Ziqqurat n°2
Sommario
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A. F.: Come è nata la tua
passione per la video arte?
F. C.: Ho iniziato con la musica elettronica. Il primo
approccio artistico è avvenuto a 15 anni con la scoperta di un
sintetizzatore. Ho capito così che dalla sintesi analogica dei
suoni potevo passare alla sintesi delle immagini e, quindi, alla possibilità
di fare arte attraverso un lavoro più mentale che concreto: potevo
accedere, attraverso un processo di astrazione, ad un universo segnico
non direttamente realistico. All’inizio, poi, c’era l’entusiasmo
per l’introduzione del computer in arte. Lavoravo, tra l’altro,
con strumenti di fortuna, strumenti analogici o analogico-digitali. Ricordo
ancora l’entusiasmo per le prime forme che si visualizzavano sullo
schermo, i tempi rallentati, la scansione lenta, la dilatazione del tempo.
A. F.: Non sei mai passato, quindi, attraverso una
manualità artistica intesa in senso classico: il disegno, la pittura?
F. C.: In realtà, utilizzo il disegno per la fase
progettuale delle sceneggiature, però, ai tempi lenti della pittura
a olio preferisco la rapidità del segno ottenuto con gli acquerelli
oppure con le ecoline. L’acquerello mi permette, inoltre, di fissare
sulla carta gli stati d’animo; posso scrivere qualcosa e disegnare
poi a fianco un’immagine, quasi una didascalia.
A. F.: Come una sorta di libro poetico?
F. C.: Sì, degli appunti personali che in alcuni
casi posso utilizzare, ripresi con la telecamera, in una videoinstallazione
oppure in un’immagine video. Altri restano invece delle annotazioni
che fanno parte, però, di una specie di alveo segreto, intimo,
un bacino di idee da trasformare in seguito in ambito multimediale.
A. F.: Senti molto forte il bisogno di mediare le
tue sensazioni attraverso il mezzo tecnologico?
F. C.: Il rapporto è mediato solo in parte. La
grande duttilità di questi strumenti permette un’immediatezza
di rappresentazione del tutto simile a quella ottenibile con un disegno
o con uno schizzo. C’è un collegamento stretto e diretto
tra pensiero e rappresentazione. Questo soprattutto man mano che ci si
impadronisce dei mezzi tecnologici, dei programmi, della tecnica. È
la tecnica, infatti, che consente di ottenere esattamente quel tipo di
immagini, di sfumature, che intendi rappresentare. Per contro, con questi
strumenti si può correre il rischio di un eccesso di dispersione:
cerchi un’idea e trovi invece altre mille possibili soluzioni, con
la conseguenza di perdere completamente di vista quella che era l’idea
di partenza. Per questo è molto importante avere ben chiara un’intenzionalità
iniziale.
A. F.: Ma la sovrabbondanza di possibilità
offerte da questi mezzi, sempre più moderni e sofisticati, può
lasciare anche spazio ad un utilizzo creativo della stessa casualità?
F. C.: Certo, capita a volte di trovare casualmente qualcosa.
Il più delle volte, però, la nuova immagine corrisponde
a qualcosa che già cercavi, qualcosa che già volevi. Come
un feedback con il materiale a cui si lavora. Tuttavia, man mano che si
padroneggiano le tecniche è più facile partire da una costruzione
progettuale ben definita. In questo modo, le riprese e la successiva rielaborazione
delle immagini diventano una fase meramente esecutiva.
A. F.: Allora, nel momento in cui effettui le riprese
sai già precisamente cosa desideri ottenere?
F.
