Arte contemporanea e cultura in Sardegna e nel Mediterraneo


Ziqqurat n°2
Sommario

Appuntamento con la pittura
G.Demuro

 
di Giannella Demuro

G.D.: Tu hai iniziato ad esporre da giovanissimo, ottenendo quasi subito consensi e riconoscimenti in campo nazionale.
M.C.: Ho iniziato nell’83, avevo 22 anni, in effetti ero ancora un ragazzino. È stata però tutta una serie di grandi fallimenti, anche se quando parlo di fallimenti intendo dare a questo termine un’accezione non necessariamente negativa, nonostante vi siano stati dei momenti parecchio difficili. In realtà, io sono stato quasi sempre tangenziale rispetto alla corrente delle cose che funzionavano.

G.D.: Però il tuo nome è comparso da subito.
M.C.: Si è vero, ma questa è un’altra faccenda. Posso dire di aver avuto una carriera molto atipica che mi ha concesso di poter maturare senza dover pagare eccessivi costi. In questi anni, nel mio lavoro, si sono susseguiti dei cicli via via conclusi, e questo ha provocato una serie di fallimenti. Perché quando si ha una certa notorietà con un lavoro, si creano inevitabilmente delle attese…

G.D.: Ma non credi che queste attese possano poi diventare delle costrizioni, possano cioè tradursi in limite alla libertà creativa dell’artista?
M.C.: Certo, ma a me piace indagare, sperimentare, e quando le cose che faccio iniziano a diventare troppo familiari, quando cioè le conosco, le so fare, allora mi viene meno la carica emotiva per continuare a farle ancora. E così è come se avessi, nel tempo, inseguito quello che chiamo ‘fallimento’. Credo che questa, pur senza volerlo, sia diventata per me una prassi creativa: attraversare dei periodi molto intensi dal punto di vista formale e poi, ad un certo punto, abbandonarli per procedere oltre. Ecco, è come avere sempre il piede sull’orlo del fallimento, perché paradossalmente, non sarebbe stato poi così difficile, con un po’ di variazioni, dipingere dei quadri così per tutta la vita.

G.D.: Ma oltre alla ‘noia’ per un qualcosa che è diventato ormai troppo familiare per offrirti Marco Cingolani, L’attentato al Papa, 1989, olio su tela, 185 x 185 cm.nuovi stimoli, cos’altro ti spinge a cambiare, a percorrere ancora nuove strade?
M.C.: Ci sono quasi sempre delle motivazioni legate all’esperienza. Quello che è capitato nella vita, nella gestione del lavoro, nelle mostre, nel mondo dell’arte porta inevitabilmente a dei cambiamenti. Penso di aver fatto alcuni quadri in netto anticipo sui tempi e questo è spesso una iattura perché la qualità e il successo sono chiaramente legati alla “puntualità”. Un certo lavoro deve arrivare al momento giusto, né un momento prima, perché sarebbe un peccato, né un momento dopo, perché sarebbe un disastro. Però non mi rammarico in nessun modo di ciò che ho fatto, perché ora penso di essere arrivato ad una pittura più matura rispetto alle cose che facevo prima che, pure, potrebbero essere più spendibili adesso sulla scena giovane.

G.D.: Ti riferisci ai lavori dei primi anni ’90?
Marco Cingolani, Intervista a Van Gogh, 1990, olio su tela, 100 x 75 cm.M.C.: Si, un po’ tutta la serie delle Interviste, tutta la serie sul Papa. In qualche modo, questo forte ritorno alla figurazione, fino alla più recente bad painting, inteso come rapporto diretto e vitale verso la realtà o verso la realtà mediata, è qualcosa che io bene o male facevo dieci anni fa’.

