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Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo |
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A Thorsten Kirchhoff, uno degli artisti più
interessanti della giovane scena italiana degli anni Novanta, il Man di
Nuoro ha recentemente dedicato una personale, nell’ambito della
ricognizione avviata lo scorso anno nel panorama delle nuove generazioni
italiane. L’artista danese, che risiede ormai da tempo in Italia,
porta avanti una ricerca raffinata e ironica, provocatoria e surreale,
fondendo - all’interno di un linguaggio aperto a sempre nuove possibili
contaminazioni - suggestioni cinematografiche, suono e pittura.
G. D.: Nel tuo lavoro c’è come un’urgenza a deformare e decontestualizzare il reale, perché? T. K.: Nel mio lavoro ci sono sempre degli elementi facilmente riconoscibili, cose, oggetti e situazioni familiari. Anche Guardaroba, il nuovo lavoro che ho presentato al Man, parte da questa idea. In questo lavoro ci sono una stanza e un pianoforte: la stanza è una specie di camera oscura, ma in ogni caso una stanza riconoscibile con quattro pareti e il soffitto, ma messi insieme, stanza e pianoforte creano qualcosa di diverso. Mi piaceva l’idea di togliere la funzione al pianoforte, togliendogli le gambe e incastrandolo in uno spazio troppo piccolo. L’idea è quella di partire da una cosa che conosci molto bene, capovolgendone però il senso, l’uso, per cui quello che vedi non è ciò che ti aspetti, anche se in un primo momento sembra familiare, anche se non ne capisci immediatamente la funzione. In fondo, anche il pianoforte era una specie di stanza. In un certo senso si può dire che in questo lavoro c’è una stanza dentro la stanza, come le scatole cinesi: tu apri, apri, apri, sperando sempre in una risposta... G. D.: E la risposta, qual è? T. K.: Sarebbe bello saperlo. Beh, la risposta, forse, è l’eccitazione che provoca qualcosa che senti, di cui però non sai spiegare la ragione, non sai cioè perché senti in un certo modo. Guardaroba potrebbe essere - ed è una cosa che ricorre molto nel mio lavoro - anche la scena di un film. Immagina una specie di cantina abbandonata, dove l’eroina del film va sempre giù da sola, e tutto quello che potrebbe seguire... Si, in fondo questo lavoro è un fotogramma in tre dimensioni. G. D.: Il cinema, o meglio una certa idea di cinema, è sempre presente nel tuo lavoro. Da cosa nasce questa passione per i film, soprattutto in bianco e nero? T. K.: L’uso del bianco e nero nel mio lavoro nasce dal fatto che il bianco e nero diventa un reale talmente forte, che sconfina nell’irreale. C’è, poi, il fatto che il cinema mi è molto utile, perché per me è un archivio senza fine: qualunque cosa tu cerchi, qualsiasi immagine preesistente, la trovi nel cinema, in qualsiasi tipo di film, che può andare da Fellini a James Bond, a David Lynch, ad Alberto Sordi. Perciò io lo uso come un archivio con un numero così grande di immagini, che non c’è bisogno di inventarne altre ex novo. È importante, però, che l’immagine sia riconoscibile per lo spettatore, proprio perché il senso conosciuto della cosa viene completamente capovolto, e potrebbe, quindi, dare qualcos’altro. Insomma, puoi scoprire delle cose che apparentemente non c’erano, un po’ come nel cinema di Lynch dove l’apparenza nasconde sempre qualcosa d’altro: un’esperienza che ad un certo punto ti fa paura ma ti eccita anche. G. D.: Hai citato Lynch. Tu sei stato definito un’artista lynchiano, ti riconosci in questa definizione? T. K.: Credo di sì. Avrei potuto citare tanti altri, ho citato lui perché condivido molto il senso particolare del suo umorismo. Anzi, ho addirittura fatto delle opere che rimandano esplicitamente ad alcuni suoi film, come Twin Peaks o Strade Perdute, che ho poi fatto diventare mie realizzandole, diciamo, in più dimensioni. Si, c’è tanto del lavoro di Lynch in quello che faccio io anche se, facendo cinema, non credo che farei esattamente Lynch... G. D.: Ti è mai venuta voglia di lavorare nel cinema? T. K.: In realtà, ho appena terminato una cortometraggio, e questo cortometraggio riprende l’opera Aspirine. È una specie di thriller sull’uso e abuso dell’aspirina. Il protagonista è il dottor Hoffmann che, come sicuramente sai, è l’inventore dell’aspirina, e che di questa fa uso e abuso. La particolarità è che tutto questo lo vedi anche dal punto di vista dell’aspirina, proprio perché è possibile che l’aspirina abbia un’anima, una faccia.. G. D.: Il viso ritratto negli oggetti è un aspetto peculiare del tuo lavoro. Mi riferisco non solo ad Aspirine, ma anche ad opere come Jack in the Box o Ciocco. T. K.: È chiaro che quando tu vedi una faccia rifletti anche sul contenuto, sull’anima di questa faccia. Altrettanto, se isoli una poltrona, o un qualsiasi altro oggetto noto - un telefono o altro - questo, essendo estrapolato dal contesto, tende, ad un certo punto, ad acquisire una sua personalità, e perciò si potrebbe dire che se fai vedere una poltrona potrebbe diventare una persona, se fai vedere una persona potrebbe diventare una poltrona. Questo è curioso. Cioè, una faccia oltre ad essere una persona, è anche un oggetto, un “oggetto” e un “soggetto”. Facendolo vedere così da solo, in una certa luce, diventa qualcos’altro, qualcosa che può essere fastidioso, insidioso, magari anche eccitante. G. D.: Nelle tue opere è quasi sempre presente una componente “sonora”. Tu hai esordito in Danimarca come musicista, quanto questo ha influito sulla tua ricerca? T. K.: Certamente molto. Per me il suono non è mai secondario all’immagine. Sono completamente d’accordo con Godard quando afferma che è il suono che dirige le immagini al cinema e non viceversa. È veramente incredibile quanto il suono possa dare spessore ad un’immagine. G. D.: Mi sembra che questo modo di considerare il suono sia alla base di opere come Tutti sanno cantare o Wedding Bells. T. K.: Tutti sanno cantare era una citazione da un disco che ho fatto con il mio gruppo musicale in Danimarca, gli Ivor Axeglovitch. Si, penso che quest’opera potrebbe incarnare il senso di quello che dicevo prima, così, ci sono delle facce sugli altoparlanti, e gli altoparlanti emettono suono, però, allo stesso modo è vero che potresti anche dire che ci sono degli altoparlanti sotto le facce e sono le facce che emettono suono. Sono quindi gli altoparlanti, o le facce, ad emettere suono? E così via… Cioè, si perde il nesso fra supporto e immagine, che diventano interscambiati. G. D.: C’è molta ironia in tutto questo… T. K.: Credo che l’ironia sia essenziale per l’arte. Mi pare che moltissimi artisti siano consapevoli di questo. D’altronde, se non cerchi di vedere gli elementi, non dico positivi, ma almeno meno fatali, della vita…. Thorsten Kirchhoff è nato a Copenaghen nel
1960. Nel 1984 si trasferisce a Roma dove vive e lavora. |
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