Ziqqurat n°4
Sommario
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Fammi godere
Arpiani e Pagliarini
di Marco Senaldi |
“Reggere il mòccolo”
Un tizio parte in crociera verso mari lontani.
Ma la nave fa naufragio e il pover’uomo si ritrova sulla proverbiale
isola deserta in compagnia della più bella donna del mondo, Claudia
Schiffer. Nasce la prevedibile love story e la felicità dell’uomo
è al colmo. Ma dopo un po’ di tempo il fortunato mostra segni
di impazienza e tristezza. «Sai, è che mi manca tanto il
mio migliore amico,
Romoletto... ». «Va bene - risponde Claudia - what can I do
for you - che posso fare per te?» «ti prego, - ribatte lui
- potresti vestirti da uomo?». Anche se molto scettica Claudia acconsente
al volere del partner. Quest’ultimo, non appena la vede così
vestita, esulta e la abbraccia come se si trattasse del vecchio amico:
«Ahò, a Romolè! te devo dì ’na cosa straordinaria,
te faccio morì d’invidia: ma lo sai che me sto a scopà
Claudia Schiffer?!».
La morale della storiella, naturalmente non risiede in quel tanto di machismo
che rivela (a dir la verità potrebbe essere rovesciata, con una
“lei” al posto di “lui”...), e nemmeno su come
sia talvolta più bello raccontare le cose che viverle direttamente;
no, il cuore della storia risiede nell’identità ipotetica
Claudia-Romoletto, nella natura intimamente contraddittoria del godimento
per cui, ogniqualvolta raggiungiamo la cosa X che supponiamo ci possa
soddisfare, essa si rivela chiaramente carente, a meno che non sia doppiata
dalla sua controparte immaginaria. Solo quest’ultima, pur nella
sua esistenza virtuale, è quel surplus che ci permette di restare
illesi dal crollo evidente dell’oggetto dei desideri - dal fatto
che, una volta raggiunta (ossia divenuta per-noi), la cosa-in-sé
rischia di perdere ogni valore ed ogni senso.
Quello che la storiella omette di dire è ciò che accade
dopo: cioè che, se pure lo stratagemma del nostro eroe funziona
e, in un certo senso, salva la relazione, esso è senza ritorno:
la relazione sessuale “ingenua”, “primitiva”,
è, dopo la piccola recita, interamente perduta e tra i soggetti
ha preso piede una forma di relazione in cui il godimento, da diretto,
si è fatto riflesso, triangolare, come se di mezzo - a reggere
il famoso mòccolo - ci fosse uno schermo.
Io, màmmeta e tu
Questo divenir riflessivo delle relazioni
umane è ciò che mi fa pensare ad Arpiani-Pagliarini come
i possibili protagonisti di una barzelletta simile, in cui però
tutti e due occupano simultaneamente la posizione di Claudia Schiffer
e di Romolo... Ma che cosa fanno Arpiani-Pagliarini? Dico e chiedo cosa
fanno, perché chi siano è già una domanda così
difficile, a cui gli stessi Arpiani-Pagliarini non forniscono mai una
risposta davvero esauriente.
Andiamo con ordine. Nel 1995 Federico Pagliarini, artista, partecipa al
Valdenza Show, una modesta trasmissione di un’emittente privata,
dove interviene in compagnia della fidanzata, Raffaella Arpiani, e dei
familiari, che, in qualità di collaboratori presentano i suoi lavori.
Fin qui, niente di male, un po’ di pubblicità locale per
un giovane artista. Già, ma di che lavori si trattava? La piccola
grande storia (1993) era ad esempio una foto di scena del film Maria Luigia
Duchessa di Parma, in cui Federico (a 12 anni) interpretava il ruolo del
Re di Roma; la foto ingrandita, e montata su pannello pubblicitario, viene
allestita nei boschi in cui era solita passeggiare Maria Luigia, e in
cui è stato parzialmente girato il film. In altri termini, la realtà
del bosco prende valore dalla finzione in cui è entrata la realtà
di Federico Pagliarini.
