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Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo |
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A.F.: Hai detto, una volta, in
un’intervista, che per te «l’arte nasce dall’arte».
Hai detto anche, però, di essere un pittore realista, intendendo,
con questo, un tuo costante impegno ad aderire alla realtà, sia
interna che esterna.
A.C.: Quando dico che «l’arte nasce dall’arte», intendo dire che l’arte non nasce, almeno per me, da un sentimento che è figlio di un rapporto con il reale, un evento della realtà. Faccio un esempio: se vedi una donna con due bambini in braccio, stanca e affaticata, questa è senz’altro un’immagine che ti commuove, però, il quadro che tu fai è solo apparentemente figlio di quest’emozione. Nasce, invece, dal rapporto dialettico con i quadri che altri hanno fatto prima di te: si tratta, cioè, di un rapporto linguistico. Un’opera che contenesse la semplice rappresentazione di quell’immagine sarebbe, pertanto, una mutilazione dell’arte, che invece è polisemica per definizione. Infatti, non solo l’arte si offre a tanti significati diversi, ma questi cambiano, si modificano, si aggregano, man mano che passano gli anni, e la “tua” comunicazione viene a contatto con le possibili letture di altre persone che verranno, magari, cinquant’anni dopo di te, e che daranno un’interpretazione assolutamente indipendente dall’evento che ha attivato, oggi, la realizzazione della tua opera. Questo non significa che l’artista non debba rappresentare un qualcosa, fare un quadro con degli oggetti riconoscibili, perché, in fondo, è anche da questo che nasce la possibilità di lettura da parte del fruitore, il tasso della trasmissione poetica. L’importante è che si capisca che la comunicazione didascalica, o ideologica, o morale, è solo un fatto accidentale, è solo un incidente. A.F.: Chi è, allora, il destinatario dell’opera d’arte? A.C.: Intanto, bisognerebbe sapere cos’è un’opera d’arte! Comunque, il destinatario è colui che la legge e, finché non l’ha letta, l’opera d’arte non c’è. Io non dico mai niente di definitivo, ma credo che questo si possa dire. A.F.: Ma non credi che l’opera d’arte possa esistere anche senza un fruitore, esistere cioè come realtà che appartiene, prima di tutto, a te che l’hai creata? A.C.: Non credo. L’arte è una realtà che vive nel momento in cui l’oggetto che io creo - e che non conosco così bene come lo conosceranno gli altri - si incontra con l’interpretazione del fruitore, del lettore, di colui che lo riceve. Credo, infatti, come la semiotica insegna, che ci sia un emittente, un ricevente e un mezzo, in questo caso l’opera. Non esiste comunicazione che prescinda da questi tre elementi. L’artista può essere contento di ciò che ha fatto, però, finché non interviene qualcun altro che legge l’opera, la inquadra, la interpreta, questa non esiste. C’è da dire, però, che in realtà il primo lettore dell’opera è l’artista stesso ma, proprio per questo, la sua lettura è meno attendibile rispetto a quella degli altri, certamente più distaccati. A.F.: Possiamo dire, allora, che nonostante l’opera d’arte rappresenti l’esito finale di un processo creativo, non possa essere mai considerata come un punto di arrivo? A.C.: No, un punto d’arrivo non c’è mai. Intanto, non credo che un’opera possa mai essere esaustiva, ed è per questo che l’artista, spesso, vive dei residui inespressi dell’ultimo lavoro che ha fatto. Non solo, per quanto mi riguarda, sento la necessità di continuare a controllare l’opera anche quando questa è già finita: è ciò che chiamo, ironicamente, “post-getto”. Controllare, cioè, che tutto “vada bene”, che non ci sia qualcosa in più o qualcosa meno, evitare suggestioni troppo dirette, citazioni da altri o anche da te stesso. Ecco, non solo l’opera non è mai finita, ma non finisce mai il controllo che faccio sulla singola opera. A.F.: Il “post-getto” è quindi qualcosa che ti può portare anche a reintervenire concretamente sull’opera già finita? A.C.: Certo, è possibile. Recentemente, per esempio, sono intervenuto su un lavoro già esposto, sostituendo l’oro “falso” della sezione aurea con una foglia d’oro vero. E ancora, a distanza di anni, ho aggiunto una cornice di legno grezzo, naturale, a gran parte dei retabli già esposti per Magnificat. A.F.: Più che un controllo sull’opera, però, mi sembra che il tuo sia una sorta di dialogo continuo con essa, una comunicazione aperta che non si esaurisce mai, ma anzi si carica continuamente di nuovi significati, sia perché tu intervieni più volte sullo stesso lavoro, sia perché i fruitori incontrano, ogni volta, un’opera diversa. Non solo, nel ciclo di Magnificat, questa comunicazione