Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


Ziqqurat n°2
Sommario

di Antonello Fresu

A. F.: Come è nata la tua passione per la video arte?
F. C.: Ho iniziato con la musica elettronica. Il primo approccio artistico è avvenuto a 15 anni con la scoperta di un sintetizzatore. Ho capito così che dalla sintesi analogica dei suoni potevo passare alla sintesi delle immagini e, quindi, alla possibilità di fare arte attraverso un lavoro più mentale che concreto: potevo accedere, attraverso un processo di astrazione, ad un universo segnico non direttamente realistico. All’inizio, poi, c’era l’entusiasmo per l’introduzione del computer in arte. Lavoravo, tra l’altro, con strumenti di fortuna, strumenti analogici o analogico-digitali. Ricordo ancora l’entusiasmo per le prime forme che si visualizzavano sullo schermo, i tempi rallentati, la scansione lenta, la dilatazione del tempo.

A. F.: Non sei mai passato, quindi, attraverso una manualità artistica intesa in senso classico: il disegno, la pittura?
F. C.: In realtà, utilizzo il disegno per la fase progettuale delle sceneggiature, però, ai tempi lenti della pittura a olio preferisco la rapidità del segno ottenuto con gli acquerelli oppure con le ecoline. L’acquerello mi permette, inoltre, di fissare sulla carta gli stati d’animo; posso scrivere qualcosa e disegnare poi a fianco un’immagine, quasi una didascalia.

A. F.: Come una sorta di libro poetico?
F. C.: Sì, degli appunti personali che in alcuni casi posso utilizzare, ripresi con la telecamera, in una videoinstallazione oppure in un’immagine video. Altri restano invece delle annotazioni che fanno parte, però, di una specie di alveo segreto, intimo, un bacino di idee da trasformare in seguito in ambito multimediale.

Codex Multimedia, Le radeau de la Meduse, 1995, videoinstallazione Codex Multimedia, Le radeau de la Meduse, 1995, videoinstallazione Codex Multimedia, Le radeau de la Meduse, 1995, videoinstallazione Codex Multimedia, Le radeau de la Meduse, 1995, videoinstallazione


A. F.: Senti molto forte il bisogno di mediare le tue sensazioni attraverso il mezzo tecnologico?
F. C.: Il rapporto è mediato solo in parte. La grande duttilità di questi strumenti permette un’immediatezza di rappresentazione del tutto simile a quella ottenibile con un disegno o con uno schizzo. C’è un collegamento stretto e diretto tra pensiero e rappresentazione. Questo soprattutto man mano che ci si impadronisce dei mezzi tecnologici, dei programmi, della tecnica. È la tecnica, infatti, che consente di ottenere esattamente quel tipo di immagini, di sfumature, che intendi rappresentare. Per contro, con questi strumenti si può correre il rischio di un eccesso di dispersione: cerchi un’idea e trovi invece altre mille possibili soluzioni, con la conseguenza di perdere completamente di vista quella che era l’idea di partenza. Per questo è molto importante avere ben chiara un’intenzionalità iniziale.

A. F.: Ma la sovrabbondanza di possibilità offerte da questi mezzi, sempre più moderni e sofisticati, può lasciare anche spazio ad un utilizzo creativo della stessa casualità?
F. C.: Certo, capita a volte di trovare casualmente qualcosa. Il più delle volte, però, la nuova immagine corrisponde a qualcosa che già cercavi, qualcosa che già volevi. Come un feedback con il materiale a cui si lavora. Tuttavia, man mano che si padroneggiano le tecniche è più facile partire da una costruzione progettuale ben definita. In questo modo, le riprese e la successiva rielaborazione delle immagini diventano una fase meramente esecutiva.