C.: Sì, io lavoro per storyboard, che è il racconto,
fotogramma per fotogramma, delle sequenze da inserire nel filmato. Il
video, d’altronde, è un’opera d’arte che si sviluppa
nel tempo e che da questo dipende. Per questo occorre costantemente riferirsi
ad una time line, una linea temporale, cioè, che organizza la consequenzialità
degli eventi. Non solo, ma nel passaggio da un'immagine ad un'altra, si
deve scegliere se dissolvere, se staccare, intervallare, intersecare:
e queste sono altrettante vie per esprimere qualcosa che ha che fare con
il pensiero e le emozioni perché, in effetti, il video non è
altro, per me, che la simulazione di un flusso di emozioni e di pensieri,
e questo flusso ha un ritmo, un tempo, una scansione.
A. F.: Colpisce, nei tuoi lavori, il continuo intersecarsi
del linguaggio poetico con le tecnologie digitali.
F. C.: La composizione di un lavoro parte sempre, per
me, da una evocazione di tipo poetico che deriva o dalla sfera del sogno,
o dalla contemplazione, o dall’immaginario puro e, comunque, da
un processo evocativo che avviene attraverso il distacco dal dato percettivo
e concreto. La telecamera mi permette di recuperare il dato percettivo,
mentre l’elaborazione ed il montaggio delle immagini mi consente
di attivarne l’evocazione poetica. In questo modo riesco a creare
un parallelismo tra il dato reale che ha generato quel tipo di intuizione
ed il processo di sintesi.
A. F.: Ma ti coinvolge maggiormente ciò che
puoi cogliere dall’osservazione immediata della realtà oppure
l’elaborazione che riesci ad ottenerne attraverso i mezzi tecnologici?
F. C.: Considero la trasfigurazione della realtà
concreta come una sorta di viaggio conoscitivo. Mi affascina moltissimo
il passaggio da un dato reale, cangiante ed effimero, ad un frammento
di realtà pensata.
A. F.: Cosa intendi per realtà pensata?
F. C.: Quando uso la telecamera mi immergo completamente
nello stupore del guardare. Per realtà pensata intendo il passaggio
dallo stupore per il dato percettivo, ad uno stupore ulteriore, di processo,
in cui tutto viene assunto in una mia sfera mitica, politica, religiosa.
Insomma, tutto quello che ho sentito, che ho visto, mi viene in qualche
modo restituito è ciò, ogni volta, mi stupisce. Come se
potessi dire: «Ecco, era proprio quello che avevo visto!».
Mi piace moltissimo, per esempio, elaborare un’immagine, proiettarla
su un particolare supporto e riprenderla nuovamente per proiettarla ancora
su una superficie diversa. Per esempio, nel Radeau de la Meduse
l’immagine del corpo dell’uomo, proiettata su una vela, è
stata poi ulteriormente ripresa con l’ombra del mio corpo dietro
la vela. C’è, quindi, tutto quello che tu dicevi: lo stupore
per le immagini della realtà, ma anche lo stupore per ciò
che elaboro. E questa dimensione, è vero, mi cattura ancora di
più.
A.
F.: Nel video Passio e Resurrectio la scomposizione
e ricomposizione delle immagini di un prato in fiore crea una un’infinita
successione di immagini mandaliche. Sei affascinato dalle filosofie orientali?
F. C.: Pratico lo Zen da quasi dieci anni, e questo mi
ha dato moltissimo, condizionando in parte anche il mio lavoro. Nello
Zen è fondamentale il discorso dell’intuizione, del vero
volto di sé, dello svuotamento dei pensieri per tornare alla percezione
pura, al tempo reale. Esserci, quindi, nel qui ed ora. Questo torna utilissimo
quando effettuo delle riprese. Fare riprese vuol dire, infatti, “esserci”.
Che cosa c’è, in fondo, di più presente di una telecamera?
Tutto ciò che accade può essere rappresentato in tempo reale,
ma questo solo se “ci sei”, se ci sei con i movimenti, con
la vista, con il rompere la barriera tra osservatore e dato esterno. La
sensazione che mi da fare video è l’emozione dell’assenza
del tempo.
A. F.: Il video, quindi, come alterazione della struttura
del tempo o meglio come alterazione della coscienza del tempo.