G.D.: Mi colpisce il processo di semplificazione che hai attuato in questi anni, nel passaggio da opere caratterizzate da un’alta concentrazione di personaggi e situazioni, come avveniva nei lavori a cui facevi ora riferimento, per arrivare, nei lavori più recenti, alla rarefazione del dato iconografico.
M.C.: Credo che questo cambiamento si debba a un processo di maturazione personale. Sono trascorsi circa dieci anni e questi lavori, che ho realizzato fino al ’93 - ’94, corrispondono alla mia attitudine di allora, diretta e frontale verso la vita. Sono quadri dominati dall’horror vacui e dall’annullamento dello spazio formale: massima concentrazione di personaggi e azzeramento delle distanze, dei piani prospettici. La scena, infatti, non è costruita attraverso il primo piano, la prospettiva, ma a partire dalla pittura, non con il linguaggio della rappresentazione realistica ma con il linguaggio del colore, della forma, della sensibilità.

G.D.: Quindi, questi lavori sono solo apparentemente figurativi?
M.C.: Sono figurativi nel senso che non riuscirò mai a staccarmi completamente dalla figura, ho fatto altre cose quando ero molto giovane ma non mi appartenevano. Vedi, in realtà, se ai miei quadri togli gli occhi, i volti, la riconoscibilità delle persone, ciò che resta è soltanto colore, linea, forma, superficie. In fin dei conti c’è sempre stato, in me, un atteggiamento compositivo molto forte. Certo, basterebbe spostarsi appena, però non ci riesco, non voglio abbandonare la narrazione, perché a me interessa solamente una prospettiva storica, mi interessa l’uomo e i suoi sentimenti.

G.D.: È per questo che i tuoi quadri spesso richiamano fatti di cronaca o eventi salienti del nostro tempo che rimandano, però, a tematiche universali a forte connotazione simbolica?
M.C.: Sì, sulla mia pittura ha inciso inevitabilmente il contesto di quegli anni. I quadri più forti, quelli cioè con maggiore aderenza alla realtà, come Moro o il Papa, sono stati quindi una forma di reazione alle strategie di decostruzione del senso. Ero alla ricerca di temi precisi, di fatti di cronaca, di avvenimenti reali che potessero assumere, come tu stessa dicevi, connotazioni di tipo simbolico. D’altronde non ho mai fatto storia in diretta, e quando questo è accaduto, il riferimento non è mai stato esplicito ma metaforico. Per esempio, nell’episodio dell’astronave russa in avaria nello spazio, all’inizio degli anni ’90, ricordo che mi aveva molto colpito l’immagine dell’astronauta che, finalmente, dopo tanto rientrava sulla Terra: un corpo bianco, calato da uno sportello, così simile al corpo del Papa bianco. Una volta, durante una conferenza, alcuni ragazzi mi chiedevano come mai non avessi dipinto un quadro su Tien an Men, un quadro sulla libertà. Non ho mai voluto farlo perché sarebbe diventato un quadro ideologico, e i miei non sono mai stati quadri ideologici, sono sempre dei quadri sentimentali, universali, se vuoi, senza alcuna appartenenza politica, dove l’unica appartenenza è quella alla tradizione cattolica.

G.D.: In che modo senti questo legame?
M.C.: Al di là della questione personale, in questa appartenenza io trovo il senso della pittura, il senso dell’arte. Credo che l’arte sia una questione cattolica, non ne esiste un altro tipo. L’arte, a mio avviso, è solo occidentale, è quella manifestazione della creatività umana che in Occidente si è codificata con la cristianità. L’arte nasce dall’incrocio fra il concetto greco di bellezza - che è altra cosa rispetto al concetto di arte - con la spiritualità giudaico-cristiana. In fondo tutto questo è accaduto perché c’è stato un uomo, figlio di Dio, nato, vissuto e morto in Palestina che, nei secoli, un manipolo di pittori ha rappresentato con pennelli e colori.

