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Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo |
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Le attenzioni diffuse ricordano l’importanza
crescente del quadro. Nel suo universo aperto (quadro inteso come
superficie circoscritta) entra la tecnologia in varie forme: direttamente
nei casi dell’arte digitale; indirettamente nei riferimenti, mentali
e processuali, di certa pittura. Quattro direttrici aggregano le migliori
individualità: 1) le nuove figurazioni pittoriche che indagano
il corpo e il paesaggio attuali 2) una nuova astrazione pittorica che
passa al microscopio la struttura delle cose reali 3) la fotografia meccanica
con temi su corpo, paesaggio e feticci 4) le elaborazioni digitali, quelle
in cui la tecnologia ha assunto un ruolo linguistico centrale.
Di seguito affronteremo i casi in cui l’elemento tecnologico appare
dominante. Solo prossimamente passeremo alla pittura figurativa, alle
astrazioni pittoriche e alla fotografia meccanica: casi in cui la tecnologia
entra in causa tramite filtri, spunti mentali e influssi mediati.
1) Nuove figurazioni pittoriche. Il primo caso riguarda la persistenza di tecniche acquisite davanti ai nuovi stimoli esterni. Il panorama italiano schiera diversi nomi significativi. In futuro parleremo di questi artisti, del loro rapporto implicito con le tecnologie, del collegamento tra manualità e cultura del progresso. Adesso fermiamoci ad un caso di manualità anomala. Per comodità la chiamo Tecnopittura e vi raggruppo le plausibili relazioni tra manualismo e tecnologie. Qui la tecnica eccede nella precisione iperreale e si avvicina al vero. La novità è il riferimento del quadro: non più la foto (come accadeva per l’Iperrealismo anni Settanta) bensì l’immagine elettronica coi suoi derivati. La tecnologia sta nei processi tecnici, nei rimandi extralinguistici e nel risultato finale. PierPaolo Campanini si riferisce al cinema anni Trenta di Vladislav A. Starevic (regista russo di film con pupazzi), ai film recenti di Kazki Omori (regista giapponese sempre in tema di pupazzi animati), ai packaging delle scatole Lego o ai giocattoli Playmobil. Dipinge quei prelievi con un’attenzione che rende l’immagine più acida del riferimento. Talvolta raggiunge formati enormi e impiega tempi lunghissimi. Campanini pensa che il pennello sia un mezzo efficace per messaggi oltre il quadro. Confermando quanto la tecnopittura non si blocchi al puro formalismo. Paolo Consorti dipinge immagini che arrivano sempre dal corpo: ripreso, impresso, scandagliato, anormale oltre l’anonimo, universale oltre il momento. L’operazione parte da una registrazione studiata del gesto fisico, del volto in posa anomala o del muoversi in atletismi aerei. Con questi frammenti (video o fotografici) si va alle strumentali funzioni del software. Il computer manipola quei corpi per renderli funzionali ad un progetto iconografico. Non appena raggiunta la nuova fisionomia, Consorti passa alla fase pittorica. Vediamo i corpi tra l’ascensione di un neobarocco e l’intelligenza del saper citare (e nascondere) le icone. Entrano in un flusso di letteratura e cinema, mitologia e quotidiano, religione ed eccesso mediatico. Talvolta aprono ad un totale cortocircuito col video che li (ri)anima. I corpi trovano sempre un’inquadratura adeguata al personaggio. Necessaria per costruire un senso oltre la contaminazione. Fabrice de Nola parte da un lavoro sulle fotografie. Seleziona immagini da repertori storici, archivi privati o da altre fonti. Le foto si compongono secondo meccanismi filmici: primo piano con figura, campo lungo con paesaggio o altri elementi. Le due parti in sovrimpressione determinano spaesamenti cerebrali. Tutto ciò diventa