Ziqqurat n°4
Sommario
Corpo Gligorov
di Achille Bonito OliA |
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r
p
o |
Incontro con
Robert
Gligorov
di Giannella Demuro |
G.
D.: I tuoi lavori suscitano spesso un sentimento di straniamento
che nasce, probabilmente, dal contrasto tra i contenuti, a volte orridi,
inquietanti e la perfezione tecnica e formale delle immagini.
R. G.: Ho sempre cercato la perfezione. Chi percorre
le mie immagini deve trovare una fluidità, come quando scorre l’acqua.
Il mio lavoro può non piacere, però non c’è
incoerenza a livello formale. C’è un evidente equilibrio
legato, in parte, a tanti anni di disegno, allo studio della storia dell’arte,
della prospettiva, dell’anatomia, della teoria del colore e, in
parte, alla mia sensibilità, al mio modo di fare, che mi porta
a cercare sempre più la perfezione. Un po’ un’ossessione,
in un certo modo, ma comunque un qualcosa che mi dà sicurezza,
una sorta di piacere. Parto, così, dalle fotografie in sala di
posa per arrivare a creare, attraverso l’elaborazione al computer,
qualcosa di inattaccabile a livello tecnico, dei “gioielli”
che puoi rifiutare di guardare, costruiti e trattati, però, in
un modo ineccepibile a livello estetico.
G. D.: Per parlare di perfezione usi spesso il corpo
umano, perché questa scelta?
R. G.: Il corpo umano è probabilmente la cosa
più perfetta che ci sia in natura. Un giaguaro, un cavallo, corrono
più velocemente dell’uomo, però l’uomo ha il
cervello e non c’è nessun altro essere in natura che abbia
le sue stesse capacità di coordinazione, con le gambe, con le mani.
Nel mio lavoro la sperimentazione, la ricerca sul corpo è importante,
sia perché come essere umano è una materia che conosco bene,
sia perché, comunque, provoca un’attrazione instancabile:
il corpo umano non sazia mai abbastanza la vista, c’è sempre
un modo di trattarlo e ritrattarlo che è sempre nuovo, vedi la
body art e altre esperienze sul corpo nell’arte. È per questo
che la figura, il ritratto, rimarranno, comunque, l’oggetto pregnante
dell’arte.
G. D.: In realtà, però, tu rappresenti
dei corpi che vanno incontro a mutazioni, a trasformazioni, a ibridazioni…
R. G.: Si, ma il gioco dell’arte è proprio
questo. Fondamentalmente l’arte è un gioco, è trasformismo,
è trucco, è la teatralità che si può mettere
in scena, con il corpo, con i costumi: qualcosa di sperimentato da anni
ma sempre morbosamente affascinante. Il
corpo umano, d’altronde, è perfetto anche se deforme, come
è perfetta l’iride, come sono perfetti i denti anche se marci,
e ciò a dispetto dei canoni riconosciuti di “bello”
e “brutto”. Io gioco, paradossalmente, su una cosa che a livello
comune è considerata orrenda e antiestetica e che, però,
se trattata sul piano cromatico e compositivo, può essere, invece,
riletta come “bella”. In realtà, ciò da cui
sono maggiormente attratto è sempre la bellezza o, perlomeno, quella
che dovrebbe essere la bellezza, che per me è la perfezione. Da
questo punto di vista, la mia è sicuramente un’indagine sulla
bellezza assoluta: una ricerca del bello, il tentativo di reinventare
qualche cosa di già inventato dalla natura e che abbia quella luminosità,
quella luce, quella incredibile composizione che la natura fa con gli
animali, con i pesci, con l’essere umano.
G. D.: Non credi che il ribaltamento dei canoni estetici
e lo stravolgimento delle leggi naturali che suggeriscono i tuoi lavori,
possano rimandare, però, ad altri e più estesi stravolgimenti
del sentire?
R. G.: Non credo, come artista, di poter dare indicazioni,
ad esempio, su come bisogna vivere per essere felici. Non è la
mia strada e neanche il mio lavoro, credo però che la libertà
che c’è in queste immagini potrebbe aiutare a capire che
c’è un’altra possibilità, un altro mondo, più
libero rispetto ai meccanismi in cui siamo incastrati. Quindi, probabilmente,
l’arte potrebbe avere il compito di rimettere insieme quella trasversalità,
in modo tale da poter proporre, a livello sociale, ai giovani, alle persone
attive, che c’è un modo diverso, che c’è una
strada diversa per interagire con le cose, che la scoperta non finisce
mai e che ha un senso cercare di scoprirla.