F. C.: È vero, per quanto riguarda la modalità
di visione si può arrivare ormai a livelli inusitati: rallentare,
ingrandire e vedere quindi qualcosa che nella realtà non è
percepibile. Questo è ciò che, in parte, differenzia il
video dallo stesso cinema. ho una quantità enorme di cassette con
immagini riprese in tempo reale, per esempio, delle
immagini sulla Medina di Fez, una delle più antiche del mediterraneo.
Anni fa, con una telecamera montata con un grandangolo, sono entrato nel
labirinto della Medina, un intrico di strade in cui mi sono perso. Ho
vissuto così intensamente il trasporto del vedere, del riprendere,
che alla fine mi sono realmente smarrito, entrando via via in contatto
con immagini sempre più surreali, un corvo che girava intorno un
gatto, una persona sulla sedia a rotelle che scompariva in quel dedalo
di stradine. Ho capito, a quel punto, che quando abbandoni la coscienza
di te stesso possono accadere delle cose incredibili. Ho dimenticato persino
di trovarmi in un luogo in cui poteva accadere qualunque cosa. Non ho
avuto la sensazione del pericolo. Ero solo concentrato sulle immagini
che riprendevo. È stata una delle esperienze più sconvolgenti
del video come “non-pensiero”. Era come una focalizzazione,
una concentrazione solo su quell’“esserci”.
A. F.: Tu sei stato alcuni anni in Germania. Quanto
ha influito sulla tua formazione quest’esperienza?
F. C.: La scuola di Colonia è stata fondamentale.
Ero arrivato lì perché un noto videoartista professore a
Colonia, aveva notato il mio lavoro. È stato lui che mi ha proposto
di frequentare il Dipartimento Media Kunst di Colonia, che aveva solo
10 posti per tutta l’Europa. È una scuola basata sulla ricerca,
nel senso che per tre anni la scuola finanzia il lavoro artistico degli
studenti, offrendo la possibilità di viaggiare e mettendo a disposizione
mezzi tecnici altamente sofisticati.
A. F.: Tu hai iniziato con la musica elettronica
ma le tue prime ricerche visuali, prima di diventare Codex Multimedia,
sono quelle fatte con il gruppo S.U.I.F.?
F. C.: Se proprio dobbiamo citare le origini, ancora
prima di lavorare con Massimo Sanna e
Elisabetta Saiu (gli altri componenti del gruppo S.U.I.F.), a 21 anni,
ho lavorato con un gruppo teatrale a degli spettacoli multimediali. È
stata un’esperienza formidabile che mi ha dato la possibilità
di utilizzare e interagire con tutti i media del teatro. Allora usavo
già il video. Il primo lavoro si chiamava. Urto anelastico, ed
è stata un’esperienza folgorante perché lì
ho deciso di fare arte. Quando il gruppo teatrale si è scisso è
nato S.U.I.F., con cui ho fatto la mia prima esperienza televisiva. Con
S.U.I.F. ho iniziato a fare le prime videoinstallazioni, sono stati gli
anni di Kiklos e di Katodos. Con questa esperienza ho capito l’importanza
di una divisione di ruoli che mantengo ancora oggi. È importante
avere un sodalizio con persone che hanno grande capacità tecnica
ma anche grande sensibilità artistica. Nel gruppo è stata,
poi, molto importante la presenza di Elisabetta che, introducendo l’uso
di particolari materiali, cristalli, smalti, ha apportato molto calore
nella mia opera. È da allora, infatti, che ho iniziato a lavorare
sul connubio tra video e materiali: sale, sabbia, dei sassi, stracci.
Ho capito che il video poteva essere un materiale tra i materiali e che
ciò poteva dare calore alla tecnologia.