una pittura di precise stesure ma mai iperreale. La matrice fotografica si disseziona in un ibrido tra dipingere e riferimenti elettronici. De Nola fa slittare la manualità e la tecnologia. Il negativo fotografico può diventare positivo in pittura e viceversa. Da poco tempo, poi, l’artista presenta alcuni dittici con l’olio su tela e il suo gemello fotografico invertito (il positivo del quadro diventa negativo e viceversa). Un percorso dove si analizzano ecosistema, problemi del progresso, scienza, ambiente e manipolazioni genetiche. La civiltà del dipingere che si sposa con la civiltà dell’etica. Matia (Pino Giampà e Laura Della Gatta) hanno un occhio particolare per i giocattoli e il mondo ‘infantile’. Nel loro caso i quadri sono il frutto di vere microstorie che costruiscono a studio. Con frutta, verdura e oggetti di un continuo riciclaggio domestico, i Matia danno vita a piccoli set di pochi centimetri. Una volta finiti, i teatrini diventano lo storyboard reale dei loro quadri. Così minuziosi nei colori da ricordare le schermate su un monitor. I due partono da giocattoli e oggetti domestici per creare scenografie veritiere. Dipingono con tale perfezione plastica da simulare l’immagine informatica. Sulla tela ciò che pare elettronico si apre all’imperfezione, ciò che è pittura sembra uscito da una videocamera digitale. Cristiano Pintaldi usa lo schema televisivo e dipinge attraverso la tramatura dei pixel (unità di misura dell’immagine video). Ha una precisa metodologia, regole scientifiche e dosature rigorose dei colori (rosso, verde e blu). Il risultato supera la stessa Tv, la rende più sintetica del suo status. Fino ad estrapolarne icone di tecnologia oltre la pittura. Roy Lichtenstein lo spiegò che non ci si deve fermare all’apparenza. Bisogna osservare oltre, dove l’opera riflette sui fatti vitali. Pintaldi guarda alle culture africane e aborigene, alla fantascienza e ai bambini. Sceglie i soggetti del futuro, le integrazioni multirazziali, le possibilità di mondi ulteriori. E lo fa con una tecnologia che si tramuta nella più folle delle tecniche manuali. 2) Nuove astrazioni pittoriche. Il caso dell’astrazione indica gli ibridi visivi, le forme indefinibili, la materia in cui scompaiono i confini tra astratto e reale. Non si tratta di percorsi innovativi ma di stili noti con riferimenti alle attuali contaminazioni. La particolarità è quella di insistere proprio sul lato nascosto del reale, trovando forme astratte dentro le plausibili figurazioni. In un altro momento parleremo di questa tendenza sempre più diffusa. 3) Nuova Fotografia. È un campo di sterminati esempi che detiene alcuni particolari comuni. La Nuova Fotografia utilizza i mezzi classici di scatto, sviluppo e stampa. Non ha alcun rapporto con gli strumenti digitali ma assomiglia sempre più all’elettronica. Si alterano le forme, si ripensa il realismo e la citazione. Qualcuno ingrandisce o rimpicciolisce fino all’astrazione. Altri fotografano opere come documento funzionale del progetto fisico. Altri ancora fotografano la performance che diventa una nuova cosa (la definisco Tecnobody ovvero, l’azione di carattere intimo che, a differenza degli anni Settanta, vive la sua definizione nella fotografia particolarmente elaborata. Mentre ieri le performance erano progetti pubblici con documenti in foto, oggi mutano in operazioni domestiche a cui si assiste con una fotografia complessa). 