G. D.: Dagli autoritratti con la pelle di pollo o
la buccia d’arancio alle scarpe di pelle umana, Questo dell’invenzione,
o meglio ancora, dell’ibridazione è un tema ricorrente nel
tuo lavoro.
R.
G.: Sì, è un tema che ho trattato spesso. Per quanto
riguarda la pelle, sono sempre stato attratto dalla dermatologia, dalle
mutazioni cutanee, dalle sue caratteristiche - l’elasticità,
la capacità di modificarsi negli anni, la resistenza e l’adattabilità
- che ne fanno una materia unica, inimitabile, sebbene l’uomo cerchi
ormai da tempo di riprodurla. Giocando su questi aspetti, io deformo la
pelle, combinando elementi umani con altri, vegetali o animali. La pelle
è sempre stata un territorio di indagine vicino alla mia sensibilità,
anche se, in questo momento, l’ho un po’ abbandonato. Da piccolo
ero molto attratto dai Super Eroi, dai fumetti - l'Uomo Ragno, i Fantastici
Quattro, l'incredibile Hulk - e c’era sempre l’idea della
mutazione: l’essere che veniva colpito dai raggi o quello morso
dal ragno e, alla fine, anche la pelle mutava, mutava anche il corpo,
anticipando già quelle che potevano essere le evoluzioni della
medicina. In qualche modo, nel mio lavoro ci sono queste cose, riprendo
un po’ il concetto del Super Eroe, non quello di Nietzsche, ma il
Super
Eroe legato ad un fumetto, ad un concetto popolare. È questo, in
realtà, che mi ha sempre affascinato: considerare la pelle come
una sorta di superficie rapportabile alla superficie della tela, che può
rappresentare un possibile territorio pittorico. Infatti, poi, molti hanno
fatto della propria pelle una specie di tela come i body artisti, con
i tatuaggi….
G. D.: Anche tu?
R.
G.: No, io ho non ho sfruttato la mia pelle come un’opera
d’arte. Non ho mai usato il tatuaggio, ho usato, piuttosto, quello
che sulla pelle può crescere: ho sempre tentato di capire se fosse
possibile modificare biologicamente un seme per metterlo sotto la pelle,
praticamente come se un fiore o una pianta potesse crescere sulla pelle.
Probabilmente è fattibile, è certo che se oggi metti il
seme di una rosa o di qualche altra pianta sotto la pelle, o questa si
infiamma o il corpo espelle quell’organismo. Però, secondo
me, si riuscirà sicuramente a fare un trattamento per cui il corpo,
come nel mio video Borderline, possa diventare un territorio,
un campo adatto a coltivare delle “cose”: una sorta di peluria,
o anche dei fiori, fiori ovviamente compatibili, come compatibile è
il cibo che mangiamo e che ci da energia. Sicuramente, un domani ci sarà
anche qualcosa di biologico, che vivendo ed evolvendosi, potrebbe diventare
compatibile con la pelle. Ecco, è fantastica questa cosa: che l’arte,
ancora oggi, possa suggerire gli scenari futuri della scienza e della
medicina.
G. D.: In Borderline, il video della tua
ultima mostra, un uomo mangia delle rose rosse, un lungo e lento rituale
che culmina in un’azione - il vomitare - catartica e allo stesso
tempo rigeneratrice, infatti dai frammenti di vomito risbocciano altri
fiori. Al’'uomo che mostra se stesso e le sue mutazioni personali
si è sostituito l’uomo che ritorna nella natura: mi sembra
di cogliere un’attitudine più positiva e ottimista. È
questa la direzione in cui sta andando ora la tua ricerca?
R.
G.: Questo video parte dall’idea di un’evoluzione
cellulare, molecolare, che poi si sviluppa a livello simbolico attraverso
la natura, attraverso una possibile compatibilità con essa e, in
effetti, in questa mostra il corpo umano è poco presente e, comunque,
legato ad un contesto un po’ diverso: il protagonista mangia dei
fiori, e già questa potrebbe essere una aberrazione, una deviazione,
- però in realtà è un fatto simbolico. Ingurgitare
un fiore non è del tutto naturale, però, allo stesso tempo,
vomitando tutte le cose che ha mangiato, il protagonista si libera anche
a livello viscerale. Liberarsi a livello viscerale dà veramente
la libertà. Liberarsi, quindi, da un’ossessione o da un pensiero
ricorrente, dal dolore per una persona cara che è morta. Insomma,
accettarne l’idea. Il video rappresenta questo: dal vomito sbocciano
altri fiori, e quindi, probabilmente, una nuova proposta, un nuovo inizio.
