Ziqqurat n°3
Sommario
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Assemblare
la
VITA |
Intervista
a Pietro Siotto |
di Ivo Serafino Fenu
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I.S.F.: Il tuo percorso artistico
è piuttosto eccentrico e nasce fuori dalle accademie. Possiamo
dire che la strada poté più della scuola?
P.S.: Certo. Ma la mia vena creativa non è innata
ed è conseguente alla mia voglia di manipolare la materia, di giocare
con essa in una dimensione ludica che mi porto fin dall’infanzia.
Per quanto l’approccio fosse inconsapevole ho scelto dei ruoli e
dei giochi sempre diversi da quelli degli altri bambini. Già da
piccolo c’era questo senso dell’assemblaggio, dell’ordine,
dell’allineare gli oggetti che, in qualche modo, credo derivi dal
fatto di essere vissuto in uno spazio ristretto e all'interno di una famiglia
numerosa.
I.S.F.: Assemblare oggetti è ancora un topos
della tua produzione.
P.S.: Devi pensare che la mia casa si trovava all’estrema
periferia, nei quartieri popolari di Nuoro. Alcune zone sotto casa ora
sono diventate strade, quartieri residenziali, prima però erano
dei terrapieni. I lavori di costruzione di questi terrapieni, spesso delle
vere e proprie discariche dei materiali più disparati, sono durati
anche dieci anni e io da bambino avevo appunto la discarica davanti a
casa: discarica di inerti, soprattutto materiali di demolizione, ma anche
carcasse d’auto, legname. Ricordo che stavo sempre nella parte bassa
del terrapieno e aspettavamo che i camion vomitassero queste cose che
diventavano poi i materiali con i quali, assieme a miei amici, costruivamo
le nostre casette.Questa voglia di fare, di manipolare, di assemblare,
mi è rimasta. Crescendo ho iniziato a sperimentare le possibilità
espressive di materiali più “artistici” ma senza velleità
di fare l’artista. In uno spazio ristretto, a casa mia, scopro l’acquerello
e il mondo del colore, e poi i pastelli ad olio, la carta adesiva, il
plexiglas, gli smalti sintetici e l’acrilico: è uno sperimentare
inconsapevole che però, pian piano diventa tecnica.
I.S.F.: Sbaglio o c’è un certo compiacimento
pasoliniano in questa storia quasi da “ragazzo di vita” nuorese?
P.S.: Forse, ma la periferia di Nuoro intorno al ‘65
era un po’ pasoliniana: fogne a cielo aperto e
camion carichi di detriti. E il mio rapporto con questi oggetti era di
sogno e là, del resto, è avvenuta la mia formazione umana
prima che artistica. Tra un frigorifero abbandonato e un pezzo di legno
trovavo il mio equilibrio e vivevo le mie esperienze, anche sessuali.
Più pasoliniano di così!
E poi non va dimenticato che l’arte di assemblare e di costruire
è di famiglia, sia perché mio padre era muratore sia perché
in seguito questa è diventata anche la mia professione. Comunque,
al di là degli aspetti più o meno letterari, col passare
degli anni e con grandi difficoltà è arrivato il momento
in cui mi sono sentito un artista o hanno incominciato a dirmelo gli altri.
È il momento della consapevolezza e può essere anche doloroso
perché questo vivere da artisti è spesso un vivere per distruggere
quello che abbiamo creato. È l’ambizione di voler arrivare
a un traguardo per poi rendersi conto, nel momento in cui lo si raggiunge,
che ce n’è un altro da perseguire.
I.S.F.: Però questo gusto per il recupero
degli oggetti ti è rimasto e mi pare coincida col recupero della
memoria.
P.S.: Esatto, è come un voler fissare il tempo.
Quelle casette nate per gioco da bambini, ritornano sotto altre forme
nelle mie opere, quasi dovessero durare in eterno. Ho dovuto lasciare
il mondo del gioco molto presto, a undici anni andavo a scuola e di sera
in cantiere con mio padre. Sono stato subito “responsabilizzato”
e per questo voglio rimanere un po’ bambino, come Munari che era
un bambino con la consapevolezza di adulto. Il mondo dell’infanzia
lascia liberi spazi critici. È una dimensione che mi è stata
negata troppo presto e così, per scelta, ho prolungato la mia condizione
di bambino. Con tutta l’ingenuità, ma anche la perversione
e spesso la crudeltà che ne consegue.