Il
gioco cresce di importanza quando, nel 1997, Arpiani-Pagliarini partecipano
a Uomini e donne, (Canale 5) il talk show pomeridiano leader d’ascolti,
condotto da Maria De Filippi. Col pretesto della gelosia della fidanzata
Raffaella per la gallerista milanese di Federico, Emi Fontana, i due intervengono
come ospiti della trasmissione. La loro vicenda, che unisce l’aspetto
privato (Arpiani e Pagliarini sono davvero una coppia nella vita) con
l’aspetto pubblico del lavoro artistico, non manca di suscitare
la curiosità del pubblico in studio. Sollecitata, la gallerista
interviene telefonicamente, ma la sua smentita è ambigua. Nel frattempo
non si capisce affatto che tipo di arte faccia Federico. Spunta addirittura
un diario al quale lui avrebbe confidato i suoi segreti tormenti d’amore,
ma l’artista si difende sostenendo che si tratta di un’“opera
d’arte”! Alla conduttrice televisiva Maria De Filippi, che
chiede a Federico Pagliarini «se scolpisce o dipinge», lui
risponde che i suoi «sono soprattutto allestimenti, che sono lavori
uno diverso dall’altro. Difficile spiegarlo nel dettaglio con termini
generali».
Solo molto tempo dopo si verrà a sapere che la loro partecipazione
era stata concordata in precedenza fra loro e con la gallerista, e che
tutto l’insieme aveva costituito quella che potremmo definire una
performance mediale. Ma è arte questa?
Arte come ready-made
La
risposta alla domanda: se sei un artista, che artista sei? non può
essere esauriente e rimane indecidibile, perché entrambe le cose,
domanda e risposta, fanno parte dei mezzi smaterializzati con cui lavorano
Arpiani-Pagliarini.
Questa
“indecidibilità” è ribadita da un’altra
partecipazione ai media dei duo: nel settembre 1998, infatti, Raffaella
Arpiani porta Federico davanti al giudice della trasmissione Forum (Rete
4) per chiedere che venga riconosciuta pubblicamente la sua partecipazione
al lavoro artistico del fidanzato. Ancora una volta non si capisce esattamente
in che cosa consista questo “lavoro”. Ma il giudice Santi
Licheri “ufficializza” la società e decreta che i due
cognomi vengano affiancati in ordine alfabetico - nasce così il
duo Arpiani-Pagliarini.
Il vero enigma è che, nonostante l’intento sia stato poi
dichiarato apertamente, nel cosiddetto mondo dell’arte pochi hanno
riconosciuto nelle partecipazioni televisive di Arpiani-Pagliarini un’azione
artistica. Mentre molta “gente comune” ha continuato a riconoscere
Raffaella e Federico per strada o al supermarket, gli addetti ai lavori
hanno pensato ad una forma di autopromozione, se non proprio a una buffonata.
Chi ritiene di far parte del mondo dell’arte, si esime dall’essere
considerato “comune”, e pensa di essere in qualche modo “speciale”.
Pensa così perché è convinto che il “Sistema
dell’Arte”, di cui, magari malvolentieri, dice di far parte,
legittimi il suo statuto, che sia quello di critico, di gallerista, di
collezionista, o semplicemente di artista. L’Arte dunque funziona
in questa proiezione come un sistema di potere ben definito, come un sistema
di valori certamente discutibile, ma che definisce saldamente l’identità
dei soggetti che ad essi si riferiscono. Andare contro questo sistema
sbeffeggiandolo in una galleria viene percepito come “gesto critico”,
come “intelligente operazione demistificatoria”. Ma andare
in televisione a svelare il lato osceno di questo Sistema dell’Arte
viene invece percepito dagli “adepti” come una trasgressione
non solo inutile, ma velleitaria se non proprio pericolosa. Il fatto che
Arpiani-Pagliarini siano apparentemente andati in tv a parlare dei loro
problemi personali (la gelosia di Raffaella nei confronti della gallerista,
ma anche i lavori artistici di Federico) non nasconde la sostanza della
cosa, cioè che così facendo hanno messo in discussione (agli
occhi del Sistema dell’Arte) il ruolo stesso dell’artista.