A. F.: Allora, nel momento in cui effettui le riprese sai già precisamente cosa desideri ottenere?
Codex Multimedia, Le radeau de la Meduse, 1995, still da videoF. C.: Sì, io lavoro per storyboard, che è il racconto, fotogramma per fotogramma, delle sequenze da inserire nel filmato. Il video, d’altronde, è un’opera d’arte che si sviluppa nel tempo e che da questo dipende. Per questo occorre costantemente riferirsi ad una time line, una linea temporale, cioè, che organizza la consequenzialità degli eventi. Non solo, ma nel passaggio da un'immagine ad un'altra, si deve scegliere se dissolvere, se staccare, intervallare, intersecare: e queste sono altrettante vie per esprimere qualcosa che ha che fare con il pensiero e le emozioni perché, in effetti, il video non è altro, per me, che la simulazione di un flusso di emozioni e di pensieri, e questo flusso ha un ritmo, un tempo, una scansione.

A. F.: Colpisce, nei tuoi lavori, il continuo intersecarsi del linguaggio poetico con le tecnologie digitali.
F. C.: La composizione di un lavoro parte sempre, per me, da una evocazione di tipo poetico che deriva o dalla sfera del sogno, o dalla contemplazione, o dall’immaginario puro e, comunque, da un processo evocativo che avviene attraverso il distacco dal dato percettivo e concreto. La telecamera mi permette di recuperare il dato percettivo, mentre l’elaborazione ed il montaggio delle immagini mi consente di attivarne l’evocazione poetica. In questo modo riesco a creare un parallelismo tra il dato reale che ha generato quel tipo di intuizione ed il processo di sintesi.

A. F.: Ma ti coinvolge maggiormente ciò che puoi cogliere dall’osservazione immediata della realtà oppure l’elaborazione che riesci ad ottenerne attraverso i mezzi tecnologici?
F. C.: Considero la trasfigurazione della realtà concreta come una sorta di viaggio conoscitivo. Mi affascina moltissimo il passaggio da un dato reale, cangiante ed effimero, ad un frammento di realtà pensata.

A. F.: Cosa intendi per realtà pensata?
F. C.: Quando uso la telecamera mi immergo completamente nello stupore del guardare. Per realtà pensata intendo il passaggio dallo stupore per il dato percettivo, ad uno stupore ulteriore, di processo, in cui tutto viene assunto in una mia sfera mitica, politica, religiosa. Insomma, tutto quello che ho sentito, che ho visto, mi viene in qualche modo restituito è ciò, ogni volta, mi stupisce. Come se potessi dire: «Ecco, era proprio quello che avevo visto!».
Mi piace moltissimo, per esempio, elaborare un’immagine, proiettarla su un particolare supporto e riprenderla nuovamente per proiettarla ancora su una superficie diversa. Per esempio, nel Radeau de la Meduse l’immagine del corpo dell’uomo, proiettata su una vela, è stata poi ulteriormente ripresa con l’ombra del mio corpo dietro la vela. C’è, quindi, tutto quello che tu dicevi: lo stupore per le immagini della realtà, ma anche lo stupore per ciò che elaboro. E questa dimensione, è vero, mi cattura ancora di più.

Codex Multimedia, Passio e resurrectio, 1999, videoinstallazioneA. F.: Nel video Passio e Resurrectio la scomposizione e ricomposizione delle immagini di un prato in fiore crea una un’infinita successione di immagini mandaliche. Sei affascinato dalle filosofie orientali?
F. C.: Pratico lo Zen da quasi dieci anni, e questo mi ha dato moltissimo, condizionando in parte anche il mio lavoro. Nello Zen è fondamentale il discorso dell’intuizione, del vero volto di sé, dello svuotamento dei pensieri per tornare alla percezione pura, al tempo reale. Esserci, quindi, nel qui ed ora. Questo torna utilissimo quando effettuo delle riprese. Fare riprese vuol dire, infatti, “esserci”. Che cosa c’è, in fondo, di più presente di una telecamera? Tutto ciò che accade può essere rappresentato in tempo reale, ma questo solo se “ci sei”, se ci sei con i movimenti, con la vista, con il rompere la barriera tra osservatore e dato esterno. La sensazione che mi da fare video è l’emozione dell’assenza del tempo.