si dilata nel tempo, grazie al lento processo di ossidazione dell’oro “falso” che, trasformandosi nel tempo, modifica la struttura stessa dell’opera. In quest’ottica, qual è, allora, il tuo rapporto con i possibili fruitori del tuo lavoro? A.C.: Una cosa che fa l’artista, e che a me piace molto, è quella di giocare con il lettore, nel tentativo di spiazzarlo. L’opera d’arte deve essere letta, interpretata e mi piace l’idea di mettere l’interlocutore nelle condizioni “peggiori” per leggere le cose, in modo tale - ed è un patto che io faccio con lui - che debba sforzarsi per arrivarci, per entrare in contatto profondo con l’opera. E in più, quando è convinto che io ho fatto questo o quello, per un certo motivo, come ad esempio nell’omaggio a Malevic, allora lo “spiazzo” di nuovo, scrivendo le parole al rovescio, oppure rimpicciolite o, ancora, tagliate a metà. A.F.: Sono convinto, certo, che il livello simbolico non debba essere immediatamente leggibile, anche perché, in tal caso, l’opera diventerebbe didascalica. Non trovi però contraddittorio dare tanta importanza al lettore e, allo stesso tempo, rendere così difficile la lettura del lavoro? A.C.: Il lettore deve rendersi conto che ci sono tantissime possibilità. Voglio che si colga il livello polisemico dell’opera. Da questo punto di vista, nonostante sia un grande ammiratore di Sanguineti, tendo più al simbolo che all’allegoria. Nell’allegoria, infatti, c’è un’affermazione che viene comunicata in maniera assertiva. Il simbolo, invece, è più sintetico, più sfumato, più ambiguo. È per questo che la comunicazione estetica si arricchisce, continuamente, di nuovi significati, perdendone alcuni e ritrovandone degli altri. Ecco perché sono contrario alla comunicazione ideologica o morale attraverso l’opera d’arte. Senza dubbio, questa è presente: l’eccesso, però, provoca una “castrazione” dell’opera. È come se le togliessi la possibilità di avere tanti sensi diversi mentre ne acquista uno solo, definitivo, immutabile. In fondo, una conquista di questa condizione generale che viene chiamata postmoderno è stata la consapevolezza del fatto che non ci sono delle cose definitivamente giuste, e siccome non ci sono cose definitivamente giuste è difficile dire che ciò che è giusto oggi lo sarà domani. Se oggi affermo qualcosa, non sono mai sicuro che ciò valga anche domani. A.F.: Ma il tuo mettere in discussione l’ideologia nasce dal fatto di averla sentita così pressante, in un certo periodo storico, oppure è qualcosa che senti ancora oggi? Quando parli di ideologia, insomma, ti riferisci specificamente all’ideologia di sinistra o a qualunque forma di totalitarismo ideologico? A.C.: Mi riferisco a qualunque forma di rigidità ideologica, però, essendo stato “gauchista”, me ne assumo comunque la responsabilità. Mi spiego, non è che io sia contro l’ideologia, sono contro l’ideologia totalizzante, per la quale tutto doveva essere fatto secondo le direttive imposte. L’ideologia è qualcosa che tu puoi avere dentro, che ti trasforma, ti aiuta a vivere, a giudicare le cose. Credo sia necessario, però, avere la capacità di metterla continuamente in discussione, di acquisire i nuovi elementi, i nuovi contenuti che derivano dalla realtà esterna, in modo tale da poterla cambiare, modificare, adeguandola ai nuovi sviluppi della realtà. A.F.: Il “Gruppo della rosa” nasceva, quindi, come contrapposizione al potere delle ideologie, anche in ambito artistico? A.C.: Il gruppo nasceva mettendo in mora il modernismo, le avanguardie. Si ironizzava su coloro che, intorno agli anni ’70, volevano imporre il primato di alcuni canoni, estetici o ideologici, su tutti gli altri. Tanto è vero che avevo proposto il tema della “rosa” - uno dei più consumati, banali e pieno di simboli usurati - per dimostrare che anche su un tema così scontato si potevano fare delle belle cose, senza necessariamente inserirci in una delle tante avanguardie di allora. A.F.: L’intento ironico e trasgressivo, però, ha sempre fatto parte del tuo lavoro? A.C.: Non so se si possa parlare di ironia, certo c’è un po’ di spirito trasgressivo, dettato sicuramente da un senso di ribellione e contestazione verso tutte le imposizioni. Nonostante la mia ironia, però, io sono terribilmente serio, le cose che faccio sono terribilmente serie, forse anche noiose. Anche la mia affermazione che «in arte si può fare tutto e il contrario di tutto, l’importante è non crederci», in apparenza così ironica e leggera, è stata, in realtà, una delle cose più “serie” che io abbia mai detto, un’affermazione dettata dalla necessità di non prendersi troppo sul serio, di non dare mai niente per scontato, di essere capaci di ironizzare sul mondo e su se stessi, e