Si pensi a ciò che già aveva fatto Warhol con le Brillo
boxes: le scatole di legno serigrafate erano così simili alle vere
scatole di cartone del detersivo Brillo, da poter essere scambiate per
quelle, pur essendone infinitamente lontane. Questa “infinita lontananza”
derivava dal fatto che il valore artistico della Brillo box di Warhol
era garantita dall’Arte come Sistema (nel caso di Warhol, ad esempio,
il fatto che le sue sculture fossero esposte alla Stable Gallery, e non
in un supemercato; e dal fatto che oggi ognuna vale milioni di dollari).
Ma l’operazione di Arpiani-Pagliarini dimostra che è possibile
fare molto di più: considerare l’Arte stessa come una Brillo
Box, e pertanto produrne una mimesi, una imitazione estremamente vicina
al vero pur senza essere “identica”. Il problema però
cresce di livello: se Warhol poteva ancora portare le “sue”
boxes in galleria, in quale contesto potremo inserire la copia mimetica
del classico “giovane artista”, della “fidanzata gelosa”,
della “bella gallerista d’avanguardia”, e via dicendo?
Non abbisogniamo forse di un Sistema più capiente, “più
grande” insomma, del vecchio “Sistema dell’Arte”
- un nuovo Potere che definisca la nostra operazione e le restituisca
legittimità? Questo nuovo Sistema in effetti esiste già:
è appunto incarnato dal sistema dei media, di cui la televisione,
e segnatamente il genere del talk-show, rappresenta una delle più
notevoli espressioni.
Il Sistema dell’Arte infatti funzionava come tutti gli altri Poteri:
definiva per opposizione l’identità
dei soggetti e le loro azioni (con la forza legale delle Istituzioni -
Musei, Fondazioni, gallerie “di riferimento”...) e ne includeva
il desiderio tramite l’oscenità (il non-detto, il saperci-fare,
i piccoli ricatti magari a sfondo sessuale, le trame segrete di potere...).
Invece il nuovo Potere mediale non può legittimare se non tramite
la de-legittimazione dei soggetti; l’identità che fornisce
loro è solo momentanea e paradossale, per cui essi sono se stessi
solo quando, tramite Lui, non sono più se stessi. In altre parole,
mentre a teatro un attore può mettersi la toga e diventare un giudice
solo nella finzione, in tv un giudice vero può apparire solo come
“ospite”; se si mette a fare il giudice, cessa di essere un
giudice vero per diventare un “giudice televisivo”, un Santi
Licheri… Così, se si va in tv in quanto artisti, si ottiene
l’identità di “personaggi televisivi”, carini,
belli, intelligenti, spiritosi, o “in crisi” - pertanto, per
apparire “artisti”, occorre, tramite la tv, assumere l’identità
televisiva di “personaggi”.
Fai come Me: diventa un Altro!
Tutte le operazioni artistiche di Arpiani-Pagliarini
derivano, in varia misura, da quest’ultimo postulato, ed è
a questo fine che si inseriscono nell’universo dei media. Però,
dopo tanti anni di arte come “contro-informazione”, di teorie
situazioniste sul “rovesciamento”
del messaggio massmediale, di arte come “virus” all’interno
dell’organismo informativo, le cose sono cambiate. La strategia
di Arpiani-Pagliarini non è quella di opporre resistenza, ma di
opporre insistenza, intrufolarsi dentro i media, però dalla porta
principale, rispondendo al loro stesso appello.
Il fatto è che quando si parla di media, il campo mentale si restringe
in maniera sconsolante, e ci vengono in mente i telegiornali all’italiana,
qualche testata nazionale, qualche rotocalco, qualche megaproduzione hollywoodiana,
un po’ di radio e poco altro. È evidente la riduttività
di questo approccio, ma ancor più subdola è l’idea
che ne deriva: che i “media” siano qualcosa di lontano, istituzionale,
impenetrabile, che gli artisti seri debbono combattere o contaminare.