G.D.: Ma così neghi la possibilità di qualunque altra forma di espressione artistica.
M.C.: La creatività è certamente possibile al di fuori del cristianesimo, ma senza Cristo e la sua crocifissione non ci sarebbe stata la pittura. Credo, d’altronde, che un nucleo di spiritualità ci sia ovunque, anche negli indiani d’America o nella Terra del Fuoco, anche in posti, cioè, che fino a cent’anni fa non avevano contatti con la civiltà occidentale, tant’è vero che si producevano manufatti artistici di spessore, altro, comunque, da quello che si intende per arte in occidente. Il luogo dell’arte resta, quindi, soltanto il cattolicesimo. Lo scrittore inglese Chesterton, un cattolico convertito, diceva che «la chiesa cattolica è il luogo dove tutte le verità si danno appuntamento e riescono a convivere». La chiesa cattolica quindi, paradossalmente, è il luogo dove si danno appuntamento anche tutte le eresie, il luogo della “non scelta” in opposizione all’eresia che è il luogo della “scelta”. Non a caso, la tipica posizione eretica è quella dell’aut-aut in contrasto con la compositio oppositorum dei cattolici: l’et-et, il questo e quello. Ora, se tutte le verità si danno appuntamento nel cattolicesimo, che è il luogo dell’arte, si può dire che il Novecento sia stato il punto di ritrovo di tutte le eresie artistiche che, seppure inconciliabili tra loro, sono state ricondotte all’interno di questa grande madre che è la Storia dell’Arte.

G.D.: Come pensi che sia cambiato il tuo lavoro rispetto alle cose che facevi in precedenza?
M.C.: Ci sono dei passaggi che appartengono alla temperatura diversa che ha un uomo di trentotto anni rispetto a quella di un uomo di ventotto. Allora, come ho già detto, ero molto più assertivo e, con tutte le ingenuità di quel periodo, anche la mia pittura lo era, e quindi anche il soggetto diventava un’arma dichiarativa. Se dieci anni fa dipingevo l’attentato al Papa significava dipingere qualcosa che ritenevo più importante rispetto ad altro. Partivo, come ho già detto, da un preciso fatto di cronaca per arrivare ad una prospettiva sovrastorica: l’attacco all’Occidente, nell’attentato alla figura del Papa, e il corpo di Moro, come il corpo vinto di Cristo.
Ecco, questa cosa si è stemperata nel tempo. Oggi è come se mi fossi consegnato totalmente alla pittura, e questa non è più per me un mezzo, come gli altri, che possa meglio o peggio rappresentare il mondo. È diventata, invece, lo scopo stesso del dipingere. Però, quando la pittura diventa lo scopo, il soggetto va in soffitta, anche se poi, in realtà, te lo porti dietro perché ti porti dietro il mondo. La tensione si manifesta, quindi, totalmente all'interno della pittura, e così cambiare la pittura diventa lo scopo del mio lavoro.

G.D.: Oggi quindi un Attentato al Papa non lo rifaresti più?
M.C.: No, ma non è che non lo rifarei in assoluto. Oggi potrei farlo come esercizio di stile, oppure potrei farlo più in là in un momento diverso della mia vita. Ad esempio, mi ha sempre emozionato l’ultimo quadro di Tiziano: lo stesso soggetto dipinto cinquant’anni prima ma in modo completamente diverso. E allora, niente di più facile che possa magari tornare a realizzarlo, ma questo solo quando lo avrò dimenticato, adesso diventerebbe soltanto un’altra dichiarazione, e questo non mi interessa. Oggi voglio cercare di far emergere situazioni sentimentali, romantiche.

G.D.: Questo è il presente, e nel tuo futuro cosa c’è?
M.C.: Ho fatto una mostra a Milano dopo undici anni di assenza, ed è stata, anzi è, una mostra che sta avendo un grande successo. Sono convinto, però, che i quadri che devo ancora finire o che farò domani saranno migliori di ciò che ho fatto finora.

G.D.: Mi pare un’attitudine molto positiva.
M.C.: La maggior parte degli artisti nel giro di quattro o cinque anni elabora una poetica, distilla una forma e un segno propri che servono per continuare a ripetere se stessi, ma solo i migliori riescono veramente a fare questo: Warhol, De Chirico. A questo punto tutto il resto avviene di conseguenza. Pochissimi hanno la fortuna di avere una seconda giovinezza: riprendere a lavorare a cinquant’anni con qualcosa di interessante e diverso. Forse, nel Novecento, ci è riuscito solo Picasso.