Il vomito è simbolico: è un bubbone che scoppia, e se non
lo elimini continui ad agonizzare, a stare male, invece questo modo di
buttarlo fuori permette di liberarsi.
Per quanto riguarda la positività di questo lavoro, in effetti
questa mostra è più libera rispetto alle altre, più
propositiva. Sono meno imprigionato in processi mentali più implosivi.
Sono proiettato verso l’esterno, sia come modo, sia come atteggiamento.
Sicuramente, questa cosa non è nata da un progetto preciso, ma
l’ho riconosciuta una volta che il progetto è stato realizzato.
Devo dire che faceva parte di me, non nasceva come ragionamento freddo
a tavolino, ma, vedendo poi nell’insieme la mostra, indubbiamente
questa cosa c'è…
G.D.:
Hai parlato di progetto: nella tua ultima mostra c’è
tantissimo disegno. Quanto il disegno partecipa della costruzione delle
tue opere?
R. G.: Il disegno è tutto: è l’anima,
la struttura. Come l’ossatura è l’anima, la struttura
scheletrica del corpo che viene rivestita dai muscoli, tutto il mio lavoro,
la sua anima, è il disegno, è lo scheletro del mio corpo,
del mio corpo artistico: da lì nasce l’idea, e se il disegno
è solido sicuramente anche la forma finale funzionerà. Io
ho sempre disegnato da piccolo e per me è una cosa molto naturale
perché è cresciuta in me. È come, fai conto, il giocatore
di tennis o il suonatore di chitarra, che come prende in mano lo strumento
gli viene facile, e quindi, probabilmente, si potrebbe definire il mio
lavoro come quello di un disegnatore e basta.
Robert Gligorov è nato a Kriva Palanka (FYROM) nel 1960. Vive
e lavora a Milano.
L’arte
contemporanea ha investito della propria creatività ogni
possibile superficie arrivando alla fine ad adottare anche l’apparato
somatico come corpo d’arte. D’altronde la figura del
dandy nella seconda metà dell’Ottocento rappresenta
proprio il desiderio dell’artista e del letterato di non tenere
niente fuori dal campo della significazione: l’eleganza quale
sintomo di distinzione e di differenza nei riguardi della società
in incipiente massificazione.
All’anonimato ed al numero il dandy contrappone l’unico,
se stesso preso come emergenza verticale contro il grigiore orizzontale
del corpo sociale. Il corpo d’artista diventa allora anch’esso
il luogo dove sorge il desiderio espressivo e segnala nello stesso
tempo la convergenza verso una unità individuale, portatrice
di manifestazioni e comportamenti tutti giocati sotto il segno dell’esemplarità.
Marcel Duchamp è l’artista che nel Novecento adotta
in termini esplicitamente espressivi il corpo quale luogo capace
di proiettare verso l’esterno segni inscrivibili dentro il
linguaggio dell’arte. Egli si fa scolpire sulla nuca una stella,
segno di elezione e di supremazia: il capo infatti è la parte
del corpo dove avvengono le trasformazioni del pensiero e dunque
costituisce la zona privilegiata del corpo. In tal modo l’arte
contemporanea ha dilatato il territorio della propria rappresentazione,
investendo il corpo dell’artista di una capacità che
naturalmente altri corpi non hanno in quanto appartenenti ad individui
non investiti dalla capacità ricreatrice dell’arte,
l’unica capace di trasfigurare e portare il corpo fuori dalla
sua contingenza materica e dal suo cieco spessore. L’apparato
psicosomatico partecipa dunque e diventa attore della messa in scena
dell’arte.
Duchamp dunque costituisce la matrice da cui si dipana un filo che
porta negli anni Settanta alla body-art e all’arte del comportamento
in cui l’opera si risolve contestualmente alla presenza del
pubblico e l’oggetto è costituito dal gesto effimero,
legato alla dinamica temporale, che si consuma in una parabola attiva
o in un’immagine ferma. In ogni caso ci troviamo di fronte
ad un uso del corpo che conserva la sacrale consapevolezza del corpo
d’artista portata dal Duchamp.
“Non si può parlare del corpo umano senza porre il
problema dell’abbigliamento perché, come ha detto,
credo, Hegel, non so più esattamente in quali termini, l’abbigliamento
è ciò attraverso cui il corpo umano diventa significante
e dunque portatore di segni o addirittura dei propri segni... nelle
società se non tradizionali... il corpo umano non era mai
visto nudo... e l’abbigliamento era per così dire incorporato
nel corpo” (Roland Barthes). Il dandy dunque ha utilizzato
l’abbigliamento per segnare, oltre che con l’ opera
artistica (il panciotto rosso, per esempio, di Théophile
Gautier), la propria differenza rispetto al corpo sociale in maniera
spettacolare ed evidente.