A. F.: Il video, quindi, come alterazione della struttura del tempo o meglio come alterazione della coscienza del tempo.
F. C.: È vero, per quanto riguarda la modalità di visione si può arrivare ormai a livelli inusitati: rallentare, ingrandire e vedere quindi qualcosa che nella realtà non è percepibile. Questo è ciò che, in parte, differenzia il video dallo stesso cinema. ho una quantità enorme di cassette con immagini riprese in tempo reale, per esempio, delle Codex Multimedia, Passio e resurrectio, 1999, videoinstallazione immagini sulla Medina di Fez, una delle più antiche del mediterraneo. Anni fa, con una telecamera montata con un grandangolo, sono entrato nel labirinto della Medina, un intrico di strade in cui mi sono perso. Ho vissuto così intensamente il trasporto del vedere, del riprendere, che alla fine mi sono realmente smarrito, entrando via via in contatto con immagini sempre più surreali, un corvo che girava intorno un gatto, una persona sulla sedia a rotelle che scompariva in quel dedalo di stradine. Ho capito, a quel punto, che quando abbandoni la coscienza di te stesso possono accadere delle cose incredibili. Ho dimenticato persino di trovarmi in un luogo in cui poteva accadere qualunque cosa. Non ho avuto la sensazione del pericolo. Ero solo concentrato sulle immagini che riprendevo. È stata una delle esperienze più sconvolgenti del video come “non-pensiero”. Era come una focalizzazione, una concentrazione solo su quell’“esserci”.

A. F.: Tu sei stato alcuni anni in Germania. Quanto ha influito sulla tua formazione quest’esperienza?
F. C.: La scuola di Colonia è stata fondamentale. Ero arrivato lì perché un noto videoartista professore a Colonia, aveva notato il mio lavoro. È stato lui che mi ha proposto di frequentare il Dipartimento Media Kunst di Colonia, che aveva solo 10 posti per tutta l’Europa. È una scuola basata sulla ricerca, nel senso che per tre anni la scuola finanzia il lavoro artistico degli studenti, offrendo la possibilità di viaggiare e mettendo a disposizione mezzi tecnici altamente sofisticati.

A. F.: Tu hai iniziato con la musica elettronica ma le tue prime ricerche visuali, prima di diventare Codex Multimedia, sono quelle fatte con il gruppo S.U.I.F.?
F. C.: Se proprio dobbiamo citare le origini, ancora prima di lavorare con Massimo Sanna Codex Multimedia, Abitare il libro, 2000, videopoesiae Elisabetta Saiu (gli altri componenti del gruppo S.U.I.F.), a 21 anni, ho lavorato con un gruppo teatrale a degli spettacoli multimediali. È stata un’esperienza formidabile che mi ha dato la possibilità di utilizzare e interagire con tutti i media del teatro. Allora usavo già il video. Il primo lavoro si chiamava. Urto anelastico, ed è stata un’esperienza folgorante perché lì ho deciso di fare arte. Quando il gruppo teatrale si è scisso è nato S.U.I.F., con cui ho fatto la mia prima esperienza televisiva. Con S.U.I.F. ho iniziato a fare le prime videoinstallazioni, sono stati gli anni di Kiklos e di Katodos. Con questa esperienza ho capito l’importanza di una divisione di ruoli che mantengo ancora oggi. È importante avere un sodalizio con persone che hanno grande capacità tecnica ma anche grande sensibilità artistica. Nel gruppo è stata, poi, molto importante la presenza di Elisabetta che, introducendo l’uso di particolari materiali, cristalli, smalti, ha apportato molto calore nella mia opera. È da allora, infatti, che ho iniziato a lavorare sul connubio tra video e materiali: sale, sabbia, dei sassi, stracci. Ho capito che il video poteva essere un materiale tra i materiali e che ciò poteva dare calore alla tecnologia.

