenari futuri della scienza e della medicina.

G. D.: In Borderline, il video della tua ultima mostra, un uomo mangia delle rose rosse, un lungo e lento rituale che culmina in un’azione - il vomitare - catartica e allo stesso tempo rigeneratrice, infatti dai frammenti di vomito risbocciano altri fiori. Al’'uomo che mostra se stesso e le sue mutazioni personali si è sostituito l’uomo che ritorna nella natura: mi sembra di cogliere un’attitudine più positiva e ottimista. È questa la direzione in cui sta andando ora la tua ricerca?
 Robert Gligorov, Wing, 2001, 120 x 120 cm, edizione di 3 ciba su alluminio R. G.: Questo video parte dall’idea di un’evoluzione cellulare, molecolare, che poi si sviluppa a livello simbolico attraverso la natura, attraverso una possibile compatibilità con essa e, in effetti, in questa mostra il corpo umano è poco presente e, comunque, legato ad un contesto un po’ diverso: il protagonista mangia dei fiori, e già questa potrebbe essere una aberrazione, una deviazione, - però in realtà è un fatto simbolico. Ingurgitare un fiore non è del tutto naturale, però, allo stesso tempo, vomitando tutte le cose che ha mangiato, il protagonista si libera anche a livello viscerale. Liberarsi a livello viscerale dà veramente la libertà. Liberarsi, quindi, da un’ossessione o da un pensiero ricorrente, dal dolore per una persona cara che è morta. Insomma, accettarne l’idea. Il video rappresenta questo: dal vomito sbocciano altri fiori, e quindi, probabilmente, una nuova proposta, un nuovo inizio. Il vomito è simbolico: è un bubbone che scoppia, e se non lo elimini continui ad agonizzare, a stare male, invece questo modo di buttarlo fuori permette di liberarsi.
Per quanto riguarda la positività di questo lavoro, in effetti questa mostra è più libera rispetto alle altre, più propositiva. Sono meno imprigionato in processi mentali più implosivi. Sono proiettato verso l’esterno, sia come modo, sia come atteggiamento. Sicuramente, questa cosa non è nata da un progetto preciso, ma l’ho riconosciuta una volta che il progetto è stato realizzato. Devo dire che faceva parte di me, non nasceva come ragionamento freddo a tavolino, ma, vedendo poi nell’insieme la mostra, indubbiamente questa cosa c'è…

 Robert Gligorov, Crinolina, 1997, ferro, legno, uccelliG.D.: Hai parlato di progetto: nella tua ultima mostra c’è tantissimo disegno. Quanto il disegno partecipa della costruzione delle tue opere?
R. G.: Il disegno è tutto: è l’anima, la struttura. Come l’ossatura è l’anima, la struttura scheletrica del corpo che viene rivestita dai muscoli, tutto il mio lavoro, la sua anima, è il disegno, è lo scheletro del mio corpo, del mio corpo artistico: da lì nasce l’idea, e se il disegno è solido sicuramente anche la forma finale funzionerà. Io ho sempre disegnato da piccolo e per me è una cosa molto naturale perché è cresciuta in me. È come, fai conto, il giocatore di tennis o il suonatore di chitarra, che come prende in mano lo strumento gli viene facile, e quindi, probabilmente, si potrebbe definire il mio lavoro come quello di un disegnatore e basta.


Robert Gligorov è nato a Kriva Palanka (FYROM) nel 1960. Vive e lavora a Milano.