A. F.: Quali sono i tuoi prossimi programmi?
F. C.: C’è l’idea con Quinten Helio
Reehuis, un fotografo olandese, di un lavoro che accosta l’immagine
fotografica all’immagine video. Lui esporrà delle gigantografie
e io, con il video, creerò dei movimenti delle stesse, una sorta
di rispecchiamento fra fotografia e immagini video. Un altro progetto
è quello con il musicista Romeo Scaccia, a Bruxelles. È
uno spettacolo particolare: utilizzerò un sistema di montaggio
video attraverso una tastiera. Lui eseguirà al pianoforte Debussy
e io “suonerò” con lui su questa tastiera che produce
immagini: è un progetto portato avanti con un ricercatore olandese
che ha messo a punto questa tecnologia, ancora sperimentale. L’idea
è quindi quella di eseguire un concerto di musica classica con
immagini “suonate” in tempo reale. Un’esperienza nuova
per la quale è necessario, tra l’altro, risolvere anche molti
problemi tecnici. È sempre stato un mio sogno, quello di suonare
le immagini.
A. F.: Non ritieni che ci sia un rischio nell’eccessivo
uso della tecnologia?
F. C.: Credo di sì, è lo stesso rischio
che corre la musica contemporanea, il rischio dell’eccesso di tecnicismo
o di iperrazionalismo. Ora, se da una parte c’è l’esigenza
di un elevato livello di professionalità sia artistica che tecnica,
dall’altra si è capito che non serve saper lavorare soltanto
al computer per fare arte. Quindi non penso che le tecnologie possano
monopolizzare il territorio dell’arte, credo ci sia tantissimo da
dire ancora in pittura, scultura o in altre forme d’arte. Credo
che la videoarte o mediaarte abbia molto bisogno di essere riscaldata
dai materiali, dalla pittura, dalla scultura. Per quanto mi riguarda,
nel mio lavoro c’è sempre una forte intenzionalità
comunicativa, infatti mi occupo anche di comunicazione multimediale sia
attraverso Internet sia con la produzione di CD multimediali.
A. F.: Come concili queste due attività?
F.
C.: Per me sono un po’ la stessa cosa, te lo dimostra il
fatto che per entrambe uso il nome Codex Multimedia. Nel caso del CD Rom
sugli scrittori sardi che ho recentemente preparato per i Saloni del
Libro di Torino e di Francoforte, ho lavorato totalmente in maniera
video artistica, con la massima libertà, nel senso che sono partito
dalla lettura degli autori, dal contatto con loro. Ma poi tutto è
stato filtrato da quello che per me è la rilettura. Io dovevo raccontare,
ideare un percorso multimediale, uno spazio fortemente denotativo e suggestivo
dove lo spettatore potesse entrare in contatto diretto con l’autore
non in maniera libresca, ma affascinato dai suoni e dalle immagini. Allora
ho avuto l’idea di fare una sorta di videoinstallazione sfruttando
l’idea della profondità: creando dei “pozzi della memoria”
in cui potersi affacciare e, attraverso video veloci e sintetici, cogliere
quello che per me era il carattere fondamentale dell’autore.
A. F.: In che direzione ritieni possa andare un lavoro
così come il tuo che si basa sulle tecnologie?
F. C.: Credo che ci sarà un utilizzo molto più
integrato delle tecnologie che prima erano molto più separate tra
di loro. Oggi c’è un interfacciamento così vicino
di tutte le possibilità espressive che sta nascendo un po’
una nuova fase, dove tutto viaggia molto più velocemente nella
rete. È possibile interagire con altri artisti anche molto distanti.
È molto più facile oggi comunicare, collaborare e creare
dei gruppi di lavoro che portano alla contaminazione tra le arti. Oggi,
nel campo delle arti, c’è un forte desiderio di condivisione
delle poetiche e dei linguaggi.
A. F.: E non si corre così il pericolo di
superare le barriere tanto da minacciare le singole identità di
espressione?
F. C.: Se nasce qualcosa di bello non credo ci sia questo
rischio. Comunque è molto bello che oggi la tecnologia ci offra,
sempre più, la possibilità di integrarci gli uni con gli
altri.
Francesco Casu è nato nel 1965 a Cagliari, dove vive e lavora. |