4) Elaborazioni digitali. Due sono le strade principali: la Pittura Digitale da una parte, la Fotografia Digitale dall’altra. a) Pittura Digitale implica un uso specifico del computer. L’elettronica diventa un pennello che si aggiunge ai mezzi noti. L’autore elabora e rielabora immagini con idee e risultati pittorici. Le opere si stampano su materiali diversi (tela, carta fotografica, pvc, folex...) attraverso macchinari adatti. Servono abilità iconografica, intuito visivo, energia dei contenuti. Ma soprattutto, il computer deve restare una necessità per il suo autore. Evitando ogni possibile virtuosismo, le pitture digitali chiedono di non fermarsi alla pura bellezza formale. Detto ciò, punterei lo sguardo su Alessandro Gianvenuti. Dal primo lavoro ha sempre seguito lo stesso principio: selezionare dettagli del proprio corpo per registrarli nel computer tramite lo scanner. È lì che comincia la sua operazione. Mani, piedi e faccia vengono sistemati e ricodificati attraverso i passaggi tecnologici. Un progetto che termina nell’elettronica tramite l’abilità dell’occhio intellettuale. Che il soggetto sia una mano o il volto, non cambia la volontà di connettere cervello, emozioni e valori pittorici. Analizzate le immagini stampate. Senza furberie mostrano il talento estetico, la complessità psicologica delle forme, il valore emozionale dei colori. Un altro sguardo va verso Giuseppe Tubi. Vi ricorda un personaggio Walt Disney? Giusto: ma dietro lo stesso nome c’è oggi un autore che vuole il mistero. Di Giuseppe Tubi si vedono solo le sue icone digitali. Prima sceglie (o realizza) le immagini dove ci sia qualcosa di dirompente, visivamente spietato e moralmente vivo. Metabolizzando video, cinema, televisione, fotografia e storia dell’arte, l’artista ricostruisce le tensioni di un gesto pornografico, l’azione del corpo femminile, l’energia del paesaggio, l’onda d’urto dei mezzi pubblicitari, l’impatto costante delle citazioni futuriste. I suoi quadri sembrano bombe al limite dell’autodistruzione. La complessa ridefinizione delle immagini porta il realismo del vero in un realismo tutto pittorico. Sul quadro vediamo attimi di pura forza, compressi da una bellezza che crea tanti rimandi dietro ogni icona. b) Fotografia Digitale. All’opposto della Pittura Digitale si pone un campo dai molti adepti. La Fotografia Digitale esiste nel suo preciso legame con le formule di manipolazione elettronica. Percorsi, mezzi e stampe sono uguali alla pittura al computer. La differenza sta nell’identità profonda dell’immagine: qui prevale l’elemento fotografico dell’icona, che sia completamente rivisto o appena ritoccato. Nella Pittura Digitale l’artista procede ad una risistemazione pittorica dei pixel, ottenendo un risultato che sposta l’asse verso il dipingere. Nella Fotografia Digitale la diversità di temi e tecniche mantiene la temperatura dalla parte fotografica. Sono differenze spesso sottili, codificate più da uno sguardo allenato che da regole sistematiche. Il futuro dell’arte chiederà analisi sempre più attente e rigorose. Matteo Basilè rende tangibile il tempo attraverso volti, feticci, marchi, dettagli. Scende nei frammenti di una quotidianità ravvicinata. Ritrae persone che vivono esperienze a lui vicine. I loghi che invadono i volti hanno ulteriori connessioni alle storie personali. Le immagini subiscono modifiche digitali ma restano riconoscibili, sottolineate da segni di natura manuale. Rivedendo la sequenza di facce, sembra il fermoimmagine su un preciso spaccato storico. In parallelo, quei volti entrano nel ciclo temporale e nobilitano lo scorrere giornaliero. A Basilé interessa che la normalità assuma il valore ambizioso dello spaziotempo aperto. Qui si colloca il video Surya.lab dove la vita scivola via, visibilmente e lentamente. Il pesce che pompa gli ultimi rimasugli d’ossigeno, la mosca che vuole salvarsi dall’acqua, il disco in vinile che gira sul piatto verso la fine: momenti in cui avvicinarsi significa catturare l’aura involontaria dell’epilogo, il climax di un attimo unico. Per l’artista la normalità domestica