  CORPO

GLIGOROV
di Achille Bonito Oliva
L’arte contemporanea ha investito della propria creatività ogni possibile superficie arrivando alla fine ad adottare anche l’apparato somatico come corpo d’arte. D’altronde la figura del dandy nella seconda metà dell’Ottocento rappresenta proprio il desiderio dell’artista e del letterato di non tenere niente fuori dal campo della significazione: l’eleganza quale sintomo di distinzione e di differenza nei riguardi della società in incipiente massificazione.
All’anonimato ed al numero il dandy contrappone l’unico, se stesso preso come emergenza verticale contro il grigiore orizzontale del corpo sociale. Il corpo d’artista diventa allora anch’esso il luogo dove sorge il desiderio espressivo e segnala nello stesso tempo la convergenza verso una unità individuale, portatrice di manifestazioni e comportamenti tutti giocati sotto il segno dell’esemplarità.
Marcel Duchamp è l’artista che nel Novecento adotta in termini esplicitamente espressivi il corpo quale luogo capace di proiettare verso l’esterno segni inscrivibili dentro il linguaggio dell’arte. Egli si fa scolpire sulla nuca una stella, segno di elezione e di supremazia: il capo infatti è la parte del corpo dove avvengono le trasformazioni del pensiero e dunque costituisce la zona privilegiata del corpo. In tal modo l’arte contemporanea ha dilatato il territorio della propria rappresentazione, investendo il corpo dell’artista di una capacità che naturalmente altri corpi non hanno in quanto appartenenti ad individui non investiti dalla capacità ricreatrice dell’arte, l’unica capace di trasfigurare e portare il corpo fuori dalla sua contingenza materica e dal suo cieco spessore. L’apparato psicosomatico partecipa dunque e diventa attore della messa in scena dell’arte.
Duchamp dunque costituisce la matrice da cui si dipana un filo che porta negli anni Settanta alla body-art e all’arte del comportamento in cui l’opera si risolve contestualmente alla presenza del pubblico e l’oggetto è costituito dal gesto effimero, legato alla dinamica temporale, che si consuma in una parabola attiva o in un’immagine ferma. In ogni caso ci troviamo di fronte ad un uso del corpo che conserva la sacrale consapevolezza del corpo d’artista portata dal Duchamp.
“Non si può parlare del corpo umano senza porre il problema dell’abbigliamento perché, come ha detto, credo, Hegel, non so più esattamente in quali termini, l’abbigliamento è ciò attraverso cui il corpo umano diventa significante e dunque portatore di segni o addirittura dei propri segni... nelle società se non tradizionali... il corpo umano non era mai visto nudo... e l’abbigliamento era per così dire incorporato nel corpo” (Roland Barthes). Il dandy dunque ha utilizzato l’abbigliamento per segnare, oltre che con l’ opera artistica (il panciotto rosso, per esempio, di Théophile Gautier), la propria differenza rispetto al corpo sociale in maniera spettacolare ed evidente.
Già nel caso di Duchamp ci troviamo ad una sorta di messa a nudo del corpo, in quanto egli utilizza la tonsura, come un chierico medioevale, per realizzare la stella sulla nuca: il capo infatti è per definizione una parte del corpo esposta senza alterazioni o censure allo sguardo degli altri, parte anatomica e laboratorio a vista del pensiero e della fantasia.
Ma Barthes ci ricorda che Hegel dice anche qualcosa d’altro e precisamente che “l’abito o addirittura, in certi casi, l’assenza controllata e sorvegliata di abiti, ha la funzione di significare il corpo nuovo, il corpo moderno”. Un corpo che non utilizza e non vuole più utilizzare l’abito per stabilire differenze, in quanto la moda ha prodotto un’omologazione che non permette di stabilirne. Per cui, vestito o nudo, l’uomo moderno ha una sorta di intercambiabilità allo sguardo del publlico. Allora il corpo trova la propria differenza se nella propria nudità porta su di sé una gestualità o un sistema di segni che lo individua. Esso è un deposito di narcisismo che nella esibizione riesce a trovare uno sbocco. Il corpo moderno abbisogna dunque di un livello di spettacolarità capace di concentrare l’attenzione e sottrarre così se stesso all’anonimato. Perché il paradosso consiste nel fatto che soltanto attraverso l’esteriorizzazione il corpo si sente esistente nella società di massa.
Gligorov utilizza consapevolmente il linguaggio come tatuaggio, capace di imprimere visibilità ed esistenza formale al corpo d’artista. Video, fotografia, pittura, installazione sono variazioni di un linguaggio che tatua le immagini antropomorfe dell’arte.
Da Arcimboldo a Duchamp e fino a Gligorov il tatuaggio, quale sistema di segni applicato direttamente sulla pelle, diventa un mezzo capace di enfatizzare l’attenzione del corpo verso se stesso e verso gli altri. Se anticamente designava l’appartenenza ad una setta o dichiarava una volontà effrattiva verso il sistema, con una realtà rituale tipica dall'universo culturale di provenienza, l’Oriente, il suo allargamento alla società occidentale da una parte gli ha tolto la sua ritualità e dall’altra ha prodotto una modificazione nel senso di una sua maggiore estetizzazione. Il tatuaggio allora diventa uno strumento di espressione narcisistica verso l’interno e verso l’esterno. Verso l’interno quando il linguaggio tatuato, figurativo od astratto, è realizzato su parti del corpo nascoste. Verso l’esterno quando l’applicazione avviene su parti della pelle esposte allo sguardo degli altri. Nel primo caso il tatuaggio si pone come una sorta di raffigurazione di immagini interiori, fabulatorie o terrificanti, comunque appartenenti ad una iconografia popolare, che trovano così un livello di superficie capace di esorcizzare il fantasma e di produrre come una sorta di energia apotropaica e magica, amuleto decorativo ed incarnato non più cancellabile dalla memoria della pelle.