I.S.F.: Ma quando nasce in te la consapevolezza di
muoverti in un ambito che non è più solo gioco, ma anche
fare artistico?
P.S.: La consapevolezza si crea quando alla manualità,
oramai acquisita, viene aggiunto un supporto di cultura, di conoscenza,
quando vado a Londra e mi ritrovo in una dimensione cosmopolita. Ho staccato
il cordone ombelicale con la famiglia e ho incominciato a pensare a me
stesso. Pietro Siotto artista nasce a Londra, a 25 anni. L’approccio
è stato pittorico ma ho capito che ero un artista quando ho messo
da parte il colore. La consapevolezza di una mia originalità e
soprattutto la conferma che potevo essere originale e sincero al di là
della produzione pittorica l’ho avuta quando sono entrato in contatto
con l’opera di Horst Egon Kalinoswky, un artista contemporaneo che
lavora principalmente con il legno e con la pelle creando forme di grande
suggestione. È comunque a Londra che avverto la necessità
di segnare un mio spazio e la città diventa un enorme contenitore
di oggetti da raccogliere: trovo e porto a casa comò, armadi, sedie
raccolte nei marciapiedi. Prendo una sedia Thonet e la smembro, con la
spalliera e una tela faccio un simbolo sessuale ermafrodita, una sorta
di autoritratto dalla forte valenza sessuale: lo intitolerò Sos
amoraus. Insomma, a Londra comincio a entrare nel meccanismo del sardo
nostalgico che guarda la sua terra dall’esterno e ne vede tutta
la sua valenza. Nella mia prima mostra londinese intitolata Cadiras riscopro
simboli del passato che hanno mantenuto tutta la loro forza comunicativa.
Sempre la sedia Thonet mi conduce a una ricerca che durerà ben
dieci anni: Il linguaggio dell’assemblaggio nel mese di maggio.
I cinque elementi rimanenti della sedia Thonet scomposta, gambe, frontali
anteriori, il cerchio della seduta e i rinforzi della spalliera, diventano
cinque elementi di un gioco combinatorio, cinque lettere di un alfabeto
segnico che io utilizzo in pittura, in scultura, in fotografia, dandogli
un valore magico, ritmico, di danza, di nota musicale su un ideale pentagramma.
I.S.F.: Questi tempi di elaborazione così
lunghi e sedimentati non rischiano di porti fuori dal mercato allontanandoti
dalle mode correnti?
P.S.: È un problema che non mi sono mai posto.
Ho conservato per lungo tempo un numero consistente di cassettine per
le lettere recuperate a Londra, ma solo dopo dieci anni si sono trasformate
ne I 24 messaggi non pervenuti su 100 che ho esposto al Masedu di Sassari
in occasione della mostra Atlante. Insomma, non credo che i tempi dell’arte
siano quelli del mercato.
I.S.F.: È necessario però esserne consapevoli.
P.S.: Infatti la consapevolezza è stata posta
all’inizio di questa chiacchierata: bisogna riconoscere il mostro
che c’è in noi, e domarlo.
I.S.F.: Come riesci a coniugare una dimensione estremamente
“localistica”, anche se spesso solo nella dimensione della
memoria, con gli orizzonti ben più ampi nei quali hai operato,
senza cadere negli stereotipi dell’etnia e del folklore?
P.S.: Uso questa sardità come bandiera, c’è
chi la vive nell’ambito angusto della propria terra e ne rimane
soffocato io invece questa bandiera la sventolo al mondo intero. La mia
sardità è una liberazione, è come avere un conto
in banca. E poi, in fondo, è tutta una questione di linguaggio.
Anche la sardità va universalizzata.
I.S.F.: Negli ultimi decenni vi è stato il
ritorno della pittura, spesso con un recupero eclatante della figurazione.