A. F.: Quali sono i tuoi prossimi programmi?
F. C.: C’è l’idea con Quinten Helio Reehuis, un fotografo olandese, di un lavoro che accosta l’immagine fotografica all’immagine video. Lui esporrà delle gigantografie e io, con il video, creerò dei movimenti delle stesse, una sorta di rispecchiamento fra fotografia e immagini video. Un altro progetto è quello con il musicista Romeo Scaccia, a Bruxelles. È uno spettacolo particolare: utilizzerò un sistema di montaggio video attraverso una tastiera. Lui eseguirà al pianoforte Debussy e io “suonerò” con lui su questa tastiera che produce immagini: è un progetto portato avanti con un ricercatore olandese che ha messo a punto questa tecnologia, ancora sperimentale. L’idea è quindi quella di eseguire un concerto di musica classica con immagini “suonate” in tempo reale. Un’esperienza nuova per la quale è necessario, tra l’altro, risolvere anche molti problemi tecnici. È sempre stato un mio sogno, quello di suonare le immagini.

A. F.: Non ritieni che ci sia un rischio nell’eccessivo uso della tecnologia?
F. C.: Credo di sì, è lo stesso rischio che corre la musica contemporanea, il rischio dell’eccesso di tecnicismo o di iperrazionalismo. Ora, se da una parte c’è l’esigenza di un elevato livello di professionalità sia artistica che tecnica, dall’altra si è capito che non serve saper lavorare soltanto al computer per fare arte. Quindi non penso che le tecnologie possano monopolizzare il territorio dell’arte, credo ci sia tantissimo da dire ancora in pittura, scultura o in altre forme d’arte. Credo che la videoarte o mediaarte abbia molto bisogno di essere riscaldata dai materiali, dalla pittura, dalla scultura. Per quanto mi riguarda, nel mio lavoro c’è sempre una forte intenzionalità comunicativa, infatti mi occupo anche di comunicazione multimediale sia attraverso Internet sia con la produzione di CD multimediali.

A. F.: Come concili queste due attività?
Codex Multimedia, Michelangelo Pira, 2000, videopoesia da Abitare il libroF. C.: Per me sono un po’ la stessa cosa, te lo dimostra il fatto che per entrambe uso il nome Codex Multimedia. Nel caso del CD Rom sugli scrittori sardi che ho recentemente preparato per i Saloni del Libro di Torino e di Francoforte, ho lavorato totalmente in maniera video artistica, con la massima libertà, nel senso che sono partito dalla lettura degli autori, dal contatto con loro. Ma poi tutto è stato filtrato da quello che per me è la rilettura. Io dovevo raccontare, ideare un percorso multimediale, uno spazio fortemente denotativo e suggestivo dove lo spettatore potesse entrare in contatto diretto con l’autore non in maniera libresca, ma affascinato dai suoni e dalle immagini. Allora ho avuto l’idea di fare una sorta di videoinstallazione sfruttando l’idea della profondità: creando dei “pozzi della memoria” in cui potersi affacciare e, attraverso video veloci e sintetici, cogliere quello che per me era il carattere fondamentale dell’autore.

A. F.: In che direzione ritieni possa andare un lavoro così come il tuo che si basa sulle tecnologie?
F. C.: Credo che ci sarà un utilizzo molto più integrato delle tecnologie che prima erano molto più separate tra di loro. Oggi c’è un interfacciamento così vicino di tutte le possibilità espressive che sta nascendo un po’ una nuova fase, dove tutto viaggia molto più velocemente nella rete. È possibile interagire con altri artisti anche molto distanti. È molto più facile oggi comunicare, collaborare e creare dei gruppi di lavoro che portano alla contaminazione tra le arti. Oggi, nel campo delle arti, c’è un forte desiderio di condivisione delle poetiche e dei linguaggi.

A. F.: E non si corre così il pericolo di superare le barriere tanto da minacciare le singole identità di espressione?
F. C.: Se nasce qualcosa di bello non credo ci sia questo rischio. Comunque è molto bello che oggi la tecnologia ci offra, sempre più, la possibilità di integrarci gli uni con gli altri.

Francesco Casu è nato nel 1965 a Cagliari, dove vive e lavora.

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