Già nel caso di Duchamp ci troviamo ad una sorta di messa
a nudo del corpo, in quanto egli utilizza la tonsura, come un chierico
medioevale, per realizzare la stella sulla nuca: il capo infatti
è per definizione una parte del corpo esposta senza alterazioni
o censure allo sguardo degli altri, parte anatomica e laboratorio
a vista del pensiero e della fantasia.
Ma Barthes ci ricorda che Hegel dice anche qualcosa d’altro
e precisamente che “l’abito o addirittura, in certi
casi, l’assenza controllata e sorvegliata di abiti, ha la
funzione di significare il corpo nuovo, il corpo moderno”.
Un corpo che non utilizza e non vuole più utilizzare l’abito
per stabilire differenze, in quanto la moda ha prodotto un’omologazione
che non permette di stabilirne. Per cui, vestito o nudo, l’uomo
moderno ha una sorta di intercambiabilità allo sguardo del
publlico. Allora il corpo trova la propria differenza se nella propria
nudità porta su di sé una gestualità o un sistema
di segni che lo individua. Esso è un deposito di narcisismo
che nella esibizione riesce a trovare uno sbocco. Il corpo moderno
abbisogna dunque di un livello di spettacolarità capace di
concentrare l’attenzione e sottrarre così se stesso
all’anonimato. Perché il paradosso consiste nel fatto
che soltanto attraverso l’esteriorizzazione il corpo si sente
esistente nella società di massa.
Gligorov utilizza consapevolmente il linguaggio come tatuaggio,
capace di imprimere visibilità ed esistenza formale al corpo
d’artista. Video, fotografia, pittura, installazione sono
variazioni di un linguaggio che tatua le immagini antropomorfe dell’arte.
Da Arcimboldo a Duchamp e fino a Gligorov il tatuaggio, quale sistema
di segni applicato direttamente sulla pelle, diventa un mezzo capace
di enfatizzare l’attenzione del corpo verso se stesso e verso
gli altri. Se anticamente designava l’appartenenza ad una
setta o dichiarava una volontà effrattiva verso il sistema,
con una realtà rituale tipica dall'universo culturale di
provenienza, l’Oriente, il suo allargamento alla società
occidentale da una parte gli ha tolto la sua ritualità e
dall’altra ha prodotto una modificazione nel senso di una
sua maggiore estetizzazione. Il tatuaggio allora diventa uno strumento
di espressione narcisistica verso l’interno e verso l’esterno.
Verso l’interno quando il linguaggio tatuato, figurativo od
astratto, è realizzato su parti del corpo nascoste. Verso
l’esterno quando l’applicazione avviene su parti della
pelle esposte allo sguardo degli altri. Nel primo caso il tatuaggio
si pone come una sorta di raffigurazione di immagini interiori,
fabulatorie o terrificanti, comunque appartenenti ad una iconografia
popolare, che trovano così un livello di superficie capace
di esorcizzare il fantasma e di produrre come una sorta di energia
apotropaica e magica, amuleto decorativo ed incarnato non più
cancellabile dalla memoria della pelle.
Il corpo è dunque armato di una decorazione a vita che accompagna
ogni gesto, eroico e quotidiano, esaltante e smorzato, silenzioso
e dichiarato. Il tatuaggio è una decisione estetica che delega
però la sua esecuzione all’esterno. D’altronde
anche Duchamp ha scelto la decorazione della stella, ma ha delegato
ad altri il gesto che la scolpisce, la tonsura. Piuttosto la differenza
sta nel fatto che l’immagine dell’artista francese è
provvisoria e verrà cancellata dalla crescita dei capelli,
mentre il tatuaggio è incarnato ed accompagna la crescita
ed il deperimento del corpo. In questo caso l’immagine respira
col corpo e prende i segni della sua intimità, gli odori
ed i colori, assume i movimenti e le torsioni dell’apparato
somatico, esaltandone il momento estatico ed autocontemplativo,
la consapevolezza di averla. Se in questo caso funziona l’affermazione
lacaniana della Giovane Parca “mi vedevo vedermi” nel
caso del tatuaggio realizzato in parti del corpo esposte allo sguardo
degli altri, ci troviamo di fronte alla esibizione di un linguaggio
che punta a dichiarare esplicitamente la propria presenza, a fondare
in maniera lampante una rappresentazione del corpo capace di renderlo
estetico, forse più spesso cosmetico, e dunque differente,
campo di meraviglia e trappola dello sguardo e della seduzione,
mezzo di rallentamento della disattenzione di massa. Infatti spesso
il tatuaggio gioca sulla compilazione, sull’orgoglio della
complessità esecutiva che implica in qualche modo la possibilità
di una sua produzione unica. Il tatuaggio diventa una seconda pelle
ed anche una copertura, un abbigliamento che copre e nello stesso
tempo segnala la nudità, una decorazione che nobilita l’intero
apparato corporale e non soltanto la parte investita dall’opera
dell’esecutore.