G. D.: Ma per fare la “storia” dell’arte occorre necessariamente reinventarsi ogni giorno come Picasso?
M.C.: Io amo anche degli artisti cosiddetti minori - Bonnard, Munch, Soutine - che non sono quelli che hanno stabilito le regole linguistiche dell’arte del ‘900, principalmente sono quelli che hanno messo la loro sensibilità dentro l’opera. Però hanno quel tocco particolare che solamente loro riescono ad avere, perché sono proprio disarmati di fronte alla tela e fanno quello che riescono a fare. A volte non è indispensabile fare dei salti repentini, delle mutazioni radicali. Io amo anche quelli che per tutta la vita hanno lavorato su minime variazioni tonali, che hanno lottato fino alla fine per trovare due accostamenti di colore. Io, purtroppo, ho la sensazione di appartenere a quella razza di artisti che non riescono a stare tranquilli.

G.D.: Che cosa vuoi raggiungere, allora, con la tua pittura?
M.C.:
Mi piacerebbe riuscire a raccontare il sentimento, la tensione verso il sacro e lo spirituale, verso dio. Vorrei che i miei quadri contribuissero a parlare della bellezza del mondo.

Marco Cingolani è nato nel 1961 a Como. Vive e lavora a Milano.

Appuntamento con la          pittura
di Giannella Demuro


Dai “diagrammi” concettuali dominati da campiture timbriche, alla densità cromatica e compositiva delle familiari “interviste”, fotogrammi che registrano riconoscibili fatti di cronaca attinti dall’archivio mediatico di una memoria collettiva, alle pitture oniriche liquide e infuocate dell’ultima ricerca, la personale di Marco Cingolani, tenutasi al Man di Nuoro dal 27 maggio al 9 luglio, ricostruisce attraverso alcune delle sue opere più note e significative, il percorso pittorico e la poetica di uno tra i più interessanti e rappresentativi interpreti della giovane pittura italiana.
Milanese di adozione, Marco Cingolani (nato a Como nel 1961) ha iniziato ad esporre nella seconda metà degli anni Ottanta. Erede, ma non epigono, della Transavanguardia, di quella generazione artistica, cioè, immediatamente precedente la sua, con la sua peculiare pittura Cingolani smentisce la regola che vuole i figli antagonisti dei propri padri. La tesi all’Accademia di Brera su Mimmo Paladino, l’artista esponente del noto movimento che lo ha incoraggiato nelle sue prime prove pittoriche, suggerisce la traccia lungo la quale Cingolani orienterà la sua ricerca. Non certo nel senso di continuatore di una linea ideologica che l’artista sente ormai già distante, quanto piuttosto nel senso di una condivisa certezza dell’incontestabile attualità e rappresentatività della pittura.
Una pittura, quella di Cingolani, che legge la storia nel suo svolgersi, leggera e ironica, ma non superficiale, attenta e critica nei confronti del fragile contesto sociale, culturale ed estetico che abita.
La prima fase della sua indagine, caratterizzata da un’accentuata componente concettuale nelle astrazioni geometriche dei dipinti degli esordi, e nelle successive serie dei Grafici, diagrammi cartesiani realizzati tra il 1996 e il 1998 a rappresentare concettualmente sistemi economici, religiosi o artistici del nostro tempo - quali Opus Dei e M.O.M.A. - si conclude simbolicamente nel 1989 con Liquidare Duchamp, un gesto provocatorio tradotto anche su tela, col quale l’artista sembra voler suggerire la necessità di prendere le distanze da ingombranti eredità estetiche e pratiche artistiche forse già esauste.