Il corpo è dunque armato di una decorazione a vita che accompagna ogni gesto, eroico e quotidiano, esaltante e smorzato, silenzioso e dichiarato. Il tatuaggio è una decisione estetica che delega però la sua esecuzione all’esterno. D’altronde anche Duchamp ha scelto la decorazione della stella, ma ha delegato ad altri il gesto che la scolpisce, la tonsura. Piuttosto la differenza sta nel fatto che l’immagine dell’artista francese è provvisoria e verrà cancellata dalla crescita dei capelli, mentre il tatuaggio è incarnato ed accompagna la crescita ed il deperimento del corpo. In questo caso l’immagine respira col corpo e prende i segni della sua intimità, gli odori ed i colori, assume i movimenti e le torsioni dell’apparato somatico, esaltandone il momento estatico ed autocontemplativo, la consapevolezza di averla. Se in questo caso funziona l’affermazione lacaniana della Giovane Parca “mi vedevo vedermi” nel caso del tatuaggio realizzato in parti del corpo esposte allo sguardo degli altri, ci troviamo di fronte alla esibizione di un linguaggio che punta a dichiarare esplicitamente la propria presenza, a fondare in maniera lampante una rappresentazione del corpo capace di renderlo estetico, forse più spesso cosmetico, e dunque differente, campo di meraviglia e trappola dello sguardo e della seduzione, mezzo di rallentamento della disattenzione di massa. Infatti spesso il tatuaggio gioca sulla compilazione, sull’orgoglio della complessità esecutiva che implica in qualche modo la possibilità di una sua produzione unica. Il tatuaggio diventa una seconda pelle ed anche una copertura, un abbigliamento che copre e nello stesso tempo segnala la nudità, una decorazione che nobilita l’intero apparato corporale e non soltanto la parte investita dall’opera dell’esecutore.
Il linguaggio è desunto dall’universo iconografico orientale, descrittivo e minuzioso, dettagliato e ornamentale, orrifico ed ironico. Anche nella sua figurazione conserva il carattere di un’astrazione legata alla tradizione ferma dei suoi duemila anni di storia.
Mondo animale e vegetale è intrecciato in un unico avviluppo e designa un universo immaginario legato ad una visione del mondo animistica che naturalmente prescinde dalle credenze del committente, di colui che indossa il tatuaggio. In ogni caso il tatuaggio assume sempre uno stile adottato e sviluppato dall’arte manieristica del Cinquecento, l’anamorfosi, che poggia i propri caratteri in una rappresentazione piena di torsione e sottratta all’idea di una contemplazione frontale. Nel quadro di Hans Holbein I due ambasciatori si vede in primo piano, tra le due figure di uomini comodamente seduti, un oggetto a siluro attraversare la scena, navigare nel vuoto tra i vari oggetti della camera, dipinta invece in tutti i suoi particolari in maniera minuziosa.
Se l’intera composizione è visibile mediante uno sguardo frontale, l’oggetto misterioso si può decifrarlo soltanto di lato, soltanto sottraendosi alla frontalità dell’opera, quando ci si sta allontanando dal quadro. Così si scopre che il siluro è un teschio dipinto con una torsione anamorfica, sottratto alle leggi della proporzione e dell’armonia che invece assistono il resto della composizione.
Nel tatuaggio assistiamo alla stessa torsione, in quanto la superficie dove esso si incarna è calda e mobile, sottoposta al movimento ed al respiro del corpo. In tal modo l’immagine acquista una dinamica indotta, una cinetica progressiva.
Il corpo in tal modo imprime all’immagine una possibilità di spostamento e di modificazione che ci ricorda quella del cartone animato, fatto di fasi successive realizzate però col minimo indispensabile, con la qualità ulteriore dell’irripetibilità tipica della gestualità non standardizzata del corpo. Il corpo anonimo, non appartenente dunque al depositario della fantasia che per definizione è l’artista, diventa corpo glorioso, schermo e deposito di un’immagine che proietta all’interno ed all'esterno l’energia del proprio reticolo di segni, che irradia fuori di sé le trame cromatiche di un aderente abbigliamento.
La proiezione non conosce soste, non abbisogna di particolari proiettori, in quanto l’oggetto-schermo è nello stesso tempo soggetto esaltato di narcisismo e dunque anche, oltre lo sguardo del corpo sociale, soggetto di godimento, come colui che si vede vedersi.
Se non possiamo parlare di corpo artistico, sicuramente possiamo invece parlare di corpo estetico, segnato da stimmate che nascono dalla fantasia della committenza e da quella altrettanto scatenata della sua produzione. Col tatuaggio l’arte del corpo ultima il suo tragitto per morire in un artigianato puntigliosamente specializzato e massificato.
Gligorov è un produttore di tatuaggi, partecipa all’elaborazione del corpo-spettacolo mediante la produzione di un linguaggio altamente desemanticizzato, in cui non esiste più alcuna identificazione del portatore con i valori che dette immagini possedevano all’ inizio, nell’antichità.
Tale carattere rende il tatuaggio estremamente contemporaneo, in quanto anche nell’arte, per esempio quella della transavanguardia, l’immagine vive una condizione felicemente liberata da ogni peso e significazione, per liberarsi come puro significante. Il tatuaggio vola sul corpo, lo attraversa come un siluro e lo rende leggero e danzante.
Corpo macedone è quello di Gligorov. Come Alessandro Magno elabora a futura memoria opere e comportamenti capaci di prolungarsi ne1 tempo.

Estratto dal libro “State of Grace”, Ed. Orange

   

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