Il linguaggio è desunto dall’universo iconografico
orientale, descrittivo e minuzioso, dettagliato e ornamentale, orrifico
ed ironico. Anche nella sua figurazione conserva il carattere di
un’astrazione legata alla tradizione ferma dei suoi duemila
anni di storia.
Mondo animale e vegetale è intrecciato in un unico avviluppo
e designa un universo immaginario legato ad una visione del mondo
animistica che naturalmente prescinde dalle credenze del committente,
di colui che indossa il tatuaggio. In ogni caso il tatuaggio assume
sempre uno stile adottato e sviluppato dall’arte manieristica
del Cinquecento, l’anamorfosi, che poggia i propri caratteri
in una rappresentazione piena di torsione e sottratta all’idea
di una contemplazione frontale. Nel quadro di Hans Holbein I due
ambasciatori si vede in primo piano, tra le due figure di uomini
comodamente seduti, un oggetto a siluro attraversare la scena, navigare
nel vuoto tra i vari oggetti della camera, dipinta invece in tutti
i suoi particolari in maniera minuziosa.
Se l’intera composizione è visibile mediante uno sguardo
frontale, l’oggetto misterioso si può decifrarlo soltanto
di lato, soltanto sottraendosi alla frontalità dell’opera,
quando ci si sta allontanando dal quadro. Così si scopre
che il siluro è un teschio dipinto con una torsione anamorfica,
sottratto alle leggi della proporzione e dell’armonia che
invece assistono il resto della composizione.
Nel tatuaggio assistiamo alla stessa torsione, in quanto la superficie
dove esso si incarna è calda e mobile, sottoposta al movimento
ed al respiro del corpo. In tal modo l’immagine acquista una
dinamica indotta, una cinetica progressiva.
Il corpo in tal modo imprime all’immagine una possibilità
di spostamento e di modificazione che ci ricorda quella del cartone
animato, fatto di fasi successive realizzate però col minimo
indispensabile, con la qualità ulteriore dell’irripetibilità
tipica della gestualità non standardizzata del corpo. Il
corpo anonimo, non appartenente dunque al depositario della fantasia
che per definizione è l’artista, diventa corpo glorioso,
schermo e deposito di un’immagine che proietta all’interno
ed all'esterno l’energia del proprio reticolo di segni, che
irradia fuori di sé le trame cromatiche di un aderente abbigliamento.
La proiezione non conosce soste, non abbisogna di particolari proiettori,
in quanto l’oggetto-schermo è nello stesso tempo soggetto
esaltato di narcisismo e dunque anche, oltre lo sguardo del corpo
sociale, soggetto di godimento, come colui che si vede vedersi.
Se non possiamo parlare di corpo artistico, sicuramente possiamo
invece parlare di corpo estetico, segnato da stimmate che nascono
dalla fantasia della committenza e da quella altrettanto scatenata
della sua produzione. Col tatuaggio l’arte del corpo ultima
il suo tragitto per morire in un artigianato puntigliosamente specializzato
e massificato.
Gligorov è un produttore di tatuaggi, partecipa all’elaborazione
del corpo-spettacolo mediante la produzione di un linguaggio altamente
desemanticizzato, in cui non esiste più alcuna identificazione
del portatore con i valori che dette immagini possedevano all’
inizio, nell’antichità.
Tale carattere rende il tatuaggio estremamente contemporaneo, in
quanto anche nell’arte, per esempio quella della transavanguardia,
l’immagine vive una condizione felicemente liberata da ogni
peso e significazione, per liberarsi come puro significante. Il
tatuaggio vola sul corpo, lo attraversa come un siluro e lo rende
leggero e danzante.
Corpo macedone è quello di Gligorov. Come Alessandro Magno
elabora a futura memoria opere e comportamenti capaci di prolungarsi
ne1 tempo.
Estratto dal libro “State
of Grace”, Ed. Orange
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