risiede nei feticci di vita: anche nel modo in cui un DJ relaziona i giradischi Technics ai paesaggi esterni. Giacomo Costa lavora sulla modifica mimetizzata del paesaggio. Coi monoliti creò spazi urbani invasi da giganteschi blocchi in marmo squadrato. Una sorta di assurdi muri senza contenuto politico (vedi Berlino). Messi tra palazzi e strade, privi di funzionalità e di fusione morbida col paesaggio, si tramutavano in frammenti visionari della virtualità architettonica. Ancora più totalizzanti i monoliti orizzontali che Costa chiama orizzonti. Qui l’immagine strettissima e lunga mostra enormi massi squadrati in luoghi di assoluto vuoto. Quasi dei muri nel deserto davanti a cieli sempre più fisici. Il blocco marmoreo ha spesso un’apertura, talvolta diventa più alto, altre volte si allunga in forme sottili. Le opere di Costa nascono da un uso essenziale del software digitale. Non creano manierismi ma necessarie ricostruzioni del mondo ripensato. Cercano il punto di fuga, la prospettiva classica, le regole della fotografia meccanica, la precisione di toni e contrasti. Potreste pensare che quanto vedete sia tutto vero. Fasoli m&m (Giancarlo e Paola) scelgono una comunità sociale, ne fanno parte per un periodo limitato, scoprendo alterità che gli impongono nuovi percorsi mentali. Partono dal vissuto reale in un paese lontano. Può trattarsi di nativi americani, africani della savana o indiani d’India. A non cambiare mai è la progettualità del loro sistema creativo. I due partecipano ad un meccanismo di inserimento sociale, assimilando le spinte antropologiche che contribuiranno alle opere. Durante la permanenza nel luogo iniziano un percorso fotografico. Dai materiali definitivi nasceranno, nel silenzio italiano dello studio, le immagini per il ciclo da esporre. Tramite il computer il duo rielabora dettagli, agisce sui colori, monta frammenti lontani, altera a seconda delle necessità. Alla fine la serie si struttura su un numero chiuso di pezzi. L’intera operazione, dal titolo ‘Spazio Interattivo’, contiene ogni ciclo relativo alla comunità prescelta. La singola serie aggiunge al nome generale il numero del ciclo e dell’opera. Un esempio? Tra il 1994 e il 1995 furono in Kenya con le tribù Samburu, Pokot e Turkana. Il corpo nero di alcuni indigeni divenne la geografia davanti all’obiettivo. Misero sulla pelle dei pizzi o vi proiettarono alcuni giochi di ombre. Il risultato appariva stupefacente come ogni pezzo finora realizzato. Gligorov utilizza spesso la manipolazione digitale dopo aver fotografato i suoi set scioccanti. L’artista è quasi sempre l’attore di immaginari anomali e surreali. Appare con delle luci dentro gli orifizi facciali, con dei pesciolini vivi dentro la bocca o con i vermi che gli ricoprono il corpo. In un video si fa uscire un piccolo uccello dalle labbra dopo aver tenuto la bocca chiusa. Le foto subiscono sottili modifiche che completano un lavoro accaduto. La resa finale dimostra una propensione al primo piano e ai campi ravvicinati dell’inquadratura. Un viaggio nella centralità prospettica del più classico ritrattismo: con un gusto che ha tutto il senso del presente. Gligorov viene da un percorso anomalo. Fumettista, grafico, autore di videoclip, da diversi anni sta lavorando sul proprio corpo. Nel senso che compie molteplici azioni su una pelle che buca, colora, incide ma senza le pesantezze mortifere di altri artisti. Il suo percorso si apre a video, installazioni e pittura. Prediligendo il fotografare e manipolare quei gesti sensazionali. Le immagini colpiscono forte poiché vogliono questo: rivoltare il voyeurismo, lo shock, la drammaticità visuale. Gianluca Marziani è critico d’arte. Vive e lavora a Roma. |
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