In realtà qualunque media si alimenta del feedback offerto dalla
fruizione, non è nemmeno concepibile senza questa risposta: ecco
perché è tanto futile la concezione della comunicazione
in chiave emittente-messaggio-ricevente. I media non sono sottrattivi:
sono piuttosto restitutivi, nel senso che noi riceviamo indietro dai media
ciò che ci abbiamo messo dentro, sia pur in forma rovesciata -
cosa questa che procura godimento. (È un po’ come vedersi,
anziché allo specchio, nel monitor: veder se stessi vedere, poiché
chi “guarda in camera” ci fissa ma non ci vede, osserva soltanto
l’impersonale obiettivo di una telecamera). Lo stesso discorso unifica
anche gli altri mezzi di comunicazione, specialmente là dove la
comunicazione sembra farsi più personale, per esempio nelle rubriche
di posta presenti in quasi tutti i rotocalchi. Veder pubblicata la propria
missiva su un rotocalco ha questo senso: non è un gesto di semplice
rispecchiamento, come quando si scrive veramente ad un amico per avere
un parere, un segno o una risposta; è un gesto triangolare, chiedere
a Lui di dirmi cosa fai Tu, per sapere chi sono Io stesso.
Qualcosa m’è successo del 1997 è un lavoro sintomatico
in questo senso: iniziato nel 96 esso è consistito nell’invio
di lettere a vari rotocalchi, da Gioia a Quattrozampe, da Anna a Grazia,
a Cronaca Vera, provocando decine di risposte di varie personalità
- dalla sessuologa Graziottin al teologo di Famiglia Cristiana a Miriam
Mafai - responsabili di quelle rubriche. Una “tecnica mista su carta”
che è sempre la stessa: chiedere un parere su un problema personale
(la gelosia, il micio di casa, il successo del partner...) esattamente
all’interno del campo di enunciazione dell’Altro, di colui
che è preposto a rispondere. I risultati sono esilaranti: quando
Federico Pagliarini scrive a Susanna Agnelli
(su Oggi, 30, 1997) dicendosi “imbarazzato” ogni volta che
qualcuno gli chiede che lavoro fa, perché «l’arte oggi
lavora con mezzi sempre più smaterializzati...»; «al
limite azzardo ‘faccio delle installazioni’, ma in realtà
questo termine ambiguo rischia di sembrare insignificante».... lei
gli risponde: «Non si definisca un ‘artista’; dica ‘lavoro
artigianalmente’ e le persona saranno più disposte ad aiutarla».
Quando Raffaella, subdolamente, riferendosi alla sua partecipazione a
Uomini & Donne, dice di essere diventata ancor più gelosa di
Federico, Willy Pasini (su Grazia, 35, 1997) cade voluttuosamente nella
trappola e, ricordando Warhol, le consiglia di distinguere tra l’effimera
fama televisiva e il vero legame “che vi unisce”… Insomma,
tanto più il problema esposto da Arpiani-Pagliarini è “mimetico”,
ossia assomiglia ai problemi “reali” esposti dai grafomani
che scrivono alle rubriche dei settimanali, tanto più viene preso
per “vero” dall’esperto di turno, confermando le parole
di Lacan secondo cui «la verità si struttura nei modi della
finzione» - ossia gettando un dubbio radicale sulla “realtà”
di quei problemi.
Ma questa operazione ha un altro effetto: quello di manifestare in tutta
evidenza il carattere “corale” della stampa periodica, cioè
il fatto che, al di là di posizioni morali o ideologiche, di destra
o sinistra, di teologia o pornografia, nel dare la risposta alla domanda
“chi sono?” esibita dal piccolo soggetto fruitore, l’Altro
svela se stesso, dice “chi è”. L’Altro mediatico
svela di essere Colui che rende altro, colui che fa divenir altro i soggetti
che a lui si rivolgono, l’Agente che li toglie dall’identità
con se stessi. Le risposte infatti hanno almeno questo in comune: tutte
insistono sul tema della liberazione: «liberati da queste sciocche
paure!», «supera il sentimento di gelosia!», «discuti
di questo problema col tuo parroco! (o col tuo andrologo)» ecc.,
ossia tutte hanno la forma classica del paradosso: sii te stesso, abbandona
la tua deplorevole patologia, realizza le tue fantasie, ossia: diventa
come Me, che ti rispondo incarnato magari da una piccola foto in cui compaio
sorridente e sicuro. Insomma: per essere te stesso, diventa come me: diventa
Altro.