Immerso nel clima culturale che chiude gli anni Ottanta, ormai pienamente dominati dalle poetiche dell’immagine, proprio nell’immagine e nel rapporto diretto con la realtà, condizione che annuncia la direzione in cui si muoveranno alcune delle più apprezzabili ricerche degli anni Novanta, Cingolani trova nuovi stimoli al suo lavoro e, sempre nel ’89, realizza l’opera della svolta, Il ritrovamento del corpo di Aldo Moro,Marco Cingolani, Il ritrovamento del corpo di Aldo Moro, 1989, gessetti su tela, 185 x 185 cm. un’opera, scrive Luca Beatrice nel catalogo della mostra nuorese, «coraggiosissima e fuori dal coro che gli garantisce da subito un posto di primaria importanza nel panorama dell’arte italiana».
È un’opera, questa, che declina il nuovo linguaggio pittorico di Cingolani fatto di immagini mediatiche che appartengono ad una memoria collettiva, di eventi sottratti alla cronaca e restituiti alla storia, di fatti che si spogliano del quotidiano e diventano simboli, metafore di realtà universali.
Così, il corpo riverso di Aldo Moro, circondato da una folla tratteggiata nelle singole individualità, racconta - con una naïveté comunicativa che l’artista ottiene utilizzando i gessetti e una tecnica simile a quella dei madonnari - il dramma della vittima sacrificata, la metafora moderna della Deposizione del Corpo.
Ugualmente carica di forti connotazioni simboliche ed emotivamente coinvolgente nell’iconografia mediatica, è la serie dedicata al Papa all’inizio degli anni Novanta, dove particolarmente evocativo è l’episodio dell’Attentato ripetuto in numerose varianti. Non uomo ma puro simbolo, il Papa, spesso privato di una pur superflua riconoscibilità individuale, è evocato unicamente da una vasta campitura bianca al centro della tela: spazio immateriale che congela l’esperienza cronachistica, enucleandone la carica spirituale.
Il lavoro di Cingolani, in questa fase della ricerca, è largamente caratterizzato dallaMarco Cingolani, La morte di Dalì, 1994, olio su tela, 185 x 185 cm. reiterazione dell’immagine: accanto alle opere dedicate a Moro e al Papa, le serie delle Refurtive, delle Conferenze stampa e delle possibili o improbabili Interviste a contemporanei illustri o a grandi protagonisti dell’arte e della storia del passato - Van Gogh, Beckett, Stalin, Scalfaro - si ripetono infinite, (dis)identiche a se stesse, pretesto all’artista per costruire il proprio segno.
Negli anni più recenti, tuttavia, la pittura di Cingolani muta e l’immagine subisce gradualmente un processo di rarefazione. Nascono opere come Terra e cielo da sempre uniti, Confine o La morte di Dalì, del 1994, esposto alla mostra nuorese: i personaggi, non più folla indistinta e formicolante, escono dall’anonimato e diventano protagonisti dello spazio, di uno spazio anch’esso rarefatto e simbolico, mentre una sempre più incisiva stilizzazione li muta da uomini in simboli.
“Innamorato” della pittura, come lui stesso proclama, Cingolani ha progressivamente abbandonato la realtà cronachistica dell’accadimento per una narrazione libera, svincolata dalle strutture di un’iconografia precostituita. È la nuova ultima svolta dell’artista, la scoperta della dimensione spirituale del colore: rossi infuocati o tenui ed pastelli sono abitati da figurine inconsistenti e ombre evanescenti, evocazioni fantastiche difficilmente riconoscibili, se non, forse, attraverso le indicazioni date dallo Marco Cingolani, Il sogno di Nietzsche a Jena, 1998, olio su tela, 92 x 91 cm.stesso artista: San Luca cerca di dipingere, Oscar Wilde a Palermo, Nietzsche e il crocefisso, Ho un’appuntamento.
Se la ripetizione del gesto è stata l’occasione, per l’artista, per avviare una riflessione sul concetto stesso di pittura, ora la sua ricerca è giunta alle sorgenti del colore. Pittura liquida di colore puro dove volteggiano, irreali, le filiformi evocazioni nate dal sogno.

 

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