quindi anche sull’arte. A.F.: Se non sbaglio la mostra che hai fatto nel ’71 giocava proprio sulla trasgressione. Mi pare anche che in quell’occasione avessi utilizzato due persone che avevano il tuo stesso cognome. Mi racconti com’è andata? A.C.: Dovevo fare una mostra, e pochi giorni prima dell’inaugurazione non avevo ancora preparato niente, c’erano ancora le tele bianche. Poi tutto è successo dalla mattina alla sera - ti dico questo per dire che, a volte, ci sono degli elementi strani che entrano a far parte della comunicazione. Avevo trovato due persone che avevano il mio stesso cognome e le avevo portate nel mio studio. Lì dicevo loro: «venti centimetri di rosso fin qui», «un metro e mezzo di blu fin qui». Questo è stato un lavoro che ho sentito molto, non solo perché era mio, ma era molto più mio perché era fatto non da una ma da ben… tre persone che si chiamavano Contini. Ecco, mi chiedevi prima della costrizione delle avanguardie. Questo intervento, un’operazione di avanguardia, seppure in ritardo, non avrebbe funzionato se non ci fosse stato l’elemento ironico. Non sarebbe scattata l’antifrasi, la possibilità, cioè, della negazione. A.F.: L’intento dissacratorio è presente, comunque, anche nelle Tautologie. Anzi, nelle Tautologie, metti in discussione sia quelli che operavano sul concettuale, ma anche chi utilizzava ancora la pittura in maniera tradizionale. A.C.: Sì, in realtà era un’operazione concettuale, fatta, però, con i mezzi tradizionale della pittura, anche se, a dire il vero, avevo trasgredito una delle regole fondamentali della pittura classica, utilizzando il bianco di titanio anziché il contrasto di colore per la creazione delle luci. Insomma, anche qui una sorta di gioco. A.F.: Ho l’impressione, però, che l’atteggiamento ironico che c’è sempre stato nel tuo lavoro, sia venuto un po’ meno nel ciclo di Magnificat, come se in questo ciclo fosse presente una tua maggiore partecipazione emotiva e personale, qualcosa che, insomma, ti riguarda più profondamente. A.C.: Questa è una cosa che occorrerebbe chiedere alla carta d’identità. Più vai avanti negli anni più c’è sgomento rispetto al mistero della vita: è allora che cerchi, sia pure a livello simbolico, materiali più eterni, più resistenti, come l’oro. Non dimenticare che Magnificat è venuto quando già ero molto più vecchio e dovevo, in più, fare i conti con la Sala delle Maestà degli Uffizi che visitavo quasi giornalmente e, per contraltare, con i Retabli delle nostre chiese. Mi ha sempre commosso, nei Retabli, il tentativo di fare delle cose importanti senza riuscirci. Li amo molto anche per questo. Proprio le opere degli antichi maestri, comunque, mi hanno trasmesso la passione per l’oro e così ho dovuto imparare la tecnica della doratura che, fino ad allora, non conoscevo. Però, all’esibizione riflettente dell’oro lucido ho preferito, da subito, la presenza più contenuta e discreta dell’oro opaco. Credo, anzi, che anche l’aggiunta dei listelli di legno grezzo alle tavole di Magnificat possa avere, in parte, lo stesso significato, contenere l’esuberanza dell’oro. A.F.: Dopo la recente mostra all’ExMà stai preparando qualche nuovo progetto? A.C.: Non vedo l’ora di ricominciare a lavorare, voglio continuare ancora a fare queste cose, e in questo momento sto elaborando materiali e spunti per un nuovo progetto che non ha ancora preso completamente forma, insomma c’è ancora un po’ di caos. A. F.: Ma caos per te significa anche casualità? La creazione inizia dal caos? A.C.: Credo di essere cambiato nel tempo: inizia dal caos, certamente, ma parlando di caos non parlo di casualità perché, come sai, ho una certa diffidenza nei confronti dell’irrazionale. Generalmente cerco di essere razionale, anche se lo sono soltanto in parte, all’inizio mi butto. Tant’è vero che le cose che ho fatto dal ’75 all’’80 con il titolo Gli anni della ricerca disperata e folle, sono venute fuori così, senza pormi nessun limite : Ma non vuol dire, per questo che siano irrazionali. Insomma, nella casualità del caos si fa un oggetto servendosi di qualcosa che si trova, nel mio lavoro, invece, gli elementi del “caos” sono io stesso a crearli. Si tratta di fare, cioè, qualcosa che prima non c’era, utilizzando cose che prima non c’erano, e che puoi scegliere di usare oppure buttar via. Chissà, queste cose, dove andranno a finire... Aldo Contini è nato nel 1924 a Sassari, città dove vive e lavora. Autodidatta in campo figurativo (alle spalle studi interrotti di Ingegneria), è guidato da un’ipotesi di arte come impegno sociale. Nel 1965 aderisce al Gruppo A, facente capo all’omonima galleria, e nel 1976 fonda il Gruppo della Rosa. |
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