A testimonianza di questo leitmotiv, Arpiani-Pagliarini hanno presentato
in galleria le copie delle riviste che hanno pubblicato le loro lettere,
disposte sopra leggii come spartiti musicali, ed hanno invitato un coro
di musica polifonica a cantare brani tratti dalla mescolanza delle lettere;
il coro, infatti, fin dalla tragedia greca, impersona il senso dei valori
acquisiti, incarna la sfera del “pubblico”, dà voce
e corpo all’impersonale insieme di valori su cui, ci piaccia o no,
modelliamo le nostre identità.
Viva la Muerte!
Il
fatto è che, nell’arte di Arpiani e Pagliarini, ad essere
messa in discussione è anche la “realtà” dell’arte
stessa. Ma l’arte può permettersi questo paradosso, oppure
esso ne decreta il suicidio? Ora, ogni volta che si parla di “morte
dell’arte” tutti pensano alla deriva di disordine, di perdita
della forma, o del senso, o della abilità manuale, posteriore alle
avanguardie storiche, senza intendere che la fine dell’arte consiste,
esattamente come per il soggetto, nel suo farsi altro da sé. Ma,
esattamente come per il soggetto, che gode nel comparire sullo schermo,
o meglio nel presentarsi nello studio televisivo, con il trucco addosso
e le telecamere puntate, anche l’Arte ha goduto di questa continua
auto-estraneazione. Gli artisti di oggi sono come i Testimoni di Geova:
la loro normalità è talmente sottolineata (le donne con
i capelli da parrucchiere e i tailleur, gli uomini ben rasati, in giacca
e cravatta molto standard, ecc.) da risultare inquietante, quasi come
la normalità degli ultracorpi nel film omonimo; il quid indicibile
che li differenzia dai “normali” è la presenza vitale
dentro di loro dell’Altro - per loro, che ci credono, Geova; per
chi non crede, un “eccesso”
di normalità. Ed è in tale “eccesso” che il
godimento è più grande.
Rispondendo (su Amica, 14, 1997) ad una lettera di Federico (in cui si
parla di un maniaco che avrebbe perseguitato sua madre, ecc. - episodio
la cui autenticità qui non è importante) Barbara Alberti
coglie una verità quando dice: «Forse il godimento è
solo nel dirlo. Ed è un meccanismo così perverso che anche
lei, F, scrivendo questa lettera, fa il gioco del telefonatore misterioso.
Non sarà anche lei un poco esibizionista? ... Il suo zelo è
sospetto. E più è in ‘buona fede’ e peggio è...».
Forse il godimento è proprio nell’impasto tra buona fede
e abilità imitativa, tra zelo e sospetto, tra linguaggio ed essere
che non solo l’arte ma in genere la vita, stanno evidenziando all’epoca
dei media.
Le cose vanno dunque un po’ come il rapporto del tizio con Claudia
Schiffer: la Schiffer - metaforicamente, la cosa-in-sé, il tesoro
nascosto dell’Arte -, si depotenzia presto e non nasconde più
alcuna promessa di verità se non viene ammantato presto o tardi
da un rivestimento immaginario che ne trasformi l’essere in linguaggio,
che ne faccia ciò che Lacan designava come parlêtre (parl’essere).
Il godimento estetico cioè, da quando ha conosciuto l’antagonista
più grande, il godimento immaginario, di cui i media sono la più
efficace incarnazione, non può più sopravvivere da solo.
Aver compreso questa impotenza, è il lato più profondo del
lavoro di Arpiani e Pagliarini.
Anche grazie a loro l’Arte, a dispetto delle reiterate profezie
che la danno per defunta, continua a sopravvivere, ma immaginariamente,
sotto forma di morta-vivente, zombie e vampiro al tempo stesso.
Marco Senaldi è critico d’arte. Vive e lavora a Piacenza.
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