Ancora una volta mi pare che Pietro Siotto si muova in controtendenza
e in una dimensione ancora spiccatamente “concettuale”?
P.S.: Agli inizi degli anni Ottanta mi sono dedicato
alla pittura, proprio quando questa tornava di moda, e riguardando ora
quelle opere vi scorgo un segno espressionistico forte, un colorismo quasi
fauve in sintonia con certo grafittismo metropolitano, ma era del tutto
inconsapevole, la mia è una lettura a posteriori, seppure, casualmente,
devo aver colto lo spirito del tempo. È un bagaglio di forme e
colori che mi sono portato appresso e ho vissuto con maggior consapevolezza
anche nei miei primi anni londinesi, fino a quando non ho deciso di abbandonare
il colore e dedicarmi agli assemblaggi.
I.S.F.: A Londra hai avuto la fortuna di conoscere
Francis Bacon, com’è andata?
P.S.: L’ho conosciuto casualmente mentre lavoravo
come cameriere in un ristorante. Sapevo chi era, mi incuriosiva e mi affascinava,
così ho cominciato a documentarmi sulla sua opera. Era una persona
assolutamente normale nello stile di vita, era facile incontrarlo al supermercato
sotto casa a comprare il latte. Avevamo stabilito un buon rapporto a livello
umano e avrei dovuto fargli visita nel suo studio dopo un suo breve soggiorno
a Madrid. Purtroppo in quella circostanza morì e questo mancato
incontro è uno dei rimpianti della mia vita. Era un genio inimitabile,
uno dei più importanti artisti del Novecento.
I.S.F.: Forse la sua pittura è inimitabile
ma nelle tue installazione un’eco baconiana ritorna spesso. Penso
al biliardo che hai esposto nella mostra Divieto di sosta a Nuoro e, ancor
più, nel suo nuovo allestimento che hai proposto all’Ovest
di Oristano.
P.S.: Mi affascinava il suo mondo, i suoi interni, le
lampadine appese a questi fili sospesi, le sedie, i tagli circolari dei
suoi spazi. Li sentivo molto vicini al mio mondo e alla mia sensibilità
e, inevitabilmente, li ho interiorizzati e ogni tanto riaffiorano nelle
mie opere. Come appunto la lampada che squarciava il buio mettendo in
evidenza e drammatizzando il campo da gioco senza giocatori di Disputa
tra Despoti. Ma non è solo una questione di spunti tematici, anche
Bacon si è spesso servito di immagini preesistenti rielaborandole.
Lui diceva che i suoi quadri dovevano apparire come se un essere umano
vi fosse passato sopra lasciandovi una scia di umana presenza e tracce
mnemoniche di eventi passati. Sì, mi sento molto vicino alla sua
poetica.
I.S.F.: Sbaglio o Disputa tra Despoti fa parte della
serie delle cosiddette “opere lunghe”?
P.S.: È vero, anche se la prima è stata
Trentatremetrieottantacentimetri, esposta in Piazza Satta a Nuoro in occasione
della mostra Natura Urbana, nell’agosto del 1997. Un lungo nastro
che ho recuperato davanti ad un negozio di roba cinese a New York che,
naturalmente, ho conservato nell’intenzione di ricavarne una lunga
strada verso il cielo percorsa da macchinine colorate: una metafora del
viaggio, del movimento. La seconda è stata l’opera esposta
al Masedu di Sassari I 24 messaggi non pervenuti su 100 realizzata con
le settantasei cassette delle lettere trovate a Londra, poi il calcio-balilla
allungato fino a quattro metri. E, infine, la recente operazione del MAN
di Nuoro, con una catena realizzata con delle doghe di botti e lunga ventisei
metri. Questo dilatamento degli oggetti, quest’allungamento tramite
una concatenazione non è altro che un forzare la dimensione spaziale
e, allo stesso tempo, un ricreare lo spazio stesso, nell’ottica
di una iterazione che anche una volontà di collegare, di mettere
in relazione elementi apparentemente seriali eppure unici, che raccontano
una loro storia come singoli oggetti e che si caricano di nuovi significati
quando vengono connessi.
I.S.F.: A proposito di catene, al MAN, oltre all’intervento
invasivo di più spazi tramite l’installazione, c’è
stata anche una vera e propria performance.
P.S.: Il tagliare la catena ha avuto quasi una valenza
inaugurale e la performance voleva essere gioiosa, ironica, enfatizzata
dal look con elmetto da cantiere e motosega, veloce, rumorosa. Entrare
nel museo con la motosega era una cosa che mi faceva impazzire, probabilmente
è già stato fatto da qualche altra parte ma per Nuoro è
stata una novità. Nel momento in cui ho tagliato la catena (è
stato realizzato un video da mandare su internet) ci sei tu che sollevi
il braccio e guardi l'ombra della tua mano e la fai scorrere sull'ombra
lasciata dalla catena, sei quello che fa soffermare gli altri su un elemento
che rischiava di passare inosservato.
I.S.F.: Non avevo capito se l’ombra fosse proiettata
o dipinta sul muro.
P.S.: L’ombra era dipinta. È un’ombra
indelebile come indelebile è ciò che ci portiamo dentro.
Spezziamo una catena per poi abbracciarne un’altra, ma in realtà
non possiamo interrompere il flusso che la percorre perché la catena
è la vita stessa.
I.S.F.: Recentemente hai donato al MAN un’opera
a tematica religiosa. Segui l’onda?
P.S.: No, è un lavoro lungamente meditato. Il
titolo dell’opera è Il Cristo del Giudizio perché
buona parte degli oggetti che la compongono provengono dalla casa dove
si svolge la storia d’amore de Il Giorno del Giudizio di Salvatore
Satta. Sono oggetti che ho trovato in quasi un anno di lavoro all’interno
della casa e che poi ho assemblato fino a formare una croce. Sono partito
da una vecchia stampa di un crocifisso di Rubens alla quale, dopo alcuni
mesi, ho aggiunto un pettine da telaio per formare l’asse orizzontale
e una tavola decorata di una cassapanca per quella verticale, infine un
cuneo che funge da base per la croce.
Antonello Cuccu ha giustamente osservato che si tratta di un’opera
ricca di significati simbolici, dalle molteplici valenze sociali e antropologiche
e non solo religiose. Ma va detto che l’input mi è venuto
da una situazione personale di sofferenza e quando un amico mi ha fatto
notare che chi soffre si avvicina un po’ a Cristo. Tuttavia quella
croce non va intesa come strumento di tortura ma, semmai, come luogo di
incontro di tradizioni, culture, varie umanità.
I.S.F.: Non ti sembra però che ci sia un uso
del sacro piuttosto fastidioso. Insomma, non che tutti debbano far piovere
meteoriti dal cielo a schiantare questo papa, come ha fatto Maurizio Cattelan,
ma un minimo di coscienza critica sull’abuso del sacro da parte
degli artisti forse non guasterebbe.
P.S.: È vero che il sacro è di moda, c’è
il Giubileo e quindi anche l’arte viene influenzata da questo fenomeno
e l’artista, con più o meno coscienza critica, fissa questo
momento, assecondando talvolta quelli che sono i gusti del mercato.
I.S.F.: Come giudichi l’arte di oggi?
P.S.: L’arte nelle sue diverse e infinite manifestazioni
attuali muta a una velocità impressionante tanto da rendere difficilissimo
starle dietro e, in qualche modo, codificarla e storicizzarla. È
una vertigine, la stessa che imprime un movimento folle alla nostra esistenza:
l’arte non la giudico, la vivo. Ma questo vortice disorienta ed
è per questo che sento il bisogno di ancorarmi al passato, ma senza
sentimentalismi e nostalgie di sorta, mi serve per proiettarmi in avanti.
Ha ragione Renzo Piano a dire che se c’è veramente un luogo
a cui guardare, questo è il futuro.
I.S.F.: E in che direzione va il futuro di Pietro Siotto?
P.S.: Quello prossimo? Nach Berlin!
Pietro Siotto è nato nel 1961 a Nuoro, città
dove vive e lavora
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